LETTERATURA: I MAESTRI: Contrappunto (Hemingway e altro)25 Gennaio 2018 di Indro Montanelli Quando sento dire (e lo sento molto spesso): « L’eloquenza dei fatti » o « I fatti parlano da soli », mi si rizza il pelo. Quando mai hanno parlato, i fatti? Inerti e stolidi (bruti, per dire qualcosa hanno bisogno che qualcuno glielo suggerisca). Certo, fra i sug geritori ci sono quelli cattivi che fanno udire la propria voce alla platea, e quelli bravi che non la fanno udire. Ma quando sembra che un fatto parli proprio da sé, chi legge non si faccia illusioni: signifi ca soltanto che alle sue spal le c’è un ventriloquo più abile degli altri. Forse questa riflessione mi viene suggerita dal libro che sto leggendo « Hemingway: storia di una vita » di Carlos Baker, tutto affidato ai fatti, sul presupposto appunto che parlino da soli. La loro raccolta è costata sette anni di studi e di ricerche, e si sente. E’ difficile, anzi senz’altro im possibile, che a questa biogra fia qualcuno possa aggiungere qualcosa, in fatto di fatti. Cre do che all’appello non ne man chi nessuno, neanche fra i più insignificanti. Questo libro ri sponde per filo e per segno, circostanziatamente, fin nei minimi dettagli, a tutte le no stre curiosità. A tutte, meno una: chi fosse Hemingway. Questo, nelle intenzioni di Ba ker, dovrebbero dirlo i fatti. Ma i fatti non lo dicono. Ar rivati in fondo all’ultima del le sue mille pagine, della crea tura umana e dello scrittore Hemingway si sa ciò che se ne sapeva al momento di comin ciare a leggere la prima. S’è imparato soltanto che di fatti, nella vita di Hemingway, ce ne sono stati molti di più, e anche di molto più singolari, di quanto noi sospettassimo. Ma stanno lì, atoni e afoni, in attesa che qualcuno gli faccia dire qualcosa. Senza suggeri tore, non suggeriscono nulla. Visto che siamo in tema e che questo tema è tornato tan to d’attualità, dirò anch’io co sa penso di Hemingway al di fuori dei fatti. Forse le mie opinioni sono soltanto mie (saggi critici su di lui non ne ho mai letti), e se lo sono non pretendono di far testo. Ma fra tante che ne sono state dette, una di più non farà guasti. A me Hemingway ha sem pre fatto l’effetto d’un Byron di « frontiera » cresciuto, in vece che in un collegio di Oxford, in un accampamento di pionieri e nell’adorazione dei suoi rozzi feticci: la For za, il Coraggio, la Lealtà, l’Onore. Appartiene insomma sia pure in versione di « pra teria », alla grande e sofistica ta famiglia dei « decadenti », dei « poeti-vati », e lo dimo stra la sua incapacità a creare dei veri e propri personaggi. Essi si riducono a semplici va riazioni del medesimo atletico Eroe, che poi era sempre Hemingway, non com’era, ma come lui si vedeva e voleva essere visto. Anche di donne nei suoi racconti ce n’è una so!a, sempre quella, che non è una donna, ma La Donna, come i pionieri appunto la concepisco no circondandola di un religioso culto. Anche la più vera e umana, la Catherine di Addio alle armi è un’eroina da western armata, invece che di una pistola, di una siringa d’infermiera. Contrariamente a quel che dice il romanzo, essa non si concesse mai a Heming way che voleva a tutti i costi farne la compagna dell’Eroe, e gli preferì un tenente napo letano che più pedestremente la considerava il riposo del guerriero. Hemingway non gliene volle, ma non capì. Non capiva nulla, di donne, come tutti coloro che ne hanno in testa uno stereotipo. Non credo affatto che si sia suicidato, come qualcuno sostiene, perché « non aveva nulla da dire ». Se questo fosse vero, l’ottanta per cento degli artisti, specie gli scrittori, dovrebbero suicidarsi prima dei cinquant’anni, e lui avreb be dovuto farlo addirittura prima dei quaranta. A quarant’anni, Hemingway poteva già contare su una nutrita schiera d’imitatori, fra i quali c’era anche Hemingway, uni camente inteso a rifare se stes so, cosa che qualche volta gli riusciva alla perfezione come ne II vecchio e il mare, trion fo del puro « mestiere » e ca polavoro di autofagia. Più di qualsiasi saggio cri tico, questo racconto ci dice cos’era Hemingway e cosa non era. Non era un grande narratore: non ne aveva il fiato, e infatti le sue cose migliori sono i racconti brevi. Non era uno scrittore « di pensiero », un lanciatore di «messaggi », e del resto nemmeno vi si at teggiava: il suo impegno » (guerra di Spagna) non era, come per Malraux, prete sto di romanzo. Hemingway sapeva più cose di quanto il suo culto dell’Eroe muscolare gli consentisse di confessare, ma non ne sapeva molte, o per lo meno non ne sapeva quante gli sarebbero occorse a riconoscere la propria genealogia. Sono sicuro che non ha mai sospettato di essere un parente, e anche abba stanza stretto, di D’Annunzio: ne avrebbe sobbalzato d’orrore. Però questo antiletterato era in realtà un arciletterato della più bell’acqua, forse l’unico scrittore americano che abbia fatto della « prosa d’arte ». Gli esperti dicono che vi fu iniziato da Gertrude Stein, da Ezra Pound, e da Anderson. Ma questo non significa niente. Cioè significa soltanto che questo irsuto ra gazzo della prateria, pur an dando a naso, il naso lo ebbe buono nella scelta dei maestri, e le lezioni seppe metterle a frutto perché il suo stile â— non c’è da sbagliare â— è pro prio « suo ». Se lo costruì, da buon americano, con un’ope razione di pura tecnica: non arricchendo e innovando il suo vocabolario, ma impoverendo lo e riducendone all’osso la sintassi. Aspettiamo che qual che esegeta pignolo ricostrui sca la cifra esatta delle parole usate da Hemingway. Ma non credo che vadano oltre qual che centinaio. Ed è su questo lèssico da petit nègre che He mingway, furbissimo naïf, ha lavorato tutta la vita ot tenendo, solo con un giuoco di reiterazioni e di sincopi, gli effetti più straordinari. Non fu soltanto bravura. Cioè fu bravura soltanto negli ultimi tempi. Nei primi, fu musica e poesia. Finirono presto, è vero. Un po’ perché questa è la sorte delle primizie, un po’ perché chi si affida so lo allo stile cade inevitabil mente nella « maniera ». A trent’anni Hemingway già co minciava a rifare se stesso, a quaranta non sapeva far altro. Ma non fu per questo che si sparò. Il suo suicidio non ha nulla di letterario. Anche se non aveva più niente da dire, Hemingway aveva ancora tan te cose da fare: andare a cac cia, andare a pesca, e curare il suo personaggio, che in fon do era la cosa a cui più tene va e quella che gli era meglio riuscita. Ma quando si mise in bocca le canne del fucile, non pensava più nemmeno a quel lo. Forse pensò soltanto che un Eroe non deve temere la morte. Ma il fatto è che l’Eroe non c’era più. C’era soltanto un pover’uomo roso dall’alcool e dall’arteriosclerosi, che della morte aveva una paura birbona. L’aveva sempre avuta, anche quando sul fronte italiano imitava gli « arditi » che accendevano la sigaretta alla miccia della bomba. Perché, come quello degli » arditi » il suo coraggio non era che spavalderia. * Di passaggio a V., vado a trovare il vecchio marchese G. Lungo, ossuto, giallognolo, coi grandi occhi spiritati e infos sati dentro le guance cave, e i canini sporgenti, rinfagottato in scialli nonostante il caldo che fa, sembra un Dràcula in pensione. Giace in una poltro na sdrucita sulla veranda del suo cadente palazzo, e non dà segno né di gioia né di noia al mio apparire. « Come se la passa, marche se? ». « Guardo il mio » risponde, come sempre. Un tempo lo diceva alzando la testa e tendendo orizzontal mente il dito a indicare un re moto crinale di balze. Ora la testa l’abbassa e il dito lo pie ga a indicare l’orto sotto casa. A furia di vendere, « il suo » s’è ridotto a quello. Ma lui se guita a guardarlo con lo stesso compiaciuto orgoglio, e a far di quel guardare la sua unica professione e passatempo. * Mi son sempre chiesto per ché oggi si pubblichino tanti libri di buona creanza. Forse per riparare alla malcreanza che sempre più impronta gli umani rapporti? La spie gazione non mi soddisfa. Cre do piuttosto che dipenda dal l’estrema articolazione della nostra società e dal suo cosiddetto « pluralismo ». Un tempo era difficile cambiar con dizione: chi nasceva contadi no, di solito viveva e moriva da contadino; e altrettanto ca pitava all’operaio, al piccolo borghese, al borghese. Ognu no di questi ceti aveva la sua etichetta, che il giovane as sorbiva per imitazione in fa miglia e nell’ambiente, senza bisogno di un codice scritto. Ora la società si è fluidificata, e i ceti non sono più che sta zioni di transito. Il figlio in gegnere del contadino che si è fatto operaio ne ha già cam biati tre nel suo primo quar to di vita, per altrettante vol te ha dovuto rivoluzionare il suo galateo, e non sa più a quale attenersi. Una società in movimento come la nostra genera insicurezza e alimenta il fabbisogno di bussole. Gli editori vi fanno fronte con molta sollecitudine ma non con altrettanto discerni mento. Ho visto che hanno ri pubblicato anche la classica Etichetta di Emily Post, un modello del genere, ma tagliata sull’esigenze di una società statica ch’è proprio l’opposto di quella nostra. Strano che non abbiano pensato addirittura a una riedizione del vecchio If di Kipling. Cioè non è strano affatto. Le «maniere » si prestano a fare « mercato ». La coscienza, un po’ meno.
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