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LEGGENDE: Lucca e le pantere

2 Giugno 2014

di Bartolomeo Di Monaco
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La pantera è il simbolo di Lucca. Sulla Porta Santa Maria, conosciuta anche come Porta Giannotti, si possono ammirare due pantere “che reggono fra le zampe le armi della Repubblicaâ€, che il governo della città vi fece sistemare tra il 1594 e il 1595 (“Le Mura del Cinquecento†di Roberta Martinelli e Giuliana Puccinelli, Elia Matteoni Editore, 1983). Ancora nel detto libro si può leggere: “Il consiglio infatti stabiliva che sulla facciata esterna della nuova porta venissero sistemate due pantere quasi a voler ribadire con la forza del simbolo la vocazione alla fierezza della città.â€

Ci si domanda da dove nasca questo culto lucchese per la pantera. Da una storia come questa, che vi racconterò.
Lucca, che qualcuno dice essere la città più bella del mondo, affonda le sue origini nella notte dei tempi.
Certamente secoli e secoli prima della battaglia ricordata da Tito Livio.
La città, infatti, giace protetta dentro una conca dolcissima. Vi scorre il fertile Serchio. Si può davvero credere che nessuno l’abbia mai abitata prima di allora?

In quei lontani secoli il paesaggio non era però come adesso.
Le colline erano ricoperte di fitte foreste e vi abitavano animali e uccelli di ogni specie.

Anche orsi e scimmie e belve ferocissime, che erano salite sin quassù per il clima che non conosceva rigidi inverni.

Forse anche dei leoni erano venuti, sicuramente delle pantere.

Nel tratto pianeggiante che corre verso l’attuale Valdinievole si estendeva una fitta vegetazione. Solo lungo il corso del fiume il bosco qua e là si diradava per far posto ai piccoli villaggi.
Vi erano anche paludi, e lì si muoveva una fauna numerosa e variegata.
C’erano pertanto molti pericoli per gli uomini; in compenso però si poteva trovare cibo in abbondanza.

Ai tempi della nostra storia, la città di Lucca era pressoché un grosso villaggio composto da poco più di un centinaio di famiglie. Sorgeva per un buon tratto lungo le rive del Serchio e tutt’intorno aveva boschi e foreste che si arrampicavano poi fino alle cime delle colline circostanti.

Era a capo di quella gente un re che noi chiameremo Filippo, il quale aveva una sposa dolcissima, Caterina.
I sudditi lo amavano molto.
Fiero di aspetto ma assai gentile nei modi, Filippo stava sempre in mezzo alla sua gente.
Insieme con la sua sposa non risparmiava le proprie energie per accrescere il benessere del suo popolo.
E la gente amava lui e la regina ogni giorno di più.
Intorno al loro palazzo avevano coltivato bei giardini ricchi di molte piante e soprattutto di fiori. Qui passeggiavano nelle ore di svago ed ospitavano volentieri tutti coloro che venivano a trovarli.

Caterina era assai bella e molti accorrevano per poterla ammirare e parlare con lei, che conversava affabilmente con tutti.
Soprattutto le giovani ragazze provavano diletto a intrattenersi con la loro regina.
Una sera sull’imbrunire a Caterina parve di udire dei rumori nel giardino del suo palazzo.
Era in procinto di rientrare.
Si ferma, si volta; non vede niente.
Era già in casa quando di nuovo avverte dei fruscii.
Torna fuori, ma ancora non vede niente.
Insiste però.

Si dirige verso il fondo del giardino dove più fitti sono gli alberi. Ha con sé questa volta una compagna.
Ed ecco che là in fondo, sbucate dal buio, nere come la notte, stanno due grosse pantere dagli occhi gialli.
Immobili, le belve fissano le prede.
Caterina cade svenuta.
L’amica la sorregge. Ma non ce la fa, l’adagia a terra. La protegge col proprio corpo.
Le belve non si muovono.
Guardano ancora le donne.
Una, ora, si avvicina.
L’amica tende le braccia pronta a difendersi.
Caterina dorme, non vede.

Anche l’altra pantera avanza.
Ora sono vicine alle donne, annusano le vesti.
L’amica aspetta il balzo. Sente che è la fine.
Le belve sono coi loro musi sopra Caterina, e la regina proprio in quel momento si sveglia.
Con terrore vede gli occhi gialli sopra i suoi. Tende la mano all’amica e insieme aspettano.

Invece, le belve docilmente alzano la zampa. Una soprattutto, la femmina, cerca il gioco. Con la testa accarezza il ventre di Caterina. Il maschio sta fermo, guarda consapevole la compagna. Anche lui accenna a una carezza, allunga la zampa, tocca il piede dell’amica incredula.

Allora Caterina, incerta, trepidante, posa la mano sul capo della femmina. Lei lo china, come un gatto fa le fusa. Anche il maschio vuole la carezza, e Caterina è pronta al gioco.

Nei giorni seguenti, sempre sull’imbrunire, le pantere tornarono puntuali.
Le donne avvertivano dentro di loro una grande felicità.
Caterina ne parlò con Filippo.
Le belve camminavano anche per le strade, ora. Davvero incredibile la loro mansuetudine!
Ma era soprattutto il giardino il luogo preferito dei loro incontri.
Se ne stavano quiete accovacciate ai piedi della regina; ogni tanto si voltavano a guardarla.
Un giorno una sentinella viene dal fiume.
È tutta trafelata. Corre e non ha più fiato in gola. Dei predatori risalgono il Serchio, dice. Armati fino ai denti e numerosi, sono diretti alla città.
Filippo fa suonare l’allarme. Tutti corrono a prendere le armi; le donne e i bambini si chiudono nei rifugi appositamente preparati. Caterina è in strada a prodigarsi negli ultimi aiuti. Dà consigli. Invita i più spaventati a restare con lei nel suo palazzo.

Quando i predatori si affacciano alle prime case, tutto è già pronto per la difesa.
Gli intrusi avanzano guardinghi. Sanno che la città in qualche parte sta appostata.
Comincia il saccheggio.
Ma ancora Filippo sta nascosto coi suoi. Ancora non dà il segnale dell’assalto.
Il saccheggio si fa più feroce.
Ed ecco che giunge finalmente la risposta della città.
Da ogni parte sbucano i lucchesi!
Conoscono la dolcezza della pace. Maledicono quei barbari venuti dal fiume.
Il nemico non si aspetta quel coraggio. Ha paura, intuisce che può soccombere.
Finalmente i lucchesi hanno il sopravvento.
Filippo è stratega invincibile.
Gli invasori sono costretti a cercare una via di scampo. Pieni di rabbia si nascondono nelle case.
Tre di loro, non visti, penetrano attraverso il giardino nel palazzo ed ora corrono all’interno spaventati; spalancano le porte, cercano il modo di salvarsi.

Ed ecco che trovano la regina.
Sta nella sua stanza con le altre donne e i bambini.
Caterina grida, invoca pietà soprattutto per i piccoli e le altre donne.
Uno dei barbari l’afferra, intuisce che è proprio lei la regina. La trascina con sé. Urla ai compagni di seguirlo. Si faranno scudo di lei.
Escono in giardino.
Filippo è già lì con i suoi. Ma non ha altra via d’uscita, e ordina che si lascino andare.
Con passo svelto ma guardingo, essi guadagnano rapidamente il fondo del giardino, dove gli alberi sono più fitti.
Dietro quegli alberi sono ora spariti. Non si vedono più.
Filippo vorrebbe correre, inseguire; a stento si frena. Sa bene che uno sbaglio causerebbe la morte della sua Caterina. Sta fermo.
Ma ecco che dal buio di quegli alberi si leva un grido terrificante.
Si odono i rumori di una lotta.
Filippo è svelto. Intuisce che gli è offerta una grande opportunità. Corre con tutte le sue forze. Anche i suoi lo seguono armati.
Raggiunge Caterina, e vede a terra i corpi lacerati dei tre predatori. Accanto a Caterina, con la teste alzate verso di lei, gli occhi gialli, vogliose del gioco, stanno le due pantere.
Caterina si china, le abbraccia piangendo.


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Bart