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Rimborsare l’Imu è possibile. Prodi lo insegna

5 Febbraio 2013

di Francesco Forte
(da “il Giornale”, 5 febbraio 2013)

Non si capisce perché la promessa di Silvio Ber ­lusconi di restituire l’Imu sulla prima casa pagata nel 2012 debba essere conside ­rata una sorta di compera di vo ­ti o addirittura una specie di tentativo di corruzione, come è sta ­to affermato da oppositori che, così, mettono in luce la loro ten ­denza fiscalista. La restituzione delle imposte non è un even ­to strano. Soprattutto non lo è quando si tratta di tributi appli ­cati per ragioni di necessità per cui in seguito si può operare di ­versamente. Una importante restituzione di tributi fu fatta dal governo Prodi con la sua imposta per l’Europa introdotta nel 1997, che serviva per soddi ­sfare le condizioni per l’ingresso nell’euro, cioè un livello non superiore al 3% nel rapporto fra deficit e Pii. L’analogia con l’introduzione dell’Imu da p arte del governo Monti, anche con il voto favorevole del Pdl presieduto da Berlusconi, è più che evidente. Anche in questo caso si è trattato di un tributo che è servito a portare il nostro deficit a non superare il 3% del Pii, per soddisfare le richieste dell’Eurozona. E anche in questo caso, come in quello, si è detto che non c’era tempo per ridurre le spese. E si è ricorso a un aumento tributario di emergenza. Si obietterà che ci sono due differenze. Primo: il tributo di Prodi per l’Europa era una imposta da restituire, mentre l’Imu sulla prima casa è stata concepita da Monti come necessaria e permanente. Secondo: la promessa di restituire la tassa per l’Europa non era un’operazione elettorale. Entrambi queste obiezioni sono infondate. La seconda è la più facile da smontare. Infatti nel 1998 Pier Luigi Bersani, ministro dell’Industria del governo Prodi, quando parve che con la crisi di governo incombessero le elezioni, dichiarò: «Un’eventuale caduta del governo Prodi metterebbe a rischio la restituzione della tassa per l’Europa ». Lui prometteva che se fossero rimasti in sella avrebbero restituito il tributo per l’Europa. Nel caso contrario ciò era verosimile che non accadesse. Dunque, Bersani allora voleva comprare i voti? Era un corruttore? Faceva promesse fasulle? Due pesi e due misure. Ma, si replica, l’imposta per l’Europa era provvisoria e rimborsabile, l’Imu è permanente. Dalle parole di Bersani emerge che non era sicuro che l’imposta per l’Europa andasse restituita. E non è esatto che l’Imu sia permanente. Infatti essa si chiama «Imu sperimentale », a indicare che si tratta di un tributo provvisorio, modificabile secondo l’esperienza. Nella sperimentalità può rientrare anche una parziale restituzione, se si ritiene che ciò serva per alleviare un danno. L’Imu che ha raddoppiato di colpo la pressione sugli immobili, ha provocato la caduta del mercato immobiliare. La tassazione della prima casa con l’Imu ha dato luogo a una riduzione dei valori patrimoniali delle famiglie, che ha causato una riduzione del loro credito e una contrazione dei loro consumi con un effetto depressivo sull’economia di particolare entità. Tutto ciò ha generato la riduzione del provento di altri tributi e ha aumentato il rapporto/debito Pii, a causa della riduzione del Pii. La parte dell’Imu sulla prima casa è solo di 3,5 miliardi, sui circa 12 di cui consiste il rincaro fiscale sulle prime case, sulle seconde, sugli immobili dati in affitto di persone fisiche e su quelli delle imprese (con trattamento molto mite per quelli bancari). La modifica dell’Imu sperimentale è ora condivisa da quasi tutto l’arco dei partiti, compresi quelli che la sostenevano come tutta necessaria. Solo Berlusconi promette di restituita, per la prima casa, ma solo lui, ossia il Pdl votò l’Imu sulla prima casa per ragioni di forza maggiore, contro la propria legge che la aveva abrogata. Gli altri partiti aderenti al governo Monti erano felici di avere messo questa Imu come patrimoniale diffusa. Si dice che Berlusconi non mantiene le sue promesse. Ma lui aveva promesso di non tassare la prima casa. Ha dovuto derogare alla promessa per evitare il peggio. Ora, nel quadro di altre misure per la tenuta del bilancio, vuole farvi onore. Ciò è logico, anzi logicissimo. Ma l’odio irrazionale per Berlusconi trasforma questi 3,5 miliardi di rimborso di imposta ai risparmiatori in una cosiddetta follia fiscale, mentre non lo sono i 4 per mantenere la banca Monte dei Paschi nell’area del Pd, anziché metterla sul mercato.


Favorevole al condono fiscale anche il Pg della Corte dei Conti, qui.


Condoniamo noi, non solo banche e senatori a vita
di Alessandro Sallusti
(da “il Giornale”, 5 febbraio 2013)

Il sistema bancario italiano, tan ­to caro a Monti e tanto contiguo a Bersani, si sfalda, intasato da derivati e titoli spazzatura frutto della finanza facile che ha arricchito negli anni scorsi finanzieri e manager (che non contenti, come evidenzia l’inchiesta Montepaschi, si tenevano pure tangenti). Per questo in Borsa gli investitori scappano da titoli a ri ­schio. Ma la colpa di chi è? Di Berlu ­sconi, ovviamente, sostengono i con ­tendenti elettorali e, in parte, le cen ­trali mediatiche internazionali, tipo Financial Times e Wall Street Journal. I mercati, secondo questa tesi, sareb ­bero contrari ai provvedimenti an ­nunciati da Berlusconi in caso di ritor ­no al governo: la restituzione dell’Imu e, cosa di ieri, una possibile sa ­natoria per le cartelle Esatri.

Non è così, e la prova sta nel fatto che le Borse sono crollate ieri in tutta Europa (e pure in America) e che lo spread è risalito anche in altri Paesi, Spagna in testa. Ma anche se così fos ­se, che cosa dovremmo fare? Restitui ­re soldi e condonare banche e ban ­chieri invece dei lavoratori rapinati e tartassati da un fisco impazzito? In questa trappola ci siamo già caduti nell’ottobre del 2011, affidando il co ­mando algoverno dei tecnici, cioè del ­le banche, degli speculatori e dei po ­tentati europei. Adesso basta, che pa ­ghino unpo’ anche loro e siridiafiato, anche attraverso un condono, non agli evasori ma a persone in difficoltà che hanno dovuto scegliere tra salva ­re lafamiglia, pagare i dipendenti o in ­grassare uno Stato sprecone. E che giustamente hanno scelto laprima op ­zione.

Non fidatevi di Monti, uno che per mettersi, come dice lui, al servizio del Paese ha preteso e ottenuto di essere nominato senatore a vita (25 mila eu ­ro al mese fin che campa). Ieri il Pdl ha chiesto le sue dimissioni. Che abbia il coraggio di mettersi alla pari con i suoi contendenti. Non lo farà, e la cosa non stupisce. Uno che ha dato quat ­tro miliardi a una sola banca (il Monte di area Pd) e si indigna perché Berlu ­sconi quei quattro miliardi (di Imu) li vuole dare a tutti noi, o è in malafede o  non è attrezzato per fare il leader del Paese. O forse tutte e due le cose insieme.


Il Pd punta sullo statalismo, ma Renzi imbarazza Bersani: “Togliere l’Imu? Si può fare”
di Andrea Indini
(da “il Giornale”, 5 febbraio 2013)

Mentre Silvio Berlusconi sta incentrando tutta la campagna elettorale sulla necessità di abbassare la pressione fiscale, la ricetta di Pier Luigi Bersani è tutta incentrata su nuovi investimenti al settore pubblico.
Quello presentato dal leader piddì è un piano in tre anni del peso di 7 miliardi e mezzo per rifinanziare le scuole e gli ospedali. Ma, ancora una volta, è Matteo Renzi a ricentrare il punto che sta più a cuore agli italiani impoveriti dalla recessione economica: le tasse. “La proposta di Berlusconi di eliminare l’Imu sulla prima casa – ha spiegato – è fattibile”.

Il Partito democratico non ci sta a incentrare la campagna elettorale sul fronte delle tasse. Di abbassarle, la sinistra, non ce l’ha mai avuto in mente. D’altra parte, come dimostra uno studio fatto dalla Cgia di Mestre, la pressione è scesa ogni qual volta è andato al governo il centrodestra. Sin dalle prima battute di campagna elettorale lo stesso Berlusconi ha incentrato la propria ricetta per rilanciare il sistema Italia puntando sulla riduzione delle tasse: l’eliminazione dell’Imu sulla prima casa, l’abolizione dell’Irap, la detassazione per le imprese che assumono i giovani e il condono tombale. Il Pd, invece, punta ancora una volta sulle opere pubbliche. Ieri sera, negli studi di PiazzaPulita, Bersani ha illustrato un piano per “ristrutturare scuole e ospedali” e finanziare progetti ambientali con la copertura che dovrebbe arrivare da “un allentamento del patto di stabilità con gli enti locali, con nuovi fondi strutturali e con la diminuzione delle spese per la difesa”. Opere che “devono partire entro sei mesi” per creare lavoro.

“Noi stiamo scommettendo di vincere sulla serietà perché il Paese è nei guai e io non farò un altro mestiere – ha sottolineato Bersani – sono capace anch’io di prendermi un titolo sui giornali dicendo che restituirò i soldi dei viaggi di nozze ma non lo intendo fare”.

Una linea sulla quale si trova perfettamente d’accordo anche Renzi. “Il Pd ora è in testa – è l’invito del sindaco di Firenze – non si azzuffi su Balotelli ma mostri come immaginiamo il futuro sulla scuola, sui giovani, a quel punto Berlusconi sembrerà una sorta di Superpippo”. Entrambi, però, non intendono aprire alla possibilità di abbassare la pressione fiscale, preferiscono “investire” una pioggia di soldi in opere senza nemmeno porsi il problema della razionalizzazione dei costi e degli sprechi della pubblica amministrazione mettendo mano, per esempio, ai buchi nella sanità fatti dalle Regioni rosse. Renzi si limita a dire che la proposta di Berlusconi di eliminare l’Imu sulla prima casa è “fattibile” creando, così, un certo imbarazzo tra democratici e montiani (vedere anche qui). “Il centrosinistra – è il monito di Renzi – è in vantaggio e queste elezioni possiamo perderle solo noi se ci facciamo prendere dalla paura, bisogna invece non inseguire Berlusconi ma mostrare come governeremo noi il Paese tra venti giorni”. Il fatto è che non si tratta di inseguire il Cavaliere ma andare al cuore dei problemi e delle preoccupazioni che affliggono gli italiani. Berlusconi lo fa, la sinistra no. E i sondaggi premiano il leader del Pdl che, dopo la proposta di rimborsare i soldi dell’Imu, si è portato a un passo dal centrosinistra.


«La corruzione pregiudica la nostra economia ». Ma il pg: «Il condono fiscale? È fondato »
di Redazione
(dal “Corriere della Sera”, 5 febbraio 2013)

Nuovo grido d’allarme della Corte dei conti. In Italia la corruzione ha assunto una «natura sistemica » che «oltre al prestigio, all’imparzialità e al buon andamento della pubblica amministrazione pregiudica l’economia della nazione » ha detto il presidente della Corte dei conti, Luigi Giampaolino, all’inaugurazione dell’anno giudiziario. In una conferenza stampa, tuttavia, il procuratore generale della Corte dei Conti, Salvatore Nottola, ha rilasciato una dichiarazione che non mancherà di far discutere: il condono fiscale – ha detto – ha «motivazioni intuitive e fondate ».

«QUELLO EDILIZIO E’ DA EVITARE » – Nottola ha però precisato di non voler intervenire nel dibattito politico, all’indomani delle parole di Silvio Berlusconi che si è detto favorevole ad un nuovo condono tombale, e ha chiarito il suo pensiero: «Il condono fiscale ha la ragione di deflazionare il contenzioso, di realizzare introiti in tempi rapidi che difficilmente potrebbero essere realizzati e le motivazioni di un condono sono abbastanza intuitive e fondate. Se funziona o meno, dipende dalle leggi ». «Stiamo parlando – ha poi precisato – di condono fiscale perchè quello edilizio è un’altra cosa ed è proprio da evitare ».

PRESSIONE FISCALE – La Corte, con l’intervento del presidente Giampaolino, ha preso posizione anche sulla tematica fiscale: «In un periodo di tempo breve e con l’urgenza di corrispondere alle richieste dell’Europa – ha spiegato – i margini limitati di riqualificazione della spesa pubblica hanno reso necessario, dunque, un ricorso ad aumenti del prelievo tributario, forzando una pressione fiscale già fuori linea nel confronto europeo e favorendo le condizioni per ulteriori effetti recessivi; la pur comprovata maggiore efficacia delle misure di contenimento della spesa pubblica non ha, inoltre, consentito, in presenza di un profilo di flessione del prodotto, la riduzione dell’incidenza delle spese totali sul Pil, che resta al di sopra dei livelli pre-crisi ».

PAREGGIO DI BILANCIO – Tuttavia, sempre secondo il presidente della Corte dei Conti, «al nuovo Parlamento e al nuovo governo spetta il compito di esplorare le azioni in grado di generare una più equilibrata composizione di entrate e spese. Bisogna infatti restare sul sentiero di risanamento che conduce al pareggio di bilancio ».


Le relazioni miracolose
di Ernesto Galli della Loggia
(dal “Corriere della Sera”, 5 febbraio 2013)

Che cosa indica nell’Italia di oggi la parola notabile? Non è forse solo un modo volutamente – ma immotivatamente – spregiativo di definire l’élite, cioè quel vertice che esiste e adempie a un ruolo decisivo in ogni società? Non credo. Notabili ed élite sono cose diverse e proprio l’Italia ne è una prova: tra l’altro – come dirò – con l’uso tanto diffuso quanto ambiguo dell’espressione «società civile ».
L’élite propriamente detta è composta di figure (spesso con un adeguato sfondo familiare) dotate di competenza in ruoli specifici nel campo delle attività private o dell’amministrazione, nonché di riconosciuto valore, integrità e successo.

Il notabile italiano, invece, è un’altra cosa. È innanzitutto (ma in misura minore) chi, a partire da una base di eccellenza personale, arriva alla politica per cooptazione ma vi rimane poi di fatto vita natural durante (sempre eludendo però il meccanismo della ricerca del consenso elettorale grazie al seggio parlamentare o altro ruolo pubblico assegnato «dall’alto »). Sono, per antonomasia, quegli «intellettuali » e «tecnici » beneficiati in particolare dalla Sinistra, salvo quelli – in genere i migliori tra loro – che dopo una legislatura capiscono come stanno le cose e tagliano la corda. Vi è poi un secondo tipo di notabile, quello diciamo così più autentico, il notabile doc. È colui al quale, forte di opportune relazioni personali quasi sempre politiche (di rado un’eccellenza professionale), non viene già offerto di svolgere uno specifico incarico pubblico in relazione alle sue competenze, bensì – sia pure talora a partire da queste – viene cooptato in un circuito di potere diffuso, al cui centro c’è sempre e comunque la politica. Per rimanervi anch’egli vita natural durante. È il jolly del potere italiano. È il notabile che può essere e fare di tutto: guidare un gabinetto o un ufficio legislativo, un’Authority, un governo tecnico, l’Aspen, un’enciclopedia, un ente pubblico, una fondazione bancaria, il Touring Club, la Federazione Giuoco Calcio, il Cnel, una società aeroportuale, la Cassa depositi e prestiti, Cinecittà, la Rai, un Consiglio superiore di qualunque ministero, le Poste, insomma tutto. Oltre che, beninteso, sedere in centinaia dei più vari consigli di amministrazione; e naturalmente tutto ciò per decenni, passando da un posto all’altro senza alcuna particolare competenza, e magari sommando contemporaneamente le prebende e gli incarichi più eterogenei (inclusi quelli parlamentari).

Come si vede, in Italia è la politica il brodo di coltura essenziale di questa categoria di persone. Non solo perché è la politica, con il suo storico statalismo, che assicura l’enorme estensione delle posizioni, dei posti disponibili per i notabili, ma perché essa costituisce l’amalgama omogeneizzante (ormai transpartitico) che rende possibile la compenetrazione/sovrapposizione di tutto e di tutti: e dunque la moltiplicazione diffusiva del potere di ognuno. È così che per esempio qualunque notabile può assicurare un posto al proprio coniuge o al proprio figlio in pratica dappertutto. È per l’appunto sempre questa esigenza della compenetrazione, in vista dell’accrescimento della capacità d’influenza, che spiega la tenace propensione del notabilato italiano di origine politica ad autonomizzarsi. In particolare dando vita e riconoscendosi in reti di legami alternativi a quelli ufficiali di tipo politico-partitico: da quello di parentela (più frequente di quanto si pensi) al legame di tipo massonico, oggi più in voga che mai, a quello delle «cricche » e consorterie consimili.
Cresciuto enormemente in potenza con la seconda Repubblica, il notabilato è divenuto in tal modo, e sempre più spesso, il serbatoio e insieme il traguardo, la «sistemazione », del ceto politico, una volta lasciato l’impegno parlamentare.

Se così stanno le cose si capisce perché è tanto difficile per l’Italia avere una classe dirigente. Questa è possibile, infatti, quando l’élite come l’ho definita sopra (figure con competenza in ruoli specifici, di riconosciuto valore, integrità e successo), quando i membri di tale élite, dicevo, sono in grado di accedere ai luoghi del comando pubblico (statale e non). Proprio ciò in Italia però non avviene, non può avvenire, dal momento che tali luoghi sono pressoché interamente monopolizzati dal notabilato d’origine politica. Il quale vi impone le sue regole: prima di ogni altra la regola della inamovibilità. Il massimo a cui un membro dell’élite può aspirare in Italia è un inutile posto di senatore o deputato, nel quale si accorgerà presto chi è che comanda davvero. In quest’ottica emerge in pieno il carattere sostanzialmente di alibi che finisce per avere la nozione di «società civile »: una nozione, guarda caso, che solo qui da noi ha la diffusione che sappiamo. Ma che in realtà serve al ceto politico per evitare un confronto vero con le eccellenze sociali, con l’élite vera e propria, e di conseguenza per evitare il problema di dar vita ad un sistema di potere complessivamente diverso dall’attuale. Viceversa l’evocazione rituale della «società civile » serve piuttosto per fingere di rinnovarsi, di «andare verso il popolo », approvvigionandosi (tuttavia solo in occasione delle elezioni) di persone, perlopiù sconosciute o di secondo rango, e però pomposamente esibite come provenienti per l’appunto dalla «società civile ». Destinate regolarmente, come è ovvio, a non contare niente e a poter fare ancor meno.


Le reazioni sono più “shock” della proposta
di Federico Punzi
(da “L’Opinione”, 5 febbraio 2013)

Dalle reazioni scomposte, “shockate” e talvolta “shockanti”, dei suoi avversari, si direbbe proprio che con la sua proposta-shock Berlusconi abbia di nuovo colpito nel segno. Anziché cercare di depotenziarla e sminuirla, Monti, Bersani e gran parte della stampa sono riusciti a dare l’impressione che Berlusconi stia promettendo agli italiani mari e monti. E ci sono riusciti proprio con la gravità delle loro accuse.

Avrà mica promesso la luna! La tanto contestata proposta-shock è una goccia, la «classica punta dell’iceberg », la definisce Luca Ricolfi. Bollando come non fattibile e irresponsabile una proposta che richiede una copertura di 4 miliardi di euro l’anno e di altri 4 una tantum, i suoi avversari stanno da una parte ingigantendo oltre misura la portata di ciò che Berlusconi promette agli italiani e allo stesso tempo silurando la credibilità delle loro stesse proposte, dal momento che anche Monti promette riduzioni di imposte di svariate decine di miliardi e Bersani niente meno di «dare lavoro ».

Attenzione anche ad accusare Berlusconi di non aver mai mantenuto le sue promesse. Perché se gli italiani ricordano bene che non è riucito ad abbassare le tasse, e più in generale a mantenere le promesse di cambiamento, ricordano anche, però, cosa hanno fatto gli altri e ricordano soprattutto che tra le poche che il Cav ha mantenuto c’è proprio la promessa di abolire la tassa sulla prima casa. Quella cosa lì – forse l’unica che ricordano – l’ha fatta per davvero, e le proposte sull’Imu richiamano alla memoria politica degli italiani una promessa mantenuta da Berlusconi.

Premesso che il problema principale della proposta-shock non è la sua fattibilità, né la sua utilità, ma resta la credibilità personale di chi la fa, e che può essere demagogica quanto si vuole ma suggerisce agli italiani un rapporto tra Stato e cittadini “da sogno”, come spesso accade sono le reazioni, più che la proposta in sé, a favorire Berlusconi. I suoi avversari – soprattutto Monti – si fanno schiacciare su posizioni minacciose e cupe (anche lievemente ricattatorie le parole del professore). Né dev’essere sfuggito agli italiani che da quando è iniziata la campagna elettorale, dopo aver dato a Berlusconi dell’irresponsabile e del populista, i suoi avversari si sono messi ad inseguirlo proprio sul terreno dell’Imu e della riduzione delle tasse, avanzando proposte non così dissimili quanto a fattibilità e onerosità finanziaria.

Chiamare in causa il «voto di scambio », o addirittura un «tentativo di corruzione », non solo è fuori luogo, esagerato, ma anche intellettualmente disonesto e autolesionista. Le promesse elettorali possono essere più o meno serie ma tali sono. Altrimenti, bisognerebbe per coerenza concludere che anche promettere sussidi di disoccupazione, assunzioni dei precari nel pubblico impiego, incentivi a questo o a quel settore produttivo, o promettere di «dare lavoro », secondo il lessico paternalistico usato da Bersani, costituiscono voto di scambio o tentativi di corruzione. E impegnarsi a ridurre «gradualmente » le tasse, non è forse un tentativo di “graduale” corruzione? Insomma, così tutto può diventare voto di scambio.

Più inquietante è la concezione del rapporto tra Stato e cittadini che quest’accusa rivela. Restituire l’importo versato per l’Imu, infatti, sarebbe ben diverso dal distribuire soldi (o “diritti”) a pioggia per comprare il voto degli elettori. Si tratta di restituire a ciascun contribuente la stessa somma di denaro che fino ad un anno prima gli apparteneva, che fino a prova contraria si era guadagnato onestamente, e non di gratificarlo con denari non suoi o privilegi non goduti prima.
C’è una bella differenza, insomma, in termini sia logici che economici, tra il retrocedere quote di tassazione ai contribuenti e la cosiddetta redistribuzione che tanto piace a sinistra, questa sì, sarebbe più appropriato paragonarla al voto di scambio. Non bisogna mai dimenticare che una regola base delle campagne elettorali in qualsiasi democrazia è saper trasmettere un messaggio positivo, una prospettiva di speranza, non cupa, saper raccontare una storia di riscatto.

Chiamatelo sogno, o futuro, ma impegni e promesse ci vogliono. E il fatto che Berlusconi non abbia mantenuto le sue, e non sia più credibile, non rende meno valida questa regola, non esenta i suoi avversari dal rispettarla.


Se ci fosse stato Renzi
di Stefano Feltri
(da “il Fatto Quotidiano”, 5 febbraio 2013)

Matteo Renzi  è tornato, ieri sera a Otto e Mezzo e in un (moscio) comizio a Firenze con  Pier Luigi Bersani. Non è lo stesso delle primarie, non vuole più rottamare nessuno. Al massimo cerca di non essere rottamato lui stesso nel caso, remoto, di una vittoria schiacciante del  Pd.
Eppure se le parti fossero state invertite, se al posto di Bersani oggi ci fosse Renzi, tutto sarebbe diverso.

Se Renzi avesse vinto le primarie,  Mario Monti  non sarebbe mai  “salito” in politica. Sarebbe rimasto a fare tranquillamente il tecnico in attesa di essere eletto da una maggioranza compatta al Quirinale.

Se Renzi avesse vinto le primarie, Monti non avrebbe mai scritto “wow” su Twitter. Se Renzi avesse vinto le primarie,  Silvio Berlusconi  avrebbe lasciato Angelino Alfano andare al massacro con quel che restava del  Pdl. Non avrebbe mai potuto confrontarsi con un leader dall’età giusta per essere suo nipote, che in tv funziona quanto lui e che riesce a conquistare quegli elettori delusi dal Pdl che oggi stanno pensando di votarlo ancora soltanto per assuefazione.

Se Renzi avesse vinto le primarie, il  Milan non avrebbe comprato  Balotelli.

Se Renzi avesse vinto le primarie, Pier Luigi Bersani si starebbe preparando per diventare un ottimo ministro dell’economia in grado di garantire, dal Tesoro, quell’equità e moderazione nel rigore contabile che da premier non potrà perseguire, dovendo trattare con la coalizione centrista di Monti al Senato.

Se Renzi avesse vinto le primarie,  Massimo D’Alema  non avrebbe quell’arietta soddisfatta mentre valuta se gli convenga andare alla Nato o tornare a fare il ministro degli Esteri. E  Rosy Bindiavrebbe dovuto rinunciare a chiedere la deroga per fare un altro mandato in Parlamento. E tutti i dinosauri del Pd, a cominciare da quel Franco Marini che sogna il Quirinale, sarebbero a godersi i nipotini ai giardinetti. Se Renzi avesse vinto le primarie, non avrebbe cercato inciuci con il partito diAntonio Ingroia. Ci sarebbe uno schieramento di centrosinistra riformista e una sinistra, coagulata attorno al pm siciliano. E magari potremmo avere davvero un governo di centrosinistra.

Se Renzi avesse vinto le primarie, lo  scandalo  Monte Paschi  non starebbe facendo perdere consensi al Pd (visto che è tutta o quasi roba degli ex-Ds).

Se Renzi avesse vinto le primarie, i mercati non starebbero a osservarci come fossimo i soliti, inaffidabili, pasticcioni, furbetti italiani che prima firmano regole internazionali sui conti e poi promettono in campagna elettorale di smontarle, aggirarle, limarle, dimenticarle.

Se Renzi avesse vinto le primarie, ci saremmo risparmiati la delusione di vederlo sottomettersi alla disciplina del partito, secondo la classica dinamica del Pd in cui “se aspetti e stai buono il tuo turno arriverà” (a meno che per la segreteria del partito non si presenti davvero  Fabrizio Barca  e allora ne vederemo delle belle).
Chissà se chi ha votato Bersani se ne è un po’ pentito.


MPS. Sui rischi della nazionalizzazione, qui.


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Bart