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Rivista d'arte Parliamone
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Le celebrazioni dell’unità d’Italia

19 Marzo 2011

In questi ultimi tempi sto rivisitando il mio archivio personale, costituito prevalentemente da articoli e riviste apparsi negli anni 1968, 1969 e 1970. Allora avevo 26-28 anni e molta sete di conoscenza. Teatro, cinema, storia, ma soprattutto letteratura sono le materie che raccolsi e che oggi, nello scegliere gli articoli da riproporre, mi sto gustando di nuovo.

Nella mia rivista Parliamone ho una sezione speciale dove pubblico i risultati di una tale appassionata rivisitazione. Si chiama I Maestri. Proprio perché le firme di allora erano e sono tutt’oggi prestigiose. Per esempio, sul Risorgimento, Manlio Lupinacci scrisse vari articoli sul Corriere della Sera.

Uno di questi cade a proposito poiché descrive l’atmosfera di indifferenza in cui cadde la ricorrenza del centenario dell’unità d’Italia. Mario Giordano, oggi su Libero, si chiede del perché nella ricorrenza del 150mo si riscontri tutta questa euforia. Naturalmente la domanda nasconde il dubbio che dietro questa riscossa di patriottismo si celi un intento politico non troppo velato: il tentativo di mettere in difficoltà il rapporto tra Lega Nord e Pdl. Non so se sia la verità.
Da parte mia devo gioire di questa ritrovata concordia nazionale, e dimostrare proprio con l’articolo di Lupinacci come le cose siano in 50 anni radicalmente cambiate.

L’articolo di Lupinacci porta la data del 3 giungo 1970, a ridosso quindi della nota festa della Repubblica che si celebra il 2 giugno.   Sulla mia rivista lo pubblicherò il 29 giugno, ma permettetemi di anticiparlo qui.

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Un secolo da Porta Pia
di Manlio Lupinacci
[dal “Corriere della Sera”, mercoledì 3 giugno 1970]

Siamo alla vigilia del centenario della Breccia di Porta Pia: chi se ne ac ­corge? Ben poco tempo rima ­ne, prima che ritorni il gior ­no commemorativo e questo poco è ancora rattrappito dal ­lo sdraiarsi in esso dell’esta ­te, stagione pigra da per tut ­to, ma in Roma addirittura di catalessi. Dovrebbe manife ­starsi intorno a noi, e in noi, tutto un fervore di propositi, di suggerimenti; dovremmo sobbalzare, vedendo come si sfoglia rapido il calendario, e dirci preoccupati: ma che si fa, che si attende; e invece non si fa nulla, e l’attesa si è addormentata. Anche l’am ­nistia, ecco che se l’è confi ­scata la demagogia togliendo ­le quella dignità che pur avrebbe potuto fingerle il pa ­ludamento dell’onoranza pa ­triottica.

Il governo e il municipio sono in tutt’altre faccende af ­faccendati, che non a organizzare fra tanta disorganizzazione politica e amministrava e sindacale almeno una Festa: una girandola, una luminaria, un carosello a Piazza di Siena, e la solita adunata di no ­torietà accademiche e protocollari nella sala degli Orazi e Curiazi, con l’orazione di un illustre e la presenza di un ministro. Il carducciano «zitte, zitte » dell’Italia grande e una rivolto alle oche del Campidoglio perché non facessero chiasso al suo arrivo a Roma qualche giustificazione in fin dei conti poteva pur averla: quella di « tener la debita osservanza â— In certi passi » e di non amareggiare ancor di più la decaduta gran potestà del cardinale Antonelli; ma qui oggi non c’è bisogno di zittire nessuno, perché nessuno parla e nemmeno bi ­sbiglia di Venti Settembre, di Italia grande e una, del di ­lemma « o Roma o morte » finalmente risolto nel modo migliore. Se si continua così, possiamo andare incontro al ­la bella sorpresa che il Venti Settembre lo celebri il succes ­sore di Pio IX con un solen ­ne « Te Deum » in San Pie ­tro, per ringraziare la Prov ­videnza di aver liberato la Chiesa dall’ingombro e dalle tentazioni del potere tempo ­rale.

Poche anche le pubblicazio ­ni. rari i libri che abbiano colto l’occasione del Centena ­rio per avanzarsi a fargli omaggio di ricerche approfon ­dite, di considerazioni medi ­tate. Un po’ di colore: gli zuavi e i bersaglieri, le scia ­rade di Pio IX, buzzurri e caccialepri, e i portoni serrati del patriziato nero e quelli spalancati del patriziato bian ­co; un po’ di polemichetta sociale: l’organizzarsi della speculazione edilizia; e un po’ di malumore artistico: i nuo ­vi quartieri, i nuovi monu ­menti; ma un bilancio, un consuntivo di questo secolo di coabitazione della capitale ita ­liana e della metropoli univer ­sale, una critica finalmente serena dei motivi e delle ne ­cessità che ci portarono a Roma, non si può dire che ci sia dato di leggerne in quan ­tità. Forse verranno, e voglia ­mo aver fiducia che sarà per più tardi.

*

Intanto ecco almeno un’eccezione, cui auguriamo di essere avanguardia: questo libro: « Un secolo da Porta Pia », edito dalla casa editrice Guida, appena uscito in distribuzione. Lo ha curato, con passione pari alla libertà mentale, Piero Piovani.

In esso quindici storici e scrittori si sono diviso il compito di offrirci un esame rapido, ma penetrante, di quanto fu preparazione, consumazione e conseguenza, negli spiriti e nelle leggi, di un avvenimento nel quale si in ­trecciarono, e parve spesso inestricabilmente, spicciole cir ­costanze di politica cancellieresca e curiale e magnanime ispirazioni dei valori spiritua ­li sommi: la religione e la li ­bertà. Sono quindici autori di origine diversa, di orientamen ­to diverso, e tali diversità si riflettono nello svolgimento del tema da ciascuno prescel ­to; ma è proprio questo suo aspetto a dar valore alle poco più che trecento pagine del volume, che ne assume la ro ­bustezza e la densità di un modello vigorosamente trac ­ciato per quella che dovreb ­be essere la fioritura della cul ­tura italiana sotto l’arco di Porta Pia.

Citare quindici autori è difficile: a farne i nomi sen ­za ometterne nessuno c’è da cadere nello stile dell’elenco dei telefoni; a citarne alcuni omettendone altri, c’è da ca ­dere in quello delle cronache mondane con il loro lusinghie ­ro « notati fra i presenti » e il loro irriguardoso: « e molti altri di cui ci sfugge il no ­me »; una formula che in questo caso sarebbe oltre tut ­to inesatta, giacché nessuno dei nomi compresi fra quelli di Jemolo e Spadolini al prin ­cipio, di Margiotta-Broglio e Piovani alla fine, può a let ­tura conclusa sfuggire alla memoria del lettore. Dobbia ­mo perciò accontentarci di tributare alle loro ugualmen ­te intelligenti fatiche l’omaggio comune di una testimonianza dell’attenzione e delle meditazioni che da esse sono imposte.

Rincrescerà forse loro (me ­no che a uno, mi par di intuire) che la mia testimo ­nianza sia fatta soprattutto di malinconia. A ripercorrere le vicende che ci portarono a Ro ­ma e i sentimenti e le passioni che ad essi diedero così pal ­pitante contenuto, a me è sem ­brato di percorrere le lande di un pianeta spento, del quale ben pochi di noi, per qualche riserva di calore superstite nelle nostre membra, possono il ­ludersi di non avvertire il gelo totale: ma se per poco si guar ­dino intorno si avvedono che troppi altri alzano i baveri e si allontanano in fretta alla ricerca di zolle più vive e cal ­de, magari coltivate a erbacce. E’ che nessuna delle due cit ­tà che allora si affrontarono, e si confrontarono si presenta a questo nuovo confronto del centenario come erede delle pretese allora sostenute: non

la Roma italiana, convinta al ­lora della missione di rappre ­sentare il trionfo « dei lumi », e di schiudere nel suo nome grandi ritorni agli italiani; non la Roma papale, capitale vene ­randa dello Stato antichissimo cui la denominazione di Pa ­trimonio di San Pietro rimasto ai suoi ultimi brandelli rivendicava l’originario compito re ­ligioso. A quel loro passato, tanto la Roma che fa capo al Quirinale quanto l’altra rinser ­rata nell’angustia delle Mura Vaticane, non appartengono più. Entrambe sembrano due grandi cimiteri di illusioni. Oh, con questo non vogliamo dire che siano anche cimiteri di speranze: tutt’altro; ma sol ­tanto che quanto era vivo al ­l’epoca di quel loro confronto è ormai morto. Dall’humus di queste dissoluzioni certamente è legittimo, anzi doveroso, an ­nunciare nuovi rigogli; ma non senza prima essersi rasse ­gnati ad accendere pie lampa ­de sulle tombe.

*

La retorica dei rostri, delle triremi, delle legioni invitte, che fatalmente doveva germo ­gliare, e non mancò chi seppe prevederlo, all’ombra delle grandiose rovine, ce ne ha por ­tate tante altre, di rovine, che vi si potrebbe trovare un mo ­tivo di più all’avversione di tanti italiani per la capitale, se ad accendere le faci di quel ­la retorica non fossero stati italiani di ogni regione, tranne proprio i romani. Oggi il no ­me di Roma non dice più nul ­la agli smagati italiani di quel che diceva un secolo fa: evoca burocrazia, intralci, disordine, rinvii: tre milioni di abitanti non riescono a farne una me ­tropoli; e i famosi « lumi » vi fanno luce fioca. Così, quando si rileggono i nobili accenti che bandivano da Torino o da Firenze la fatalità di Roma capitale, quando si ripensano fermenti che conducevano a cadere a Mentana e a Villa Glori, viene da arrossire an ­che a datare da Roma una cartolina di saluti.
La Roma papale? Conser ­vata nella formula «datum Romae » che mantiene al nome glorioso la qualità di capitale cattolica pur nell’angustia del nome diplomatico di Città del Vaticano, non ha più nulla di ciò che costituiva allora la sua severa grandezza. Più grande, se volete, oggi: più ricca di avvenire, a malgrado o forse a cagione dei turbamenti e delle inquietudini che l’assalgono; ma insomma è un’altra cosa. Appartengo al numero dei po ­chissimi cui dei Patti Lateranensi spiacque per lo Stato italiano il Concordato; ma spiacque anche il Trattato: per la Chiesa e per Roma. Esso mi parve una abdicazione di diritti la cui rivendicazione al ­tera non faceva male a nessu ­no, oramai, ma onorava la continuità di mille anni. Pre ­ferivo che Roma fosse oggetto di contesa piuttosto che di scambio. Poesia, si dirà, e for ­se ancora retorica: può essere: ma se gli avvenimenti di cento anni or sono hanno grandezza, questa è in quella rivendicazione, in quella protesta del « non possumus » la cui intransigenza dava alla nostra impresa la sua misura e la sua dignità.

Articoli correlati”150 ° Italia, la casta dei politici ignoranti che riescono a vivere a loro insaputa.” di Franco Bechis. Qui.

Approfitto per precisare che “il 17 marzo 1861 è stato scelto perché in quel giorno il re Vittorio Emanuele II ha assunto il titolo di re d’Italia davanti al Parlamento (senza, peraltro, preoccuparsi di cambiare il suo numero dinastico).” (qui).

“Incredibile Cascini: «La maggioranza non ha legittimità » di Alessandro Calvi. Qui.

“L’Anm costretta alla retromarcia Alfano: «Visto? Serve la riforma… »” di Stefano Zurlo. Qui.


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