LEGGENDE: Campocatino
15 Giugno 2009
di Bartolomeo Di Monaco
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Da casa mia, posso contemplare ogni giorno la Pania della Croce in tutto il suo splendore. D’inverno si ammanta di neve, d’estate spicca luminosa contro il cielo azzurro. Quando qualcuno viene a trovarmi, non manco di indicarla. Dalla finestra del mio studio, o dal portico, o dal viale d’ingresso, ella si erge dritta di fronte a me. Non ci lasciamo mai. È lei, con la sua maestosità , che mi ha richiamato alla mente uno dei tanti paesini che vivono intorno a quei monti e mi ha ispirato “Il segreto”. Alta 1859 metri, è la regina delle Alpi Apuane. Che ella si trovi proprio dirimpetto a casa mia, l’ho sempre avvertito come un segno benevolo del destino e della mia fortuna. Penso che in qualche modo mi protegga, vegli su di me, mi tenga d’occhio allorché passeggio in giardino, elucubrando i miei pensieri, o quando mi siedo sotto il portico a sognare. È un po’ la mia Venere, tanto è meravigliosa e superba.
Quando Dante Alighieri, nel canto XXXII dell’Inferno, al versetto 29, cita Pietrapana, cita lei, la Pania della Croce, con il suo nome antico, che le proviene dai lontani abitatori, gli Apuani, e “Pietrae Apuanae” erano appunto chiamati  i monti Apuani.
Vi sono stato con mio fratello Mario, non proprio sulla cima, ma fino al Rifugio Rossi [1]. Da Lucca si deve prendere la strada che porta a Gallicano e poi a Molazzana. Sentivo che era mio dovere andarla a trovare, pagare il mio tributo alla sua bellezza, posare i miei piedi su quei sassi, dentro i suoi boschi, sui suoi sentieri, sui suoi prati.
Ora, ogni volta che l’ammiro da casa mia, ricordo sempre di essere stato lassù, con lei, di averla accarezzata e abbracciata con il mio sentimento.
Tutto, lì attorno, dipende da lei. I monti che la incoronano la riveriscono, la venerano. I paesi ai suoi piedi o sulle sue pendici o arrampicati sui monti vicini, vivono e tramandano la quiete che sempre ammanta i luoghi prediletti da Dio. Nessuno osa e oserà mai sfidarla.
Sentite che cosa accadde tanto tempo fa.
Non molto distante da lei, sorge ancora oggi un piccolo paese: Campocatino. Non vi abita più nessuno, ma quando l’uomo aveva maggiore consuetudine con Dio, proprio lì, lo si poteva incontrare. La gente gli parlava, lo invocava, e soprattutto lo vedeva.
Spesso Dio si recava a trovarlo, tutte le volte che l’uomo aveva bisogno di lui.
Il visitatore ancora oggi vi può avvertire quella speciale presenza dell’infinito.
Lassù la natura è ammaliatrice di uomini.
Così era a quel tempo.
La gente viveva in pace. Non sentiva la necessità di nient’altro che non fosse la voglia di vivere in quel luogo che la presenza di Dio rendeva straordinario.
I giorni vi trascorrevano sereni. Al mattino i più giovani portavano al pascolo le greggi. Le pecore e le capre se ne andavano libere per i prati, godevano quegli spazi incontrastati.
Le ragazze restavano a casa. Accudivano ai più vecchi, lavavano, rammendavano, facevano le pulizie. Preparavano la cena. Qualche volta anche loro andavano ai pascoli.
Durante i rigidi inverni, la sera si ritrovavano insieme in una grande stalla. Lì, in mezzo agli armenti, trascorrevano liete ore.
I vecchi raccontavano ai più giovani antiche storie di montagna. Le ragazze coi loro trilli, con le loro risate, con la loro giovinezza riscaldavano il cuore della comunità .
In estate la vita si svolgeva all’aperto.
Anche la cena si consumava sotto il sole intorno ad una tavola grande.
E si cantava e si ballava, si lodava quel destino incomparabile. Forse nessun altro al mondo conosceva quel luogo. Nessuno rammentava di forestieri passati da lì.
Le donne esultavano di quella tranquilla esistenza vissuta accanto ai loro uomini. Tra i membri di quella comunità si sposavano, avevano figli, li crescevano, invecchiavano.
Campocatino era il solo meraviglioso universo che conoscevano.
Dio stava con loro.
Che cosa potevano desiderare di più?
Ma una sera uno dei pastori, tornando all’ovile, raccontò ai compagni di aver veduto delle ombre aggirarsi nel bosco.
Piccoli fruscii lo avevano allarmato. Anche il cane aveva rizzato le orecchie. Poi più niente. Altri rumori erano seguiti, rapidi, furtivi. Di nuovo il cane s’era allertato, aveva rivolto il muso verso il bosco.
Era calato infine il silenzio. Solo il vento frusciava tra i rami.
Nei giorni seguenti però la comunità stette in guardia; anche i vecchi e le donne si mossero attenti, sospettosi, intorno alle case.
Sui pascoli i giovani pastori tenevano gli occhi e le orecchie dappertutto.
Dopo qualche tempo la tensione si allentò; presto tutto fu dimenticato.
Passarono i mesi, venne l’inverno, tornò la primavera.
Una sera un pastore rincasò tutto trafelato.
Ora era sicuro. Aveva visto degli uomini. Qualcuno lo aveva spiato. E lui zitto zitto aveva finto di non accorgersi di nulla.
I vecchi non ricordavano che fosse mai accaduto niente di simile.
Nemmeno avevano sentito raccontare dai loro nonni che gente era venuta da fuori per spiare la comunità .
Si trattava sicuramente di forestieri male intenzionati.
Si approntarono le difese. Non si aveva dimestichezza per questo genere di cose. I vecchi diedero il consiglio. I giovani montarono la guardia giorno e notte.
Infine una sera videro avvicinarsi ad una delle loro casupole un manipolo di uomini.
Uno di loro grande e grosso, dallo sguardo torbido, bieco, domandò chi fosse il capo di quella gente.
«Non ci sono capi qui » rispose un giovane.
«Vogliamo le vostre case » dichiarò risoluto quel tale.
«Sono nostre da molte generazioni » intervenne il più vecchio della comunità .
«Dovete sgomberare. »
«Non lo faremo mai! »
«Domani torneremo in molti. Se non ci lascerete le case, vi stermineremo. »
E se ne andarono.
Subito la comunità si riunì nella stalla.
Le ragazze non più ridevano, ma in un angolo ascoltavano le dure parole degli uomini. I vecchi svelavano nei loro sguardi una profonda malinconia. L’indomani come avevano promesso ritornarono quei forestieri.
Ma giunti al villaggio con grande sorpresa non trovarono nessuno!
Anche le case non c’erano più! Quelle poche che videro giacevano diroccate, senza vita.
Frugarono dappertutto.
Pieni di rabbia, imprecavano che qualcuno venisse fuori dai nascondigli a parlare con loro, a spiegare il prodigio.
Ma nessuno venne, nessuno trovarono. Neanche nel bosco.
Furono presi da paura, infine da terrore.
Scapparono.
Non tornarono più.
Da quel tempo a Campocatino non abita più nessuno.
Molti dicono invece che in quel luogo ancora vive una comunità . È invisibile. Ancora ci sono i pastori, ancora le ragazze ridono sui prati o nella grande stalla. Ancora i vecchi narrano quelle antiche storie.
Sono sempre lì e attendono sorridenti le stagioni.
Ancora vi incontrano Dio. Li protegge, li aiuta, si intrattiene con loro.
1 Qualche tempo dopo, il 26 luglio 2007, con mia moglie, i miei due fratelli e mia cognata Graziella, raggiunsi anch’io la cima. Affidai a un quadernetto collocato ai piedi della croce le mie emozioni.
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Commento by Carlo Capone — 15 Giugno 2009 @ 12:18
Una leggenda bella e seducente. Mi ha trattenuto alla pagina per l’intera sua durata. Narra di un popolo fiero e pacifico, che pur di non ricorrerere alla violenza preferisce abbattare le sue case e andarsene via. Magico posto e bravo Bartolome oa proporecelo.
Commento by Gian Gabriele Benedetti — 15 Giugno 2009 @ 18:35
Sono pienamente d’accordo con Carlo.
Pagina struggente e intensa di emozioni. Amore per la montagna più simbolica delle Apuane, amore per una natura forse ancora incontaminata, incanto di un luogo, che diviene ancor più fascinoso per la significativa e poetica leggenda. Ed ancora: slancio puro verso Dio e verso l’uomo che ama la pace, la quiete, la serenità , la generosità , il sano rapporto; uomo, che si fa espressione tangibile del vero spirito vitale, umano, sociale.
Il tutto è avvolto da un alone di nobile mistero e di eternità . Viene così esorcizzata l’esistenza del male che degrada l’uomo stesso.
Debbo dire che certe sensazioni, ben espresse da Bartolomeo, si avvertono per davvero ogniqualvolta ci si trova nella magia di Campocatino.
Gian Gabriele
Commento by Gian Gabriele Benedetti — 15 Giugno 2009 @ 18:48
Mi sono ricordato che, diverso tempo, fa scrissi una poesia dedicata alla Pania. La propongo qui. Se fosse “inopportuna”, prego Bartolomeo di toglierla
Gian Gabriele
ALLA PANIA
Dal verde maschio
che t’assilla ai fianchi
elevi i tuoi silenzi cinerini al cielo
ed il tuo sguardo illimitato
s’imbratta d’azzurro e sole.
Evapora nel vento
il fiato dei millenni,
che si fa monologo robusto
nella fuga aspra ed inarcata
delle tue rocce
e nella sbreccata danza
degli anfratti stretti.
Schiumano lucciole di stelle,
la notte,
a bagnare il volto
sulla madreperla ammutolita
della tua ruvida pelle
ed a gonfiare di mistero
le tue sfocate impronte,
che sanno solo
d’accordi d’aria
e d’echi indecifrabili
di cento e cento sillabe d’incanto
a dilatare il mio respiro.
Mi perdo spesso,
come spirito ribelle,
nel sudario argenteo
delle tue alte pietre,
dove adagio i miei mattini
e le mie sere,
e ascolto le volubili stagioni
nell’innocente furto
di sovrapposte chimere
e di retaggi antichi.
Nell’infinito presente
del tuo tempo, o Pania,
amica dei miei sogni impolverati,
ti vedo al crocevia dell’eternitÃ
con la tua anima selvaggia
a custodire l’orizzonte.
Gian Gabriele Benedetti
Commento by Carlo Capone — 15 Giugno 2009 @ 20:12
Grazie, Gian Gabriele, per questi versi sentiti e gentili.
Carlo
Commento by Gian Gabriele Benedetti — 15 Giugno 2009 @ 23:23
Grazie ancora a te, Carlo, per il tuo gradito e sempre squisito apprezzamento
Gian Gabriele
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 17 Giugno 2009 @ 19:46
Sono tornato poco fa da Roma. Ringrazio Carlo e Gian Gabriele dell’attenzione.
Tu, Gian Gabriele, basta che ti sposti di poco da casa tua, sul rettilineo che porta a Gallicano e la vedi incombere sul tuo capo, maestosa e superba.
Commento by Gian Gabriele Benedetti — 17 Giugno 2009 @ 21:06
Addirittura, Bartolomeo, la vedo direttamente dalle finestre di casa mia. Ed è un vero spettacolo, una meraviglia, in qualsiasi stagione
Gian Gabriele