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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

LEGGENDE: Montuolo e la ragazza del fiume

6 Febbraio 2008

di Bartolomeo Di Monaco  

Montuolo è un grazioso paese distante 5 chilometri da Lucca, situato, in direzione ovest, sulla vecchia via Pisana.

     Qui, al n. 4397, c’è anche la mia casa, dove vivo in perfetta armonia con me stesso e con la natura che mi circonda, quando gli acciacchi dell’età ovviamente me lo consentono.
     Montuolo ha conservato ancora le caratteristiche di paese rurale e, nonostante alcune recenti costruzioni, la sua fisionomia resta abbastanza preservata.
      È borgo di antiche origini. Come riferisce Emanuele Repetti nel suo “Dizionario Geografico Fisico Storico della Toscana”, del 1839, in un documento datato “Lucca li 9 aprile 970, il Vesc. Adalongo allivella per l’annuo tributo di 15 soldi d’argento a Ildebrando del fu Teuperto la pieve di S. Martino situata nel luogo denominato Flexo”. La pieve di S. Martino altro non è che l’antico nome dell’attuale pieve di Montuolo, oggi intitolata a San Giovanni Battista. Il luogo era chiamato Flexo per via di una ansa che lì nei pressi della chiesa disegna l’antico ramo del Serchio, oggi conosciuto con il nome di Ozzeri o Ozzori.
      Guglielmo Lera, nel suo “Lucca città da scoprire” (Maria Pacini Fazzi Editore, 1975) scrive: “Il più antico documento risale al 738 e ci parla di un luogo abitato e coltivato.”
      Nella “Rivista di archeologia storia economia costume” n. 3 – luglio-settembre 1976 si fa riferimento anche ad un documento di poco posteriore conservato presso l’Archivio Arcivescovile di Lucca, perg. + M. 71, il quale riferisce che nell’anno 845 ne era pievano “prete Tassimanno qd. Gumpoli, con impegno per se ed i suoi successori nella pievania di rendere annualmente, nel mese di maggio, al Vescovato di San Martino ‘pro suvrascripta pleve’ venti soldi d’argento da dodici denari ciascuno.”
La stessa Rivista, riguardo al nome di Montiolo (da cui più tardi Montuolo), che “compare per la prima volta nell’anno 1000 in un atto di vendita di terre a vigna ‘in loco et finibus Montiolo prope plebem S. Martini'”, riporta quanto gli abitanti del paese tramandano da tempo immemorabile, ossia che “Originariamente il nome di Montiolo doveva essere attribuito alla sopraelevazione del territorio di Flesso ad oriente della fabbrica della pieve, sul cui culmine si alzava un fortilizio documentato fin dal 1164 in una cronaca pisana.”
        Da casa mia, ho il privilegio, proprio affacciandomi da una delle finestre del mio studio, di contemplare davanti a me la chiesa con l’antico campanile, la cui costruzione risale alla seconda metà del 1100, nonché il piccolo colle su cui si ergono le case più antiche del paese. Una visione affascinante, soprattutto la sera, quando la chiesa e il campanile sono illuminati da fasci di luce che ne mettono in risalto la superba e millenaria nobiltà.
      Le costruzioni di difesa cui si fa riferimento sono pressoché scomparse, se si fa eccezione dei ruderi di Castel Passerino, visibili risalendo la collina che sta proprio dietro il paese. A questo proposito, sempre Guglielmo Lera scrive: “Poche furono le terre che ebbero per Lucca un’importanza strategica come questa. Basti pensare che fu dotata di ben due fortezze: quella di Montuolo e quella di Castel Passerino, di cui ci limiteremo a ricordare le distruzioni operate nel 1313 da Uguccione della Faggiola e nel 1336 dai Fiorentini.”
      Su Castel Passerino potete leggere, nel mio Lucchesia bella e misteriosa, la vicenda davvero singolare narrata in “Montuolo e il Tiranno di Castel Passerino”.
      Ma veniamo ora alla storia che voglio raccontarvi.
      Dovete sapere che, a due passi da Montuolo, tuttavia nella sua giurisdizione, in direzione di Pisa, si trova una località denominata Fornacette, ancora oggi un piccolo agglomerato di case. Qui vivevano, ai primi del ‘900, alcuni ragazzi e ragazze che ogni mattina, a piedi, andavano a Lucca per frequentare la scuola.
      Dovevano alzarsi molto presto.
      Oggi sarebbe inimmaginabile un tale sacrificio per studiare!
      Ma trovandosi insieme, la cosa veniva meglio sopportata.
      Lungo la strada si raccontavano barzellette, si prendevano in giro.
      Era tutt’altra musica, però, quando arrivavano i giorni del freddo e della neve; i genitori trepidavano nel vederli partire nel buio del mattino con sciarpe e cappotti, e grossi zoccoli ai piedi.
      Qualcuno dei ragazzi, passando a quell’ora davanti all’antica chiesa di Montuolo, scorgendone nel buio il basso campanile, aveva momenti di malinconia.
      Cominciava ad albeggiare quando erano vicini alla città. Ed era bello, nei giorni della neve, vedersi comparire davanti, all’improvviso, le Mura possenti, adagiate sui prati innevati e, dentro la città, i campanili alti sopra i bianchi tetti delle case. Sembrava ai ragazzi di assistere ad una magia.
      In un giorno di quegli inverni si verificò il fatto che voglio raccontare.
      Era una giornata carica di neve.
      Aveva nevicato ininterrottamente da più giorni. Lungo la strada si vedevano di quando in quando rami spezzati caduti dagli alberi.
      Una delle ragazze si chiamava Caterina.
      Magra come un uscio, più alta della sua età, era tra le più vivaci del gruppo. Aveva sempre pronta la battuta e gli amici si divertivano volentieri con lei, che sapeva rispondere per le rime.
      Ebbene, finite le ore della scuola, quella volta che la strada era stracolma di neve decise con un’amica di prendere il sentiero del fiume.
      Voleva ammirare il Serchio, vederlo scorrere tra mezzo agli argini imbiancati, gustare gli antichi colori delle poche case che lo fiancheggiavano.
      L’amica fu entusiasta dell’idea. Possedeva anche lei quell’anima sensibile che spesso frusta la ragione e la vince.
      Il Serchio fluiva superbo, gonfio d’acqua.
      Caterina camminando sull’argine, i libri appoggiati al petto, confidava la sua gioia all’amica estasiata.
      Quale incanto sapeva offrire la natura!
      Ma ecco che all’improvviso il piede scivola. Sotto la neve non c’è il poggio dell’argine, e Caterina precipita giù.
      Lesta l’amica allunga la mano per afferrarla; Caterina tende il braccio. Ma ancora ruzzola giù; si capovolge, piomba nell’acqua.
      Il Serchio l’ha presa.
      Attonita, confusa, muta, l’amica si affaccia dall’argine.
      Nessun segno viene più dal fiume.
      Disperata fugge a casa; e racconta piangendo.
      Tutti si precipitano fuori.
      Qualcuno grida di correre al fiume.
      Presto, bisogna far presto!
      L’argine è pieno di gente. La neve è calpestata, non è più candida come prima, ma infracidita, scura.
      I genitori scrutano e chiamano.
      «Caterina! »
      «Caterina! »
      Anche dalle casupole del fiume sono accorsi. Hanno preso le barche, remano.
      Ancora chiamano. Le voci percuotono il silenzio della neve.
       Ma cosa succede ad un tratto laggiù nell’acqua, nel profondo della corrente, dove il Serchio è più gonfio, più nero?
      Qualcuno vede un’ombra salire.
      Tutti fissano quel punto. Le barche vi stanno intorno, sono increduli i rematori.
      È proprio Caterina che sale dall’abisso! Dal fondo del fiume sta tornando ai vivi.
      È sorridente. Ha pronta la battuta pei rematori, che le tendono le braccia, non sanno che dire.
      I genitori la chiamano. Caterina riconosce la loro voce; il suo sguardo fruga, li trova. Alzandosi dalla barca, li saluta.
      In tutta la città di Lucca per giorni e giorni non si parlò d’altro.
      Caterina era di nuovo tra la gente più bella che mai.
      Qualcuno diceva che era stato il fiume a riportarla tra i vivi, e che il fiume aveva voluto premiare l’amore della gente. Ma soprattutto aveva voluto premiare lei, Caterina; ricompensare in quel modo il suo grande amore per la vita.
      Si narra che certe notti Caterina passeggi lungo l’argine del fiume. Qualcuno giura di averla vista in paese, affacciata alle spallette del ponte sull’Ozzeri, intenta a scrutare l’acqua scura e profonda. Se la si incontra e soprattutto si incontra il suo sguardo, la leggenda vuole che si abbia una vita felice.
       Altre volte è stata vista addirittura camminare sull’acqua.


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4 Comments

  1. Commento by Carlo Capone — 6 Febbraio 2008 @ 12:13

    “Lucca li 9 aprile 970, il Vesc. Adalongo allivella per l’annuo tributo di 15 soldi d’argento a Ildebrando del fu Teuperto la pieve di S. Martino situata nel luogo denominato Flexo”

    Adalongo, Teuperto. Nomi di origine longobarda, suppongo. Che ne diresti, caro Bart, di raccontarci della penetrazione longobarda in alta Toscana? se c’è stata, s’intende.
    Saluti
    Carlo

  2. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 6 Febbraio 2008 @ 12:43

    Caro Carlo, ti rispondo con un brano del libro di uno studioso lucchese, innamorato della città: Guglielmo Lera, scomparso appena qualche anno fa.

    ______________

    Con le invasioni barbariche Lucca acquistò preminenza sulle città toscane e nel 552 si distinse come estremo baluardo dei Goti contro i Bizantini di Marsele. Della dominazione di questi ultimi, durata meno di 20 anni, si conservano solo tracce in determinati culti di Santi (es. S. Reparata, a cui fu dedicata l’antica chiesa madre, oggi S. Giovanni; S. Margherita, S. Caterina d’Alessandria, S. Mamiliano, S. Agata, S. Eubulo).
    Nei secoli VII e VIII Lucca fu uno dei tre ducati longobardi della Tuscia e sede abituale di re, oltre che capitale. E mentre le altre città decadevano, essa conservò salde fortificazioni, un buon numero di abitanti e floridi commerci. Favorirono questo stato di cose la presenza di una corte regale, l’importanza assunta dalla diocesi, e la via Romea, su cui Lucca fu per secoli anello di congiunzione tra l’occidente europeo e Roma. Inoltre vi prosperarono le arti e si ebbe così la prima rinascita culturale, edilizia ed economica, con scuole varie, costruzioni di chiese (circa cinquanta) e di edifici pubblici. Testimonianze dell’importanza di Lucca in questo periodo sono le ricche tombe longobarde di S. Giulia, S. Romano, S. Lorenzo a Vaccoli, Marlia e Piazza al Serchio.
    Intanto una nuova popolazione, i Franchi di Carlo Magno, abbatteva il dominio longobardo e dava origine nel IX secolo al marchesato di Toscana, che ebbe a Lucca la residenza urbana e nei dintorni due ville (Marlia e Vivinaia).
    I personaggi che caratterizzano la storia lucchese di questo periodo sono Adalberto I che, d’intesa con Lamberto di Spoleto, conquistò la rocca di Narni per ridurre all’obbedienza Papa Giovanni VIII; suo figlio Adalberto II, che nel 901 accolse in città l’imperatore Ludovico; Berta, moglie di Adalberto II (ambedue sono sepolti in S. Martino) e madre di Ugo di Provenza, re d’Italia (926-45); Ugo il Grande detto da Dante il « Gran Barone ». Se consideriamo che fino al mille questa è l’epoca che vede il trionfo della violenza, dell’arbitrio e della grande corruzione della chiesa, dominata dalla simonia, dal concubinato e dalla soggezione alle fazioni, non meraviglierà se anche nel territorio lucchese si affermano le forze disgregatrici del potere centrale. L’economia di scambio si riduce al minimo ed è sostituita dall’economia curtense circoscritta alla vita del castello. Scompare del tutto la piccola proprietà privata per far posto alla economia feudale di cui sono dispotici signori coloro che ottengono benefici dai re o dai marchesi. Si hanno inoltre devastazioni lungo le coste per mano dei Saraceni e fin sotto le mura delle città (S. Pietro a Vico) per il sopraggiungere delle orde ungare. Le famiglie di sangue longobardo che mai avevano cessato di conservare un certo potere, grazie a concessioni di terre loro allivellate dai vescovi nei maggiori pivieri della diocesi, nella campagna, in Val di Sarchio e in Versilia costituiscono intanto vasti possessi fondiari. Nacquero così le signorie feudali che, valendosi dei poteri giurisdizionali sulle popolazioni e della loro forza economica e militare rappresentate dalle terre e dai muniti castelli di cui erano padroni, fino alla seconda metà del sec. XIII rappresentarono un forte ostacolo alla penetrazione lucchese.
    Ma dentro la città, difesa dalle sue mura, viene intanto a costituirsi una rete di comuni interessi tra uomini delle diverse classi, nobili e plebei, artigiani, religiosi e mercanti. I marchesi di Toscana, che le perverse consuetudini di Bonifazio (sec. XI), padre della contessa Matilde, avevano resi odiosi, e che borghesia, piccoli feudatari e parte del clero consideravano un ostacolo naturale alla loro emancipazione politica, furono la prima potenza contro cui si volse la città desiderosa d’indipendenza.
    Nel 1077, in piena lotta per le investiture, si ebbe così un partito filoimperiale ufficialmente rappresentato dai canonici del duomo, ribelli alla riforma di Gregorio VII; e, dopo la riduzione di questi per mano di Matilde allo stato di servi, fu tale l’appoggio dei vari strati sociali alla fazione antiriformista che il vescovo Anselmo II fu costretto a fuggire (1084) nel castello di Moriano.
    Nel 1088, per la sconfitta subita sul campo dall’esercito imperiale, prevalsero i partigiani di Matilde. Ma Lucca, per merito di Enrico IV, godeva ormai di numerose concessioni (esenzione di balzelli sul Serchio e il Motrone, facoltà di transito per terra da Luni a Lucca, divieto a chiunque di costruire castelli 6 miglia intorno alla città) ed i suoi commerci si erano talmente sviluppati anche fuori d’Italia che, nel corso della prima Crociata, non solo troviamo dei Lucchesi tra i combattenti in Terrasanta, ma la lira lucchese come moneta di scambio sotto le mura di Antiochia.
    La ripresa dei contrasti con Pisa iniziati un secolo prima nel 1004, l’alleanza con Genova, la partecipazione alle varie guerre dei nobili di Versilia e Garfagnana, dopo la morte della contessa Matilde (1115) caratterizzarono la storia della prima metà del sec. XII, che vide Lucca impegnata nello sforzo di rendere ad ogni costo sicuri i suoi traffici per la via Romea e le vie lungo l’Arno. Nel 1158 venne finalmente stipulata la pace con Pisa. Ma poiché quelli erano anni che reclamavano grande accortezza per la presenza in Italia di Federico I, mirando le città toscane ad assicurarsi i favori imperiali e la riconferma degli antichi privilegi, Lucca, da un lato, fece il possibile per non inimicarsi il Barbarossa, dall’altro, capitatale l’occasione di ospitare nel 1160 Guelfo di Toscana, dietro pagamento di mille soldi d’oro per 90 anni a lui ed ai suoi successori ottenne la cessione dei diritti marchionali sulla città, sobborghi e distretto.
    Tale atto, accettato da Federico I come valido nella Dieta di S. Genesio del 1162, segnò per Lucca il primo riconoscimento di una legittima giurisdizione.

  3. Commento by Gian Gabriele Benedetti — 6 Febbraio 2008 @ 20:02

    Interessante la storia di Montuolo e notevolissimo è stato il contributo dell’indimenticato Prof. Guglielmo Lera a riportarci, con intelligenza e puntualità, al passato della terra lucchese. Anche tu, Bartolomeo, sei una memoria storica, in tal senso. In più unire storia e leggenda è dare maggiore emozione ad un mondo che è stato il nostro, è dare più saggezza alla realtà, è farci sentire ancor più vicini a ciò che ci circonda, è umanizzare il mondo.
    Ti abbraccio, Bartolomeo
    Gian Gabriele Benedetti

  4. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 6 Febbraio 2008 @ 21:20

    Il Prof. Lera è stato con te, Gian Gabriele, per vari anni nella giuria dei Premi Letterari di Coreglia Antelminelli, premi che si sono sempre distinti per qualità e autonomia.
    Lo hai conosciuto bene, quindi, e sai il grande amore che nutriva per Lucca.

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