LETTERATURA: I MAESTRI: Gasparo Gozzi e il lettore23 Gennaio 2018 di Indro Montanelli In una delle sue ultime Va riazioni, Eugenio Montale ha scritto incidentalmente che « il pubblico è un’invenzione mo derna ». E un lettore di Pa dova, il sig. Aliprandi, gli ha dato â— sia pure con molto garbo â— sulla voce precisan do in una lettera a questo giornale che l’atto di nascita del pubblico, inteso nel senso di « pubblica opinione », risa le al 1760, l’anno in cui de buttò la « Gazzetta Veneta » di Gasparo Gozzi. Sul piano anagrafico, l’Aliprandi ha ragione. Anche se la « Gazzetta Veneta » non fu il primo giornale italiano (la « Gazzetta di Parma » era di trent’anni più vecchio, e altri ce n’erano già stati anche nel Seicento) in senso assoluto fu il primo che al pubblico direttamente si rivolse e si ap pellò. « Il pubblico â— scri veva Gozzi nel numero di apertura â— deve spontanea mente somministrarmi di che impinguarlo (La Gazzetta), come somministrava un tem po materia all’Addison, allo Swift, allo Steele e agli altri gazzettieri, dietro alle cui trac ce, benché da lontano per la mia poca sufficienza, intendo di andare col tempo ». Gozzi faceva sfoggio di mo destia. In realtà non d’insuf ficienza si trattava, ma di di verse condizioni. Il giornalismo inglese già da un secolo aveva vinto la sua battaglia, una delle più dure che la li bertà abbia combattuto con tro il potere costituito. E l’aveva vinta proprio grazie al pubblico. Quando apparvero la Review di Defoe e l’Examiner di Swift, sebbene la Co stituzione garantisse la libertà di pensiero e di parola, il go verno si sentì profondamente disturbato dalle loro critiche, e fece di tutto per sopprimerli. Prima, querelò i redattori per calunnia e vilipendio; ma i tribunali si rifiutarono di con dannarli. Poi, tentò di restau rare la censura; ma il pubbli co scese in piazza e fece qua drato intorno ai suoi giornali. Infine ricorse a una misura obliqua: impose agli editori tali tasse da obbligarli a chiedere sussidi, coi quali li ricattava. Ma i giornali denunziarono la manovra ai lettori che costrinsero il potere a rinunziarvi. * Oggi, quando da noi si par la di libertà di stampa, c’è sempre qualche imbecille che cita e invoca il modello in glese, rimproverando ai gior nali italiani di non esserne al l’altezza. Come al solito, noi pretendiamo mangiare il frut to senza affaticarci a piantare l’albero. La stampa inglese è quel che è grazie a una lotta secolare, vinta solo a furor di pubblico. Questa saldatura fra chi scrive e chi legge, in Ita lia, quando mai c’è stata? Gozzi vi diede un avvio, ma parziale e timido. Intanto dovette rinunciare ad ogni tema politico: un po’ perché vi era egli stesso refrattario, ma soprattutto perché la censura non gliel’avrebbe mai consentito. Delle otto pagine della » Gazzetta » almeno sei erano un semplice notiziario « di tutto di tutto quello ch’è da vendere, da comprare, da darsi a fitto, le cose ricercate e le perdute, il prezzo delle merci, il valore dei cambi »: cioè – oggi si direbbe – avvisi economici, come già ce n’erano stati anche nel Seicento. La grande novità ch’egli introdusse fu la cronaca: fatti e fatterelli cittadini, tipi, figure, scenette: tutto raccontato nel suo stile tra il bozzettistico e il favolistico. Niente altro. Eppure in quei tempi, e in un paese come il nostro, era già molto. L’Aliprandi ha ragione quando dice che si trattò di un « momento significativo ». Prima d’allora, in Italia, non era mai successo che uno scrittore scrivesse per il lettore. Il lettore dello scrittore italiano erano il mecenate che lo finanziava, e il ristrettissimo gruppo d’intellettuali che facevano cerchio intorno a lui. Né poteva essere diversamente, visto che l’alfabeto era un loro quasi esclusivo monopolio. Le conseguenze di questo fenomeno sono tuttora sotto i nostri occhi. In nessun Paese la cultura è più « alienata » che in Italia. In nessun Paese è altrettanto « corporativa », e afflitta da una endemica inco municabilità. Invece di met tersi al suo servizio, come ha fatto dovunque altrove, essa snobba la pubblica opinione e la chiama sprezzantemente « il volgo ». E’ il frutto di duemil’anni di Chiesa, specie dal la Controriforma in poi. Il « volgo » è l’equivalente laico del « gregge » cui gl’intellettuali, come i preti, pretendono impartire dall’alto una verità rivelata soltanto a loro. Chi abbandona il pulpito per scendere sul terreno del lettore, eleggerlo a suo interlocutore e giudice, parlargli nella sua lingua dei problemi che (a torto o a ragione, non importa) lo interessano, mettendosi con lui da pari a pari, è un fellone. Gozzi fu il primo di questi felloni, quello che aprì la strada agli altri nostri progenitori Baretti, Verri e Beccaria. E fu il giornale che l’obbligò a diventarlo perché di suo non se lo sarebbe mai sognato. Acuto osservatore do tato, come tutti i malinconici, di una fine vena di umori smo, l’uomo era pigro, abuli co e soprattutto restìo a ogni civile impegno. Accettò l’in vito del Marcuzzi a dirigere la « Gazzetta » solo per lo sti pendio. Crivellato com’era di debiti, a tutto pensava fuor ché a ingaggiar battaglie, e tanto meno democratiche, lui che quanto a opinioni politi che era forcaiolo quasi quan to suo fratello Carlo. Al let tore si appellò dicendogli: « Scrivo per te » solo per ven dergli il giornale. Ma, sia pu re senza volerlo, fu lui il pri mo a chiamare in giuoco quel la forza per l’Italia assoluta mente nuova ch’era la pubbli ca opinione. Non era una grande forza, per motivi sia di numero che di peso. Non conosco, e credo che nessuno conosca le « tira ture » della « Gazzetta ». Ma sono convinto che non supe rarono mai le mille copie per ché, dei centotrenta o centoquarantamila abitanti di Venezia, a saper leggere dovevano essere non più di quattro o cinquemila. Insomma, era una « pubblica » opinione per mo do di dire: qualcosa che, an che se Gozzi avesse voluto sfi dare il potere (e non lo vo leva di certo), non avrebbe mai fatto quadrato intorno a lui, come il vasto e cosciente pubblico inglese lo aveva fat to intorno ai suoi Swift e Defoe. Tutto quindi si limitò, co me nel caso della « Frusta » di Baretti, a una rivoluzione letteraria. Ma fu ugualmente una rivoluzione perché rinno vò tutto, a cominciare dal lin guaggio. Per scarso che fosse, il pubblico della « Gazzetta » era molto più numeroso e so prattutto molto diverso da quello dell’Accademia dei Granelleschi, dove il Gozzi aveva fin allora militato. * Non facciamo confusione di valori. Gozzi non era di cer to un « grande ». Il Settecento italiano non ha che dei «minori », e anche lui lo era. Oltre il bozzetto e la favola non è mai andato (le poche volte che ci provò fece tonfo). Ma in questa dimensione ha il suo onorevole rango, e fu il giornale a dargliela. È vero che nel suo sacco di cronista c’è farina di Lu ciano, di La Bruyère, di La Fontaine. Ma quanto è miglio re questa farina di quella ar cadica con cui il Gozzi granellesco impastava le sue ac cademiche uggiosissime « pastorellate »! Imponendogli di scendere in piazza e per le strade con lui, di guardare la sua vita e di descrivergliela qual era, nel suo miscuglio di comico e di patetico, il letto re aveva costretto Gozzi a di ventare Gozzi. Ecco il grande servizio che il lettore rende allo scrittore, quando lo scrittore scrive per rendere servizio al lettore. Anche il lettore, si capisce, era un padrone. Ma è il migliore dei padroni che lo scrittore abbia mai avuto. Principe o prelato non c’è mai stato nella Storia un mecenate che non abbia strumentalizzato lo scrit tore per i suoi fini di potere, di prestigio, o magari solo di vanagloria. Il lettore non gli impone altro pedaggio che la partecipazione ai suoi interes si e problemi, la semplicità e la chiarezza. È con l’Enciclopedia, finan ziata da una sottoscrizione di lettori e ai lettori unicamente rivolta, che lo scrittore fran cese diventa l’interprete e il direttore della pubblica coscienza, cioè diventa se stesso. In Italia questo fenomeno si sviluppa su una scala infi nitamente ridotta, puntigliosa mente contrastato dalla censu ra e reso asfittico dalla caren za di alfabeto. E’ una mini rivoluzione, ma è pur sempre una rivoluzione. E a compierla sono gli uomini della « Gazzetta », « della Frusta », del «Caffè », cioè il giornalismo: unico fatto veramente nuovo e riformatore in quel gran mortorio ch’è la cultura italiana del Settecento. Eppure, non mi sento di dar torto neanche a Montale. An cora nell’Italia dei «notabili », la pubblica opinione era sol tanto l’opinione dei notabili: un’Accademia un po’ più lar ga. Forse la definitiva vittoria del lettore risale solo al ’45. E c’è da chiedersi se si sia accorto di averla riportata. Letto 1169 volte. Nessun commentoNo comments yet. 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