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STORIA: Le donne nella Storia: Anna Comnena e Boemondo

19 Ottobre 2007

di Loreta Cerasi Mandrelli

[L’ultimo romanzo di Loreta Cerasi Mandrelli: “Arlette. Il romanzo di una donna dell’anno Mille concubina del duca di Normandia Roberto il Magnifico e madre di Guglielmo il Conquistatore, Re d’Inghilterra”, Il Segno dei Gabrielli, 1999]

A.D. 1097

Era l’ora terza quando l’eunuco Basilide e la nutrice Zoe entrarono nella piccola stanza dalle pareti ricoperte di legno di cedro. Per un istante la brezza d’aprile sfilò dalla vetrata aperta sul Bosforo fino alla porta, evocando profumi sottili.

Anna[1] stava seduta allo scrittoio d’avorio con le spalle erette, come le avevano insegnato; reggeva nella destra un calamo e guardava dritta davanti a sé con i grandi occhi neri corrugati sotto la fronte convessa. Soltanto la mano sinistra, stretta su un foglio di pergamena, tradiva l’ansia e la paura che le serravano il petto.
Basilide, con la scioltezza derivante dal quotidiano esercizio, s’inginocchiò fino a poggiare la fronte a terra, mentre levava le braccia tese verso Anna. Zoe lo superò lanciandogli un’occhiata di compatimento e, girando intorno allo scrittoio, abbracciò la giovane da dietro, le tolse il calamo dalla mano destra e fece schiudere dolcemente la sinistra avvinghiata al foglio di pergamena. Sempre stringendola a sé, la fece alzare e la guardò fissa negli occhi:
“Ci siamo, piccola!” le disse. “Il gran giorno è arrivato: quante cose avrai da raccontarmi stasera! Pensa, è la prima volta, da quando sei nata, che parteciperai con i tuoi genitori a una cerimonia di Corte in pompa magna! Ho visto la sala delle udienze: i marmi sono stati lucidati, il trono d’oro è splendente, abbagliante; dappertutto sono stesi i tappeti più belli…”
“Ah, Zoe,” sbuffò Anna. “Qui sono in gioco le sorti dell’Impero e tu non vedi altro che questo ciarpame rutilante. Certamente ti aspetti, stasera, di conoscere da me i pettegolezzi di orte…”
“Io non so niente di politica,” ribatté Zoe stringendo gli occhietti furbi annegati nel volto roseo e grassoccio, “ma Alessio in persona ha ispezionato la sala dando le più minute disposizioni. Io stessa l’ho sentito ordinare che, al calar della notte, più di cento candelabri siano accesi nei punti da lui stesso indicati…”
“Mio padre l’Imperatore sa bene che questa messa in scena è necessaria per incantare i barbari e renderli più malleabili. Tu, Zoe, queste cose non puoi capirle…” la interruppe Anna con sufficienza.
“Sarà come tu dici, ma per me questo è l’Impero  ! Come vorrei che esistesse ancora quel trono d’oro che si sollevava in aria mentre in mezzo alla sala uccelli e leoni meccanici, tutti d’oro anch’essi, cantavano e ruggivano racchiusi in gabbie dorate  !”
“Leoni meccanici che ruggiscono!”, interloquì Basilide levando gli occhi al cielo e agitando le mani sopra la testa. “Questa storia ancora non l’avevo sentita…”
Ma Zoe, senza prestargli ascolto, continuò imperterrita: “E’ passato ormai più di un secolo da quando Costantino Porfirogenito[2] riceveva gli ambasciatori dei barbari stupefacendoli con quel meraviglioso meccanismo che, purtroppo, è andato distrutto. Ma non importa, perché oggi ci sarai tu, proprio tu, mia piccola principessa, seduta vicino a tuo padre, ad affascinare con la tua bellezza barbari e cortigiani.” Squadrò Anna dalla testa ai piedi e aggiunse: “La Corte s’inchinerà quando farai il tuo ingresso, abbigliata come una giovane dea, e, poi… poi vedrai finalmente i terribili Normanni inginocchiati davanti a te! Ora devi vestirti: dovrai essere la più bella!”[3]
Lo sguardo di Anna andò pensieroso alla finestra, poi si posò sul largo volto di Zoe.
“Sono settimane che vedo le colonne di fumo levarsi dall’una e dall’altra parte del Bosforo, fuori della città. Ho raccolto le copie delle relazioni arrivate dai temi[4] di qua e di là del mare: tutte parlano d’incendi, saccheggi, violenze inaudite. Ho paura, Zoe.” La voce le tremò: sembrava una bimba spaventata da un’orribile fiaba. “Non li voglio conoscere questi barbari che già tormentano i miei sonni. Non li voglio vedere…!” mormorò quasi piangendo.
 “E tu, proprio tu, saresti la figlia di Alessio  ?!” la rimproverò Zoe scuotendola per le spalle. “Dov’è la mia figlioccia, dov’è Anna Comnena che sogna di essere un giorno Imperatrice dei Romani…? Ha ragione tuo fratello Giovanni: sei una buona a nulla e, fuori di questa stanza, lontana dal tuo amato scrittoio e da quelle cartacce ammuffite, non vali proprio niente  !” Ma l’espressione del volto tradiva, malgrado quelle parole, il grande affetto della nutrice per Anna, che finalmente sorrise:
“Sai bene che andrò e farò la mia parte: persino Giovanni non troverà nulla da ridire sul mio comportamento, anzi, potrà imparare qualcosa in fatto d’etichetta, quella piccola serpe velenosa. Gli farò vedere io cosa significa essere nati nella porpora!”
Zoe approvò con un sorriso ed annuì soddisfatta: la giovane Anna poteva anche aver paura dei terribili barbari, ma l’odio e la rivalità verso il fratello minore avrebbero sicuramente prevalso su ogni altro sentimento.
“E poi,” proseguì lentamente la nutrice, “e poi… avrai accanto tuo padre, il grande Alessio.[5]”
A queste parole Anna s’illuminò e, stringendo forte le mani di Zoe, rialzò il capo con mossa orgogliosa e occhi scintillanti. Quando parlò la sua voce era ferma e decisa:
“Alessio sarà vicino a me, di fronte a tutti, e tutti capiranno che sono la sua figlia prediletta. Mi comporterò in modo talmente regale che nessuno poserà lo sguardo su Giovanni…!”
“Così va bene, piccola mia. Ed ora, andiamo a vestirci.”
S’incamminarono verso lo spogliatoio seguite dall’eunuco che scuoteva la testa sospirando, gli occhi rivolti al cielo e le sopracciglia alzate in segno di biasimo. Quando gli sembrò che le donne procedessero con troppa lentezza, Basilide le affiancò agitando le mani per indurre premura e le incitò con voce querula:
” Presto, presto! Gli abiti da indossare sono tanti, presto!”
Mentre l’eunuco sollevava le vesti sontuose dai cassoni, carezzandole e disponendole accuratamente su un’asse di legno ricoperta da un telo di lana bianca, Anna lasciò cadere l’ampia vestaglia macchiata d’inchiostro che indossava abitualmente e, aiutata da Zoe, si sfilò dal capo la camicia da notte di lino restando nuda davanti a Basilide e alla nutrice. Questa ristette un attimo a osservarla, quindi la spinse verso un grande specchio veneziano che ornava una parete; le raddrizzò il busto con un colpetto in mezzo alle spalle e le sollevò il mento costringendola ad ammirarsi.
Anna vide riflessa la sua immagine di fanciulla slanciata, dalla pelle non bianchissima, un po’ dorata e un po’ olivastra come quella del padre, con due bande di capelli neri che le ricadevano oltre le scapole e sul seno ancora immaturo. Il viso, dall’espressione seria, le parve perfetto, tranne il naso, aquilino e un po’ troppo grande: anche quello eredità paterna, pensò; ma, quando animò il volto nel sorriso, quel tratto pronunciato dei lineamenti parve annullarsi nello scintillio degli occhi neri e nel bagliore dei giovani denti larghi e un po’ radi che sembravano invaderle il volto. Si piacque: se sorrideva, era fulgida. Lasciò scorrere lo sguardo sul suo corpo, notando con soddisfazione che i piccoli seni da qualche tempo si stavano gonfiando e sembravano sul punto di esplodere; ammirò come cresceva il suo fisico di adolescente, ancora incerto tra pubertà e giovinezza, e si compiacque della peluria ricciuta del pube, testimonianza eloquente del suo precoce essere donna. Poi sollevò i capelli sul capo con le braccia alzate e si girò lentamente per osservare meglio il dorso e le natiche rotonde di bambina.
L’eunuco sbuffò e batté le mani irritato: “E’ tardi – disse – è tardi. Non si può perdere altro tempo!”
Anna lo guardò sorridendo, finalmente rasserenata, e gli rispose:
“Se faremo tardi, mio padre mi perdonerà; in quanto agli altri… aspetteranno! Io sono la figlia primogenita di Alessio!”
Zoe scoppiò a ridere e, spingendola verso il tavolo dei profumi mormorò  quasi fra sé e sé: “Dici di aver paura!? Ma sono i barbari che dovrebbero aver paura di te e non viceversa!   Quando sarà tempo, non vorrei essere nei panni del tuo sposo, mia piccola basilissa.”

Ci vollero tre ore per agghindare Anna.  
La nutrice si fece aiutare da due ancelle turche che spalmarono olio profumato sul corpo e sui capelli accuratamente inanellati della giovane principessa. Poi le lustrarono i denti con salvia ed altre erbe odorose, indi fu la volta dell’henné intorno agli occhi e del cinabro sulle gote e sulle labbra; infine, su tutto il volto, fu soffiata una nuvola d’impalpabile polvere d’oro. Zoe chiuse un attimo le imposte, accese un candeliere e lo sollevò per ispezionare attentamente il viso della fanciulla, annuendo soddisfatta quando vide che alla luce delle candele quel volto sembrava irradiare una luce preziosa. Le infilò quindi le calze di seta dorata, lunghe fino al ginocchio, poi una serica sottoveste di colore giallo e, sopra di questa, una tunica più corta di pregiata stoffa blu, fittamente intessuta di stelle d’oro. Completò l’abbigliamento ponendole indosso una clamide tutta dorata che, si diceva, fosse stata conservata per secoli nei guardaroba imperiali. Le appuntò sul petto una spilla adorna di gemme e diamanti e, da ultimo, fattasi improvvisamente seria, le calzò con reverenza gli stivaletti di porpora.[6] Compiuto quest’ultimo atto della vestizione, la nutrice prese Anna per una mano, la fece alzare in piedi e, solo allora, con gli occhi gonfi di commozione, fece un passo indietro e s’inginocchiò prostrandosi davanti a lei. L’eunuco cadde anch’egli in ginocchio e rimase con gli occhi fissi a terra.
Dopo un lungo attimo di silenzio, Anna ordinò con voce ferma:
“Alzati, Zoe. Oggi voglio portare il diadema di turchesi e zaffiri che appartenne a Teodora.[7]Fa’ presto, non posso indugiare oltre, l’Imperatore mi attende.”

La sala del trono del Grande Palazzo sul Corno d’Oro sembrava un’immensa, scultorea composizione risplendente di colori accesi, di porpora, d’ori lucenti. Il profumo dell’incenso sovrastava denso e penetrante su ogni altro odore corporeo emanato dalla folla di cortigiani, ambasciatori, generali e preti: tutti accaldati dal peso delle vesti cerimoniali e dall’emozione. Nessuno parlava. L’innaturale silenzio rafforzava nei presenti la convinzione di far parte di uno spettacolo irreale, al limite dell’umano e sconfinante nel divino.
Ai lati della grande porta di bronzo che si sarebbe aperta davanti ai visitatori, si snodavano sino alla parete di fondo sette file di scanni intagliati e ornati da fregi d’oro. La prima fila era posta a livello del pavimento di porfido; le altre, poggiate su pedane rivestite di velluto rosso, erano situate gradatamente più in alto, secondo il rango di coloro che vi sedevano. Sette file di personaggi, titolari di cariche altissime, occupavano la grande abside; anch’essi erano disposti a gradini convergenti con progressiva elevazione verso il centro dove un basamento dorato sorreggeva il gran trono aureo occupato dall’Imperatore Alessio e dalla Basilissa Irene. Leggermente più in basso e disposti a semicerchio, sedevano l’Imperatrice madre Anna Dalassena, la bellissima Maria, già moglie di due imperatori e consigliera prediletta del sovrano, quindi Anna atteggiata in una studiata posa, con un libro nella mano sinistra all’altezza del seno e un calamo d’argento stretto nella destra a sfiorare il labbro. Al suo fianco, Giovanni, il secondogenito.
La luce proveniente dalle vetrate colorate si proiettava direttamente sul palco imperiale, perché l’ora dell’udienza era sempre fissata tenendo conto di quel particolare effetto luminoso.
I re, gli ambasciatori e quanti altri erano ricevuti in solenne udienza, si arrestavano e cadevano attoniti in ginocchio di fronte alla bellezza e al fasto dell’incredibile scenografia  che si presentava ai loro occhi. La disposizione elevata del palco imperiale costringeva ciascuno a piegare il capo all’indietro per rivolgere lo sguardo all’Imperatore, avvolto nei paramenti d’oro e di porpora. La sua figura ieratica si stagliava, come una divinità, contro un immenso mosaico absidale raffigurante le sfere celesti e un Cristo Pantocratore che sembrava accogliere fra le braccia aperte il sovrano e la sua famiglia.
Quando il cerimoniere annunciò che il Principe dei Normanni impetrava la grazia di essere ricevuto dal Signore dei Romani, il cuore di Anna batté forte. Le avevano raccontato che Boemondo d’Altavilla[8], figlio di Roberto il Guiscardo, era un terribile guerriero, grosso, orrendo e deforme, animato da inestinguibile odio nei confronti dei Romani. Fu assalita di nuovo dalla paura, ma percepì di sfuggita l’occhiata malevola che il piccolo Giovanni le rivolgeva e il ghigno di scherno che gli torceva lievemente la bocca; raddrizzò le spalle e, tenendo il capo più eretto che mai, si preparò a far cadere lo sguardo impassibile sul mostro che stava per entrare.
A un cenno del Sovrano la porta di bronzo si aprì: inquadrati come fossero ad una parata e marciando pesantemente al passo, entrarono gli ambasciatori dei Normanni. Davanti a loro avanzava un guerriero dall’alta statura il cui portamento esprimeva una naturale autorevolezza: Boemondo.
Anna sentì che il respiro le si fermava in petto e le sembrò che il quadro rifulgente di cui faceva parte, scolorisse d’un tratto: un raggio di sole, battendo sul capo di Boemondo, parve concentrare tutta la luce dell’immenso salone sulla massa dei riccioli di un incredibile colore biondo[9] che ornava la testa del Normanno. Anna non aveva mai visto capelli di quella tinta! Si costrinse a distogliere lo sguardo e ad osservare il suo seguito: notò che quegli uomini non indossavano abiti da cerimonia, ma elmi, armature e schinieri; ben lucidati, è vero, ma pur sempre minacciosi. La giovane, che aveva ereditato l’intelligenza e la perspicacia dei Comneni, analizzò il significato di quell’inconsueto abbigliamento e subito ne dedusse che i Normanni volevano ostentare la loro forza militare. Era chiaro che venivano a rendere omaggio all’Imperatore dei Romani solo perché si trovavano a corto di viveri, strettamente controllati dai mercenari Peceneghi di Alessio e impossibilitati a traghettare le truppe in Asia senza l’aiuto della flotta bizantina. Quell’esibizione di forza davanti alla maestà dei sovrani e il voluto disconoscimento del protocollo e dell’etichetta di corte erano, in realtà, un segno di debolezza: i Normanni dovevano sfamare se stessi e la smisurata folla di straccioni sopravvissuti alla Crociata di Pietro Cocolla.[10]
Era, in ogni caso, gente che si poteva comprare. Ma quale sarebbe stato il prezzo?
Volse lo sguardo verso Alessio e capì, da un impercettibile strizzare d’occhi, che anche suo padre condivideva quella valutazione. La paura infantile dei barbari disparve all’improvviso, sconfitta dal demone dei Comneni, quel demone della politica che era la più segreta passione di Anna.
Con le labbra appena dischiuse e il respiro fattosi più rapido seguì il lento incedere degli stranieri tra le file dei dignitari, tutta protesa verso il momento in cui il Principe dei Normanni avrebbe raggiunto i gradini del trono. Solo allora l’Imperatore avrebbe cominciato a parlare, dando il segnale d’inizio alla difficile partita che entrambi, con astuzia ed accortezza, avrebbero giocato per il raggiungimento dei propri fini.
Boemondo – finalmente! – si fermò ai piedi di Alessio, il ricco mantello gettato con negligenza sulla spalla destra, a celare il gibbo che la sollevava, la mano sinistra poggiata sull’elsa ingemmata della spada che gli pendeva al fianco. Portando indietro il capo, guardò dritto in faccia l’impassibile sovrano, sfoggiò un breve sorriso e, quindi, piegò un ginocchio a terra e chinò la testa a rendere omaggio. Ancora inginocchiato volse indietro lo sguardo e fece cenno agli altri Normanni che lo imitarono sveltamente; quindi, con la mano destra protesa verso l’esterno, ordinò ai suoi uomini di restare in quella posizione, mentre egli si rialzava agilmente e -fatto inaudito! – saliva rapido i gradini che lo separavano dal trono imperiale.
Gli arcieri, dall’alto delle logge dove sostavano, tesero gli archi. Alessio sorrise lievemente ed annuì verso Boemondo che aveva lanciato una rapidissima occhiata in su, attratto dal movimento degli armigeri. Gli occhi del Normanno tornarono a posarsi sul volto dell’Imperatore con un breve cenno d’assenso e un’impercettibile alzata di spalle.
Ora Boemondo, ritto sulla gran pedana che ospitava il trono, non doveva più forzare la testa indietro per guardare in faccia il sovrano. Accennò un inchino all’Imperatrice Madre, alla vedova dei precedenti Imperatori e al piccolo Giovanni; chinò quindi il capo verso Alessio quasi a chiedere il suo permesso e, inginocchiatosi, prese la mano sinistra della Basilissa Irene – donna di straordinaria bellezza – baciandola lievemente con quella galanteria per cui andavano famosi i Franchi. Si rialzò in piedi e, spostandosi di lato, si fermò davanti alla giovane Anna, le sorrise e le fece un profondo inchino.
In quel gesto, i riccioli biondi del suo capo sfiorarono leggermente la clamide d’oro della fanciulla che sentì le vene tremarle, mentre un brivido le serpeggiava lungo la schiena…
                                                                                         

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A.D. 1143

Anna sollevò la testa grigia dal foglio che aveva riletto per la terza volta, si stropicciò gli occhi stanchi ed emise un sospiro di soddisfazione. Volse lo sguardo verso la luce del Bosforo imporporato dal tramonto e pensò, come sempre, che quella finestra era l’unica ricchezza della nuda cella conventuale in cui il fratello l’aveva relegata venticinque anni prima.
Giovanni era uscito vincitore nella dura lotta per il potere iniziata da molto tempo con la sorella e terminata sul letto di morte del padre.
Anna, benché nata nella porpora[11] e destinata fin da piccola al trono imperiale, era stata sconfitta.
L’Imperatore Alessio Comneno, pur sembrando accondiscendere alle pressanti insistenze della moglie Irene e della figlia Anna, perché nominasse suo successore il marito di quest’ultima, Niceforo Briennio, negli ultimi istanti di vita aveva messo l’anello col sigillo imperiale al dito del figlio. Madre e sorella avevano allora congiurato per uccidere Giovanni durante i funerali del sovrano, ma il giovane, avvertito, non era comparso alla cerimonia e il complotto era fallito.
Anna Comnena, la donna che aveva conosciuto il potere, l’ammirazione, gli affetti, si era dovuta rassegnare alla segregazione perpetua e all’isolamento dalla vita pubblica, dagli onori, dal lusso. Ma l’aveva fatto con intelligenza e dignità.
Dotata di grande cultura e di acuto intelletto, si era dedicata, nel silenzio e nella pace della vita monastica, alla stesura della storia del regno di suo padre, componendo quell’Alessiade che avrebbe tramandato ai posteri il valore di Alessio e la pochezza, al confronto, dell’odiato Giovanni.
Ed ora, anch’egli era morto; l’aveva appreso dalla lettera giuntale poc’anzi. La rilesse con compiacimento:
Giovanni fu ferito da una freccia durante una caccia. La ferita si è infettata ed è morto, nei pressi di Antiochia, oggi, 8 aprile. Ha designato Imperatore il figlio minore Manuele che ora si accinge a riportare l’esercito in Patria.’
Non c’era firma, ma Anna conosceva bene il suo corrispondente! Da vera statista e pur confinata nel chiostro, aveva intrattenuto rapporti epistolari con sovrani e lacchè, sempre pensosa della grandezza del ‘suo’ Impero. I carteggi degli anni della segregazione erano custoditi lì, in quell’umile cella disadorna in cui era vissuta apparentemente domata.
Che sollievo, la morte dell’aborrito fratello! Sentì l’anima lieve come ai bei giorni dell’adolescenza. Si affacciò alla finestra sul Bosforo errando a lungo con lo sguardo sui luoghi ben noti.
Calava la sera e i contorni delle cose emergevano sfumati dalla nebbia azzurrina che uniformava e appiattiva il panorama. La visione del mare e del porto, che aveva ammirato quotidianamente da quell’osservatorio privilegiato, apparve ad Anna come un prodigio di serena bellezza, di compiuta armonia. Il suo animo, finalmente placato, ora poteva contemplare senza rimpianto il ‘suo’ Palazzo, e ricordare l’amato sembiante del padre chino su di lei a rallegrarsi per i suoi studi. Anche il volto esecrato del fratello le invase la mente in un lampo di nitidi ricordi: l’odio reciproco, la lotta per il trono, e, ancora più lontano nel tempo, ma pungente come allora, il ghigno di Giovanni per l’inchino di Boemondo… già… Boemondo…
Dai recessi della memoria balzò, intenso e incredibilmente vivo, il ricordo di un giorno straordinario in un lontano aprile: erano passati quarantasei anni e le sembrava ieri!  Giunse le mani che il trascorrere del tempo non aveva segnato: erano ancora piccole, bianche e morbide come in quel primo ed unico giorno che l’aveva visto. Anche allora le aveva giunte e strette forte per nascondere il tremito che la scuoteva.
Boemondo…
Non lo aveva più visto dal quel giorno, però si erano scambiati in segreto tante lettere: molti eventi politici avevano portato il segno occulto della loro corrispondenza. Sospirando pensò che avevano sempre diffidato l’uno dell’altra e sacrificato tutto alla politica: lui inseguendo il sogno di ritagliarsi un regno in Oriente, lei perseguendo l’impegno di lealtà verso l’Impero.
Forse un altro genere d’alleanza sarebbe stato più propizio ad entrambi e allora, la Storia di quei decenni, avrebbe seguito un corso diverso.
Anna ricordava bene che tutto era cominciato quel dieci di aprile del 1097, quando Alessio, nonostante il giuramento di vassallaggio pronunciato solennemente da Boemondo, non aveva concesso al Normanno la nomina a ‘Gran Domestico’, cioè il Vicariato Imperiale in Asia che lui chiedeva. Anna aveva compreso la sottigliezza politica del padre, tesa alla riconquista dei beni dell’Impero attraverso Principi crociati di varia estrazione e, spesso, feroci antagonisti tra loro; in cuor suo, però, non l’aveva approvata.
L’Imperatore, senza pronunciarsi chiaramente con Boemondo, aveva preferito stringere un patto segreto con il suo rivale, Raimondo di Tolosa, e così si era procurato un nemico mortale nel Normanno!
Eppure, sebbene lontani l’uno dall’altra e, in un certo qual modo, avversari, lei e Boemondo avevano avuto in comune un sentimento coltivato e nutrito quotidianamente: l’odio verso Giovanni, quel fratello che non l’aveva mai amata e che aveva ordito con tecnica sopraffina l’assoggettamento del Normanno.
Giovanni, infatti, sempre accanto al padre sul teatro di guerra, aveva approfittato dell’assenza di Anna per sfruttare a suo vantaggio e rendere più pesante l’umiliazione subita da Boemondo, sconfitto a Durazzo dalle truppe al comando personale dell’Imperatore. Il Normanno che sognava di conquistare un Impero aveva dovuto, invece, sottoscrivere un trattato[12] nel quale si dichiarava vassallo, non solo di Alessio, ma – inopinatamente e con clausola aggiunta all’ultimo momento – anche di Giovanni, presunto successore del padre. Per ironia della sorte, era stato proprio il marito di Anna a convincere Boemondo alla sottomissione!
Un messaggio segreto, non firmato, ma autenticato, com’era costume del Normanno, da un inconfondibile ricciolo biondo, aveva rivelato ad Anna che Boemondo non si era più ripreso dall’onta di quell’insuccesso e non era più tornato in Oriente, per non ottemperare alle clausole del trattato.
Tre anni dopo era morto oscuramente in Italia.
Anna sorrise rammentando come, in quel primo, lontanissimo, unico incontro, avesse immaginato per un attimo di sedere un giorno accanto a lui, sul trono di Alessio, al culmine di un Impero rinnovato dalla vigorosa linfa del sangue normanno. Sorrise, guardando lontano, oltre le brume purpuree del Bosforo, rivivendo e assaporando quel puerile sogno di fanciulla imperiale. Poi il sorriso si spense e il volto s’indurì al ricordo dello sguardo maligno e sogghignante del fratello che la scrutava e sembrava leggerle nell’anima, mentre Boemondo s’inchinava davanti a lei.
Spinta dall’improvviso ricordo, Anna rovistò fra le carte che riempivano un cassettone d’avorio, unico arredo che, insieme con uno scrittoio intarsiato, il fratello le aveva consentito di portare con sé dal Grande Palazzo. Frugò a lungo, mentre l’ombra della sera riempiva la stanza; infine accese una lucerna e trovò, ormai ingiallito, il foglietto che cercava. Lo portò sotto la luce e lo rilesse lentamente, mentre gli occhi le scintillavano d’antico odio. Era un breve epigramma che recitava:

“…Per l’occasione
vestì di porpora e naftalina;
d’argento un calamo
rubato a Konya[13]
portava al labbro;
benigno cenno
per il gran barbaro,
per la gran gobba,
la corta chioma
che, nell’inchino,
le sfiora il pube.”

Giovanni l’aveva frettolosamente composto il giorno che Boemondo si era presentato alla Corte e, attraverso i compiacenti cortigiani che sempre lo circondavano, l’aveva fatto circolare durante la cena di gala allestita nel favoloso palazzo dei Comneni alle Blachernae.[14]
Anna ricordava bene gli sguardi ammiccanti dei commensali e lo sforzo sostenuto per continuare a sorridere e conversare fino all’ultimo brindisi, pur sentendosi addosso gli occhi di Giovanni che aspettava perfidamente di vederla andar via piangendo, in preda a una crisi infantile.
Ma non era fuggita, e non solo per orgoglio: c’era stata anche un’altra ragione. Infatti, nonostante la brutalità dell’epigramma e le velenose occhiate del fratello, era rimasta al suo posto soprattutto per contemplare il bel Normanno.
Boemondo sedeva a capotavola con Alessio e gli altri dignitari; le dame e le fanciulle occupavano gli scanni laterali. Dal suo posto Anna poteva vedere il barbaro di profilo, e ammirarne i lineamenti virili che paragonava a quelli d’Alessio che gli sedeva accanto. L’aspetto giovanile e la prestanza[15] di Boemondo giocavano a suo favore, nel confronto, e la fanciulla, solo a guardarlo, si sentiva sciogliere da una sensazione sconosciuta che le attraversava le viscere. Fingeva allora di guardare suo padre e gli sorrideva, per farsi notare dall’ospite.
Il Normanno, gettando ogni tanto un’occhiata verso le dame, aveva incontrato più volte il sorriso della giovanissima Anna e l’aveva ricambiato, parendogli che fosse rivolto a lui. Lo sguardo azzurro e quello bruno si erano fusi con semplicità e candore, ma le loro bocche avevano taciuto: lui per deferente rispetto, lei, per giovanile, femmineo pudore.
Tre ore era durato il banchetto, un’intera sera, ed essi non si erano mai parlati.
Anche le gentildonne presenti erano state conquistate dalla bellezza e dalla prestanza di Boemondo. Una giovane dama di corte, sposata da poco con un anziano e ricchissimo dignitario, aveva mormorato:
“Quello, se ti abbraccia ti spezza.” E poi, ridacchiando con le amiche, aveva aggiunto a voce più alta:
“Povera moglie, schiacciata da quel fascio di muscoli!”
Anna si era sentita venir meno ad evocare quell’immagine nuziale ancora ignota alla sua esperienza di fanciulla.
Poi la cena era finita; gli uomini si erano inchinati alle dame prima di ritirarsi in un’altra sala.
Non lo aveva più rivisto.
Gli anni erano passati portandole in dono il matrimonio tranquillo con un tiepido, erudito consorte, quindi la lotta per il potere che l’aveva annientata e, infine, il chiostro, quasi un carcere.
Alzò le spalle: ormai più nulla aveva senso. Alessio, il padre adorato, era morto da tanto tempo; Boemondo – così intrepido e bello! – s’era spento ancor prima, chissà dove… Ed ora scompariva anche l’odiato Giovanni, dopo aver imposto al popolo di chiamarlo ‘Kalojoannes’, ‘Giovanni il Buono’ e agli storici ufficiali di qualificarlo come ‘il più grande dei Comneni’.
Lei era stata chiusa in un convento e, a sessant’anni, era come morta. Quella cella era popolata di fantasmi: tutti gli uomini della sua vita, compagni di memorie dolorose, le affollavano come ombre la mente. Coloro che avevano segnato le tappe più importanti del sofferto destino che aveva avuto in sorte si mescolavano indistinti, sovrapponendosi l’un l’altro nel pacificato ricordo:  i lineamenti del fratello usurpatore, il corteggiamento del fidanzato, Costantino Ducas, designato all’Impero e prematuramente morto, la dolcezza del marito, mite e colto, il volto del padre amatissimo; e lui, Boemondo, l’uomo di un solo giorno di primavera.
Sollevò la mano nell’aria e carezzò con pietà l’ombra di Niceforo; anche ora, così come le accadeva abbracciandolo nel letto coniugale, l’immagine parve tremolare e confondersi simulando alternativamente le sembianze gravi del padre e quelle fiere del Normanno. Si passò esitante una mano sul grembo e risentì la carezza lontana di quella testa bionda che la sfiorava nell’inchino…                      

Anna lasciò cadere il foglio dell’epigramma e posò le mani su un grosso volume di pergamena aperto su un leggìo di fianco alla finestra: le pagine fittamente scritte erano la sua vendetta postuma: anche dopo morta, le sue parole avrebbero narrato ai posteri la grandezza d’Alessio e, al paragone, la pochezza e la perfidia di suo fratello.
Non Giovanni, ma Lei, aveva scritto la Storia di quei decenni; tutti avrebbero saputo che il più grande dei Comneni era stato Alessio, non quel Giovanni del quale aveva tracciato un impietoso ritratto: ” … quell’essere di carnagione scura, dalle guance scarne, dalla fronte larga…dal naso né camuso né aquilino…” [16]  
Sfogliò il volume nervosamente fino a trovare il passo che cercava: “Boemondo, il peggiore degli uomini e tutti quelli della sua risma, avevano messo gli occhi sull’Impero…”[17]
Giovanni, l’aveva incessantemente fatta spiare fin dal primo giorno della sua segregazione e aveva ordinato di copiare nascostamente l’Alessiade che Anna andava scrivendo. Egli, perciò, non aveva mai dubitato della veridicità del passo riguardante il Normanno e mai aveva sospettato la dissimulazione della sorella!
Ora che, finalmente, il fratello era morto, bisognava ristabilire la verità.
Anna sorrise e, con la vivacità di un tempo, afferrò il volume, si precipitò allo scrittoio, intinse la penna e rese finalmente omaggio a Boemondo, descrivendo esattamente, con l’oggettività dello storico che relega la passione nell’oscurità dell’anima, tutto ciò che aveva osservato e pensato in occasione del loro unico incontro.
“… non si era mai visto prima, nel territorio dell’Impero, un uomo simile, né barbaro, né greco; la sua vista ispirava ammirazione, la sua fama lasciava attoniti… La sua statura superava di quasi un braccio quella degli uomini più alti: vita stretta, fianchi sottili, largo di petto e di spalle, con braccia robuste… un’incarnazione del canone di Policleto. Aveva mani forti, era ben piantato sulle gambe, robusto di collo e solido di spalle. Ad osservarlo bene, sembrava leggermente curvo: non erano i postumi di una malattia vertebrale, ma si trattava, a quanto pareva, di una malformazione congenita, quasi impercettibile. La pelle era candida, solo la carnagione del volto era più accesa. Aveva i capelli biondi, ma non ricadenti sulle spalle, come gli altri barbari: Boemondo portava la chioma tagliata alle orecchie. Non so dire se avesse la barba rossa o di un altro colore, perché il rasoio aveva reso la sua pelle più liscia del marmo; ma pareva anch’essa rossiccia. Gli occhi erano azzurri, lo sguardo pieno di coraggio e dignità. Era un uomo piacevole, di un fascino venato dal timore che incuteva con tutta la persona. Da tutti i pori emanava come una sensazione di selvaggia durezza: la sua statura, il suo sguardo, persino la sua risata, davano il brivido ai presenti. Aveva un’intelligenza versatile, astuta, capace di trovare la via d’uscita in ogni circostanza. Con tutte queste caratteristiche, era inferiore soltanto ad Alessio… “[18]

Dalla finestra, portate dalla brezza della sera, penetravano nella cella, a frammenti, le voci di Costantinopoli: il salmodiare dei preti in processione a Santa Sofia e le ritmiche acclamazioni del popolo per il nuovo Imperatore, Manuele Comneno, figlio di Giovanni, nipote d’Alessio.
Anna, infastidita, andò a chiudere accuratamente le imposte e tornò allo scrittoio; si passò una mano fra i capelli grigi e con l’altra si sfiorò le labbra distese in un lieve sorriso.
Riprese la penna fra le esili dita macchiate d’inchiostro e continuò a scrivere.


  • 1. Anna Comnena (1083-1153). Figlia primogenita di Alessio I Comneno, Imperatore di Bisanzio, e di Irene Ducas. Insieme alla madre tentò di farsi designare erede al trono fino sul letto di morte del padre che non volle pronunciarsi. Congiurò contro il fratello Giovanni che si era fatto proclamare Imperatore (1118) e fu chiusa in un convento dove visse e morì in condizioni di assoluto isolamento. Dedicò la sua vita a scrivere la storia del regno del padre, “Alexias”, l’opera storiograficamente e letterariamente più importante di quel periodo.
  • 2. Costantino VII (913-979)
  • 3. L’avvenimento si colloca al 10 aprile 1097, quando il normanno Boemondo fu ricevuto ufficialmente dall’Imperatore. Le sue truppe, sebbene più disciplinate di altre, saccheggiavano i dintorni di Costantinopoli, come avevano già fatto, in maniera peggiore, i seguaci di Pietro Eremita e gli eserciti dei vari signori crociati. I grandi feudatari, capi di eserciti crociati, risiedevano temporaneamente a Costantinopoli o nei dintorni e venivano ricevuti a Corte dove Alessio ne otteneva il giuramento di vassallaggio.
  • 4. Circoscrizioni amministrative
  • 5. Alessio I Comneno regnò dal 1081 al 1118
  • 6. I calzari tinti di porpora erano il simbolo imperiale per eccellenza. Soltanto in virtù di tali calzari, fu possibile identificare il cadavere dell’ultimo Imperatore, caduto davanti alle mura di Costantinopoli al momento della conquista maomettana (1453).
  • 7. Teodora, Imperatrice, moglie di Giustiniano (morta nel 548)
  • 8. Boemondo d’Altavilla: morto nel 1111. Proseguì il tentativo del padre Roberto il Guiscardo di conquistare l’Impero. Partecipò alla 1^ Crociata; s’impossessò di Antiochia della quale s’insignorì a dispetto dell’Imperatore.
  • 9. Boemondo, quando fu fatto prigioniero dai Turchi, si servì dell’inconfondibile colore della sua chioma per autenticare una lettera, allegandovi, appunto, una ciocca dei suoi capelli.
  • 10. Pietro d’Amiens, detto Pietro Eremita o Pietro Cocolla, dal cappuccio fratesco che indossava. Fu il promotore della 1^ Crociata alla quale si aggregarono, oltre Boemondo, i maggiori principi cristiani: Raimondo di Tolosa, Goffredo di Buglione etc. La Crociata si concluse con la creazione del Regno di Gerusalemme.
  • 11. “Porfirogenita”, vale a dire nata nella stanza rivestita di marmo rosso del Palazzo Imperiale, riservata ai parti delle Imperatrici.
  • 12. Trattato di Devol – 1108
  • 13. Cioè Iconico, importante centro dell’Asia Minore in mano ai Turchi, famoso per i preziosi prodotti artigianali.
  • 14. Quartiere residenziale di Costantinopoli.
  • 15. In realtà Boemondo doveva avere, allora, circa 40 anni. Ma ancora cinque anni dopo il suo fascino era tale che sedusse – non sappiamo quanto platonicamente – le donne dell’Emiro turco che l’aveva fatto prigioniero.
  • 16. Alexias, VI, 8.
  • 17. Alexias, X, 5-6.
  • 18. Alexias, XIII, 10,4-5 – trad a cura d’U. Albini e E. Maltese. -‘ Bisanzio nella sua letteratura’ – Garzanti 1984.


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3 Comments

  1. Commento by Loreta Cerasi — 14 Aprile 2014 @ 13:03

    Mi è piaciuto molto questo racconto, aderente alla storia e preciso nei particolari. Avevo già apprezzato “Arlette” e ho ritrovato con piacere la stessa scrittura piana e veloce, mai sciatta.

    Alfredo Ributtini

  2. Commento by Mario Di Vito — 14 Aprile 2014 @ 13:16

    Ma quanto siete complicati! Io ho solo 15 anni e ho scritto dal pc di mia nonna che è molto malata. Non solo mi è piaciuto il racconto pubblicato qui, ma anche tutti gli altri inclusi in “Tracce di donne”, specialmente il primo e l’ultimo.

    Mario Di Vito alias Alfredo Ributtini

     

  3. Commento by Mario Di Vito — 14 Aprile 2014 @ 13:24

    Bello, mi è piaciuto molto. Mario Di Vito

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