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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

LEGGENDE: Agnese

12 Novembre 2007

di Bartolomeo Di Monaco

«Non vedo l’ora che siano passati almeno 15 anni! » diceva sempre sua moglie al povero Diomede, il quale s’era un po’ stufato di sentirsi ripetere ogni giorno la stessa lagna. A lui invece la vita piaceva viverla così com’era, giorno dopo giorno, e non mancava mai occasione per gustarsela. Far baldoria con gli amici, ad esempio, gli sembrava un modo appropriato, riconoscente, di ringraziare la vita.

Bazzicava, per queste memorabili imprese, alcuni antichi locali, dove trovava sempre compagni disposti come lui a trascorrere felici ore in assoluta spensieratezza. Così si radunava con loro quando a “Baralla” quando a “Stipino” e quando “da Giulio” in Pelleria. Qui, per la verità, le serate erano più movimentate che altrove, poiché qualche volta vi si menavano anche le mani. Ma il proprietario era uomo risoluto, a cui piacevano le allegre compagnie purché non degenerassero, e sapeva intervenire al momento opportuno per raffreddare gli animi. “Da Giulio” si mangiava bene e anche si beveva come in Paradiso, e perciò Diomede era ben disposto a rischiare qualche cazzotto ogni tanto, pur di trovarsi lì.
Diomede lodava ogni giorno la vita per i piaceri che sapeva offrirgli; non capiva quindi come mai sua moglie, invece, si lamentasse sempre a quel modo.
«Bada a quel che dici » le ripeteva ogni volta. «È una bestemmia quella lì, e anche delle più grosse. » E si provava a farle capire quanto invece lui godesse ogni istante che Dio mandava sulla Terra.
«È facile per te, che sei un uomo » gli rispondeva risentita la moglie. «Ma alla casa e ai conti della spesa ho da badarci io! E non trovo mai poso, con quei tre figli che hanno sempre bisogno di tutto. »
Agnese (questo era il nome della donna) non aveva tutti i torti. Il marito, infatti, al 27 di ogni mese, le consegnava i soldi del suo stipendio, tratteneva qualcosa per sé al fine di soddisfare quei suoi vizi, e poi era la moglie che doveva far quadrare i conti. Lui fino al successivo 27 non aveva da dire più niente.
E guai quelle volte, rarissime per la verità, in cui Agnese si lamentava che i soldi per quel mese non le bastavano!
«Allora vuol dire che hai speso troppo » rispondeva lui. «Me lo immagino, sai, quando vai alla bottega, e ti lasci abbindolare da tutte quelle offerte tipo prendi 2 e paghi 1, che altro non sono che uno specchio per le allodole. Ah, se avessi tempo io, e non dovessi invece andare al lavoro per guadagnare quei quattro soldi, te lo farei vedere come si manda avanti una casa! »
La moglie, che aveva superato appena i cinquant’anni e da quando s’era sposata non era riuscita mai a levarsi un solo capriccio, era stufa di lottare a quel modo ogni giorno della sua vita, e per di più a sentirsi rivolgere solo rimproveri dallo sposo. Mai una volta che le facesse un complimento per tutta la fatica che metteva a far quadrare il bilancio alla fine del mese!
I figli poi si vedevano soltanto all’ora di pranzo e all’ora di cena. Buongiorno e buonasera erano le sole parole che scambiavano con lei, ma anche con il padre che, come si è visto, quando aveva il suo tempo libero, non lo sprecava di certo coi suoi ragazzi.
Aveva il desiderio di viaggiare, Agnese. E questo sin da bambina, quando il nonno le raccontava del tempo che aveva trascorso come emigrante in America, e le parlava delle sterminate fattorie, dove lavoravano a centinaia, di tutte le razze e di tutte le lingue; e le raccontava degli indiani che aveva visti, suggestionandola con la descrizione dei loro riti straordinari.
Agnese beveva tutto dalla bocca del nonno, e la sua testolina lavorava e lavorava e si costruiva da sé nuovi scenari altrettanto suggestivi.
Così era cresciuta nella speranza di poterli fare anche lei un giorno quei viaggi.
Passati i vent’anni, ancora ci sperava nella fortuna. Quando sentiva qualche amica più ricca, che era andata in Svizzera o in Austria o in Francia, narrare di quei luoghi magnifici, il suo pensiero andava a cercare lo sposo, che ancora non conosceva, ma che certamente viveva da qualche parte apposta per lei.
«Speriamo che sia ricco e che mi porti in giro per il mondo » sognava.
Le capitarono dei bei giovanotti a farle la corte. Ma Agnese sempre indagava se erano ricchi, o perlomeno se potevano soddisfare quella sua speranza, e quando s’accorgeva che erano squattrinati più di lei, con qualche scusa diradava gli incontri. E sì che qualcuno era anche carino, e glielo invidiavano le sue amiche. Ma Agnese era irremovibile.
«O è in grado di farmi vedere il mondo, o io non mi sposo. »
Sui trent’anni, ancora coltivava quell’illusione, ma già aveva avuto dai suoi genitori l’avviso, la raccomandazione di non tirarla troppo per le lunghe.
«Ora non sei più una ragazzina. Non esagerare con la tua pignoleria o arriverà il momento che nessuno ti cercherà più. »
Ma Agnese sapeva d’essere ancora piacente e vedeva bene che gli uomini l’ammiravano quando passava per strada. Ascoltava i loro complimenti con un sottile piacere.
Ai trentacinque anni però le prese la paura.
Cominciò a sentire qualche mormorio sul suo conto, qualche commento malevolo delle amiche, e poi un certo giorno, mentre passava in mezzo alla piazza, udì pronunciare da un gruppo di bei giovanotti la parola “zitella”. Non era sicura che parlassero di lei, ma quel bisbiglio le entrò nelle orecchie con la violenza di un tuono. Il suo cervello se ne andò sottosopra; non riusciva nemmeno a coordinare i suoi passi, e le sembrò d’un tratto d’essere diventata goffa, impacciata, ridicola, dinanzi a quegli sguardi, che prima invece gustava con tanta trepidazione.
Ritornata a casa, per tutto il resto del giorno se ne restò chiusa in camera. Sentiva quella parola terribile sbattere nelle sue tempie. Insomma, da quel giorno non riuscì più a trovare quiete e non ci fu notte in cui non si rimuginò nel letto angustiata dal desiderio di prendere presto marito.

 

Così quando il povero Diomede, che aveva un modesto impiego in una cartiera a due passi da Lucca, la chiese in moglie, Agnese non guardò tanto per il sottile, e alla domanda di lui: «Mi vuoi sposare? » lesta lesta, senza nemmeno guardarlo in faccia, rispose di sì.
Un pensierino, i primi tempi del matrimonio quando, fresca del viaggio di nozze, aveva ancora gli occhi lucidi della bella vita che si era goduta in giro per l’Italia, continuava ancora a farcelo su quel suo sogno di viaggiare, e ne parlava spesso con lo sposo, il quale, in quei primi romantici giorni, diceva sempre di sì a tutto quello che la tenera sposina gli chiedeva. Promettere, infatti, non gli costava niente, e Agnese era così dolce e remissiva che le si poteva inventare di tutto, tanto lei ci avrebbe creduto.
Poi venne il primo figlio e con lui irruppero nella casa tutte le gravezze del matrimonio. Non ebbe più tempo nemmeno di guardarsi allo specchio! La notte erano più le ore che trascorreva davanti alla culla che quelle sotto le lenzuola. Quando al mattino si svegliava, il suo Diomede era già partito per il lavoro, e lo vedeva soltanto la sera, allorché ritornava più stanco e nervoso che mai.
Come nacque la femminuccia, ai guai di prima si aggiunsero quelli del portafoglio, perché aumentarono le spese e Agnese dovette stare più attenta ad amministrare il poco denaro.
Fu K.O. quando mise alla luce il terzo figlio.
Già prima che nascesse, la sua mente si tormentò e disperò per le dure fatiche che avrebbero occupato i suoi anni futuri.
Infatti fu proprio così.
Era cominciato d’allora quel suo lamento.
«Se fossero già passati almeno 15 anni! » prese a ripetere ogni volta che aveva modo di scambiare qualche parola con il suo Diomede.
«La vita è bella così » rispondeva lui tutto allegro, mentre si chiudeva alle spalle l’uscio di casa per andare a raggiungere quei suoi compagni di bagordi.
E lei, restando sola, fantasticava con la mente. Perché quella povera donna era talmente tenace nel trattenere a sé il suo sogno, che mai l’aveva dimenticato. L’aveva invocato nelle ore più terribili, e la speranza di poterlo realizzare un giorno, l’aveva aiutata a superare i momenti peggiori.
Ma il Padreterno, lassù nel cielo, non volle più saperne di sentirla piagnucolare. Aveva stima di lei, ma non gli andava giù che quasi ogni giorno imprecasse contro la vita.
«Quella donna va punita » decise.
Quindi chiamò vicino a sé San Pietro, ma fu soprattutto dall’arcangelo Michele che volle sapere che cosa ne pensasse.
«Tu che sei la sentinella di quella città, non pensi anche tu che Agnese, così eternamente scontenta, vada punita? »
San Michele avrebbe preferito trovarsi a mille miglia di distanza, piuttosto che pronunciarsi a quel modo su di una persona di Lucca, città che tanto amava e che aveva messo sotto la sua speciale protezione.
«Che ne è della vostra proverbiale bontà? » si provò a dire. «Che penserà la gente di Voi, se la punirete? »
Ma San Michele capiva anche che quella donna aveva tirato un po’ troppo la corda e che questa volta non poteva esserci avvocato del diavolo capace di sottrarla al castigo. Perciò non durò molto la sua difesa. Si affacciò tra le nuvole, e si mise a guardare la scena in compagnia del Padreterno.

 

Diomede, proprio in quel momento, poiché era giunta l’ora di cena, tutto felice tornava a casa.
Bussò, e come al solito attese con pazienza, poiché sempre andava così, e sua moglie ci metteva un po’ di tempo prima di aprire; lui del resto non portava mai in tasca le chiavi di casa, perché le aveva perdute una volta e sua moglie gli aveva detto chiaro e tondo che non sapeva badare nemmeno a quelle.
Sull’aiuto dei figli non ci contava; rincasavano sempre dopo di lui e spesso doveva sedersi a tavola dopo le nove, se aveva voglia di aspettarli e vederli almeno una volta al giorno.
Finalmente sentì schiavacciare alla porta.
«Sbrigati, che è un’ora che attendo qua fuori. »
«Calmati. Ora vengo, diavolo d’un marito! »
«Fai presto! » tagliò corto.
Ma quando la porta alla fine si spalancò, che cosa videro gli occhi di Diomede?
Una vecchietta tutta striminzita, piena di rughe, sgangherata, dall’età perlomeno di settant’anni! che gli sorrideva e lo invitava ad entrare con le solite moine di sua moglie!
«Sei sempre lo stesso impaziente » lo rimproverò la vecchia, mentre lui ancora indugiava sull’uscio a squadrarla.
«E tu chi sei? Chi t’ha mai visto? » borbottò alla fine con la bocca mezza aperta.
«Chi sono!? Ma che dici mai, brutto imbecille. Sei già ubriaco prima di cena? O non lo vedi che sono la tua Agnese, dolce e ubbidiente? »
All’udire quelle parole, Diomede l’abbrancò per le spalle e la trascinò all’interno della casa.
«O tu mi dici che ne hai fatto di mia moglie, o io ti stacco dal collo quella tua testaccia avvizzita. »
«Oddio, è proprio ubriaco! » esclamò la vecchia, che cercava di divincolarsi.
Ma quando sentì che Diomede, anziché lasciarla andare, l’aveva afferrata per il collo e stava per strangolarla, si mise a gridare con quanto fiato le restava in gola: «Aiuto, aiuto! Mi ammazza! »
Salivano le scale in quel momento i tre figli. Si misero a correre sentendo le grida, e quando arrivarono, videro il babbo che se ne stava avvinghiato alla povera vecchina.
«Aiutatemi voi, figli miei! » implorava la donna. Ma anche i figli, stupiti di trovare una sconosciuta in casa loro, cominciarono a dare pugni e calci a quella sventurata.
«Che ne hai fatto di mia moglie? » gridava intanto Diomede, trascinandola per le stanze della casa. Frugò dentro l’armadio, sotto il letto, perfino nella cassapanca, aiutato dai figli, che si chinavano dappertutto nella speranza di ritrovare la loro mammina.
La femminuccia era disperata. Immaginò la mamma già morta, uccisa da quella megèra.
«Sono io la vostra mamma! » continuava a gridare Agnese, che ignorava completamente la trasformazione che le era capitata.
Fu in camera sua, quando si trovò davanti allo specchio, che comprese.
Si fermò impietrita, incredula. Passò e ripassò più volte davanti allo specchio, implorando il marito che la lasciasse in pace.
«O povera me, povera me disgraziata! » cominciò a piangere «Ora capisco perché non mi riconoscete. Oh, quanto sono brutta! »
«Finalmente dici la verità, strega della malora! » imprecò Diomede, e di nuovo le diede uno spintone, e le gridava di rivelare che cosa ne avesse fatto della propria moglie.

 

Agnese a questo punto pensò bene di non lamentarsi più, che tanto non serviva a niente, e di cercare invece il modo migliore di uscire da quel terribile pasticcio.
Fece vedere al marito che lei conosceva ogni particolare della casa. Andò in cucina, mostrò dove erano conservate le posate, le pentole, i tovaglioli; li guidò tutti e quattro in camera dei bimbi e raccontò dove aveva comperato i loro giocattoli e tutti quei disegni appiccicati alle pareti.
Alla femminuccia rivelò che aveva un piccolo neo sulla schiena e a Diomede bisbigliò qualche segretuccio che c’era tra loro.
Ma fu tutto inutile.
«Allora sei davvero una strega! » esclamò Diomede, e corse a prendere in cucina la scopa e con quella si mise a battere ripetutamente la povera Agnese.
I figli l’aiutavano a più non posso, e anche loro chiedevano a gran voce che restituisse la vita alla loro mamma.
«Brutta strega! Brutta strega! » imprecavano.
Diomede sprangò ben bene l’uscio e le finestre, e ponendosi davanti alla donna, e minacciandola coi pugni, le intimò:
«Non ti do altro tempo. O parli o ti fracasso le ossa. »
Agnese aveva finalmente capito che quella era proprio una punizione che si era meritata con le sue lamentele, ed ora non sapeva quale rimedio trovare. I suoi cari non l’avrebbero mai creduta, ed era sul punto ormai, accecato com’era suo marito dall’ira, di perdere perfino la vita!
«Oh, che cosa ho mai fatto, povera me ingrata! » cominciò a lamentarsi, tenendosi la testa tra le mani.
E si mise a piangere così a dirotto che anche Diomede sentì un po’ di compassione.
Ma subito tornò alla realtà dei fatti, e si ricordò che in ballo c’era la vita della sua Agnese, che chissà dove l’aveva nascosta quella vecchia megèra!
«Parla, o sono guai seri per te! »

 

E già stava per sferrarle sul viso il primo pugno, già Agnese si vedeva perduta, quando Dio, d’accordo con l’arcangelo Michele, pensò che era giunto il momento di porre fine a quella dura, ma assai meritata lezione.
E così Diomede, all’improvviso, si ritrovò sotto le mani il bel faccino dell’Agnese che conosceva.
«E tu da dove sbuchi! » esclamò meravigliato, fermando il terribile pugno a mezz’aria, e proprio in tempo!
«Mammina cara! » gridarono i tre figli, e lesti lesti le corsero incontro, abbracciandola.
Si guardarono intorno e videro che la strega non c’era più.
«Dov’è andata? » domandò la femminuccia.
«Non tornerà più, ve l’assicuro » rispose Agnese, stringendoli forte forte al suo cuore.
Diomede invece andò a rovistare in tutte le stanze, e durò giorni e giorni la sua ricerca, finché si convinse anche lui che quella strega se n’era davvero andata per sempre.
Una leggenda vuole che Agnese, dopo la sua morte, che avvenne in tarda età, dopo una vita condotta serenamente e rendendo felici tanto il marito che i figli e poi i nipoti, appaia alle donne lamentose e scontente come lo fu lei in quel lontano tempo, e le metta in guardia dal pericolo di essere trasformate in streghe dal Padreterno:   «Ricordate: ogni istante della vita vale la pena di essere vissuto. A me è andata bene, e Dio ha voluto perdonarmi. Ma non sempre è così per tutti. Ci sono giorni in cui perde la pazienza e nemmeno l’arcangelo Michele riesce a calmarlo. Guai se capita una giornata così. Si rimane streghe per tutta la vita. »


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Bart