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Due articoli

6 Marzo 2012

Le primarie senza futuro
di Angelo Panebianco
(dal “Corriere della Sera”, 6 marzo 2012)

È ovviamente la scoperta dell’acqua calda: in condizioni di massimo discredito dei partiti politici è probabile che le primarie indette da quegli stessi partiti siano vinte da outsider, da persone che si candidano «contro » i candidati ufficiali, contro i candidati sponsorizzati dai leader nazionali di partito.
Il risultato palermitano delle primarie del centrosinistra conferma il trend: contro la candidata ufficiale, Rita Borsellino, sponsorizzata dalla segreteria nazionale del Pd (oltre che da Di Pietro e Vendola) vince un candidato «centrista » (ex Idv) che ha dietro di sé il sostegno del presidente della Regione, Raffaele Lombardo, e del Pd locale alleato di Lombardo. La sconfitta della Borsellino arriva, come sappiamo, dopo una lunga serie di sconfitte di candidati ufficiali del Pd, da Milano a Napoli a Genova.

Ciascuno di quei risultati si spiega, prima di tutto, alla luce di circostanze locali. Ma ci sono anche ragioni più generali. Discredito dei partiti a parte, giocano in questi risultati anche alcune anomalie, soprattutto la natura «bizzarra » delle primarie all’italiana. In primo luogo, non si tratta di gare ove ciascun candidato possa lottare «alla pari » (almeno in linea di principio) con gli altri candidati. Qui ci sono appunto «candidati ufficiali », sponsorizzati da apparati di partito. Col risultato che se l’apparato gode localmente di prestigio vincerà il candidato ufficiale (il caso di Piero Fassino a Torino) e se invece è screditato vincerà l’outsider. In secondo luogo, si tratta di primarie aperte che si svolgono in un contesto multipartitico, per giunta altamente frammentato. Ma mentre in contesti bipartitici le primarie possono risultare un utile strumento per selezionare gruppi dirigenti, è più difficile che ciò possa accadere in contesti multipartitici frammentati.

Ciò detto, un merito, nella attuale situazione, l’istituzione delle primarie lo ha senz’altro: è uno dei pochi mezzi di collegamento rimasti fra i cittadini e la politica rappresentativa. Esile e distorto, certamente: dietro lo schermo della retorica democratica, può consentire a micro-frazioni di attivisti, non rappresentativi del più ampio elettorato, di condizionare i risultati. Ma in una fase in cui i partiti nazionali sono oscurati dal governo (detto) dei tecnici, le primarie, sia pure solo per la scelta di candidati locali, mantengono una loro utilità.

Non è detto che si tratti di una istituzione destinata a durare. Forse, le primarie sopravvivranno per qualche tempo nelle competizioni locali, cittadine. Non avranno invece alcun futuro nella selezione dei gruppi dirigenti nazionali. Se ci sarà la prevista riforma elettorale in senso proporzionale, se si chiuderà l’epoca delle coalizioni contrapposte che chiedono il voto agli elettori l’una contro l’altra, allora di primarie nazionali non si parlerà mai più. Per una semplice ragione: se i governi si formano in Parlamento dopo le elezioni, allora i gruppi dirigenti dei partiti devono disporre della massima libertà di manovra (massima libertà di contrattare a destra e a manca gli accordi di governo) e nessuno potrà e dovrà disturbare i manovratori. Dunque: niente primarie nazionali.

Sarà un bene o un male? Si vedrà. Di sicuro, però, dopo tante parole spese contro il «Parlamento dei nominati », sarà divertente vedere a quali contorsioni dialettiche dovranno sottoporsi coloro che si sono più impegnati in quella campagna per spiegarci in che cosa il prossimo Parlamento sarà diverso dall’attuale.


Lo spettro della tecnocrazia
di Paolo Cirino Pomicino
(da “Il Tempo”, 6 marzo 2012)

Da qualche tempo tutti quelli che nel 1993-’94 inpoi avevano inneggiato e lavorato per l’attuale sistema politico cantando le lodi dei partiti perso ­nali oggi, delusi ed avviliti, prendono le distanze ipotiz ­zando cose sempre peggiori. E ci spieghiamo. Quando vent’anni or sono si innescò l’aggressione ai partiti che avevano vinto le elezioni del 1992 sul doppio versante del finanziamento alla politica e su quello velenoso del ­la mafia, passò nel Paese un messaggio rovinoso secon ­do il quale i partiti, eccezion fatta per il vecchio Pei, erano solo covi di malaffare.

Il messaggio subliminale diffuso a più riprese dalla grande stampa di informazione che completava il dise ­gno messo in atto da una parte della borghesia azionista fu che le stesse grandi culture politiche, quella sociali ­sta, quella liberale e quella democratico-cristiana era ­no, ormai, superate perché figlie di quel mondo diviso in due e in via di dissolvenza dopo il crollo del muro di Berlino. Un’impostazione culturale e politica dolosa (in Europa avveniva il contrario) portata avanti da un grup ­po di intellettuali legati a fil doppio coi due maggiori giornali italiani e ad alcuni ambienti economici e finan ­ziari e quasi tutti provenienti dalle file del vecchio Pei.

Il  risultato è sotto gli occhi di tutti. Vent’anni di follie con un debito aumentato sino all’inverosimile, un cre ­scente impoverimento del ceto medio italiano e un sel ­vaggio saccheggio del patrimonio pubblico nazionale (banche, grandi aziende industriali, utility) letteralmen ­te svendute ai soliti noti o agli ambienti stranieri di riferi ­mento. Vent’anni in cui i partiti personali hanno messo nelle mani esclusive dei tecnici ( Barucci, Dini, Ciampi, Tremonti più volte, Siniscalco, Padoa-Schioppa e oggi Monti) il governo di un’economia che non cresce più da almeno 15 anni. Nel frattempo il coro entusiasta che cantava la modernità dei partiti personali non si accor ­geva che la scomparsa della democrazia dentro tutti i partiti stava lentamente producendo un’autoreferenzialità delle istituzioni (ogni sindaco o presidente di re ­gione era un partito a sé) uno sfarinamento del paese con una guerra di tutti contro tutti ( la marcia dei mille sindaci a Milano ne fu la testimonianza palese) e una selezione cortigiana della classe dirigente. La presunta modernità dei partiti personali in alcuni casi si accom ­pagnava ad uno scimmiottamento filoamericano con l’introduzione, ad esempio, dello strumento delle pri ­marie che, come dimostrano i casi di Napoli, Milano, Genova e Palermo, piuttosto che recuperare democra ­zia davano il colpo mortale al ruolo dei partiti in quanto tali e un viatico verso l’assemblearismo.

Giunti al capolinea del disastro la crisi profonda dei partiti ha generato un governo tecnico di brave persone in cui le uniche esperienze “di governo in senso lato” sono quelle di Monti, Passera e Catricalà. Quel gruppo di intellettuali, capofila Michele Salvati, culturalmente responsabili del disastro descritto adesso cominciano a percorrere un altro sentiero altrettanto irresponsabile e gravido di ulteriori e più drammatici rischi. In un edito ­riale sul ” Corriere della Sera” Michele Salvati, uno dei capofila di questa ” nouvelle vague” del pensiero politi ­co passato dal vecchio Pei al dilettantismo liberale, non a caso sostiene che anche la prossima legislatura dovrà essere guidata dall’attuale governo tecnico nella sua in ­terezza. I partiti avranno, secondo il Salvati-pensiero, il compito di riformarsi non si sa in quale direzione e di sostenere nelle piazze e nel parlamento chi è troppo occupato a governare per misurarsi con il consenso po ­polare.

Insomma, un governo elitario e tecnocratico che non risponda né al paese nè al parlamento ma solo alle elite finanziarie internazionali di cui molti di loro fanno par ­te. Per dirla in breve ad un capitalismo finanziario sel ­vaggio che sta mettendo in ginocchio nell’occidente l’economia di marcato, dovranno corrispondere gover ­ni tecnocratici sempre più liberi dal consenso popolare. Una prospettiva drammatica per la società italiana ma anche un allarme democratico per l’intera Europa. L’editoriale di Salvati contiene questo nefasto messag ­gio e l’antidoto a questa visione tecnocratica è l’imme ­diato recupero delle grandi culture politiche e la colle ­gialità democratica nella guida dei partiti. Se questo non dovesse avvenire avremmo il governo del denaro e della elite tecnocratica che, nel medio periodo, produr ­rebbe sommovimenti sociali a loro volta portatori di tempeste e, forse, anche di lutti.


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Bart