di Bartolomeo Di Monaco
Un’anziana ebrea russa, Esther Heshel, fuggita dalla sua patria al tempo della rivoluzione bolscevica, se ne sta rintanata in una villa acquistata in un piccolo paese di montagna, nel Friuli, di cui significativamente non si conosce il nome, giacché quella villa e quel paese diventeranno un simbolo ed un approdo per tanti disperati. Marta, la domestica – siamo al tempo della Seconda guerra mondiale, dopo l’8 settembre 1943 – la rassicura che la guerra sta per finire, e quindi stanno per finire anche i pericoli per la sua razza, ma Esther ha “la sensazione continua di essere spiata, ricercata”. Non avrà tutti i torti, vedrete. I tedeschi di son fatti rabbiosi e violenti. I treni diretti in Germania sono pieni di zingari e di ebrei. Marta, restata a custodire la villa insieme con Anita, una giovane meridionale, il cui fratello Arturo, fidanzato di Marta, è stato inviato in Russia e lo si crede morto o disperso, dà rifugio ad Haha, un vecchio zingaro scampato ai rastrellamenti. Chi osserva i fatti ed agisce come dominante in questa storia, dunque, è una donna, a differenza di altri romanzi di questo autore che hanno come protagonista soprattutto uomini; allo stesso modo che, nella guerra partigiana che comincia ad intensificarsi, troviamo anche capi che sono donne, come Sonia, e pareva, come scrive Sgorlon, che “fossero uscite dalla consueta figura di madri e di mogli, tutte dedicate ai lavori casalinghi, per imbracciare le armi anche loro, e stare accanto agli uomini.” Marta sente “di appartenere a un modello di donna senza tempo, destinata in eterno a sanare come poteva le ferite della guerra.” E ancora: “Per lei, gli uomini che combattevano, vinti o vincitori, invasori o invasi, erano sempre degli sconfitti, perduti in illusioni strane e senza fondamento. Lei l’aveva capito da tempo, ma gli uomini no.”
Succede che i tedeschi per snidare i partigiani fanno venire dalla Polonia, dai Balcani, ma anche dalla Siberia, i cosacchi, un popolo guerriero rimasto fedele allo zar e che vede nella rivoluzione bolscevica un tentativo di “modificare in profondità il popolo più libero e fiero della terra”; così per tutto il Friuli giungono carrette “ricoperte di pelli o di teloni, come quelle dei coloni del Far West”, trainate da stalloni “enormi e tranquilli”, cariche di cosacchi dalla pelle spesso “giallastra, gli occhi orientali, le guance grigie di barba, i piccoli colbacchi scuri gettati all’indietro, sulla nuca, o berretti più leggeri e adatti alla stagione.” Alcuni prendono alloggio nella villa abitata da Marta, che si trova così la casa piena di gente. Ma non si rattrista, anzi è contenta. Le è sempre piaciuto avere attorno a sé persone a cui attendere. È anche “una donna facile da avere”.
Sgorlon, in una nota, dichiara il proprio tributo al romanzo di Leone Tolstoj: “I cosacchi”, in cui questo popolo, per l’eccellenza del grande autore russo, viene avvolto da un alone di leggenda, come del resto accade pure nell’altrettanto luminoso e celebre racconto di Gogol: “Taràs Bùl’ba”; tuttavia, anche Sgorlon, evocatore del mito come pochi, sa trattare la materia con eguale maestria ed incanto e Gavrila, Ghirei, Urvàn, il piccolo cosacco Luca, Burlak, il “circasso fortissimo e grande”, “nato per la guerra”, il vecchio tartaro Akmekkahn “splendidamente asciutto, arzillo e allegro”, si rivelano personaggi di grande suggestione. La trasformazione del villaggio in una “stanitÅ¡a” cosacca avviene gradualmente, con un’attenzione accurata alle usanze di quel popolo che via via vengono introdotte e che si riflettono presto in una nuova condizione di vita anche dei friulani: “Pareva che nel villaggio, e in tutti i villaggi e le vallate di Carnia, un incantesimo strano avesse trasportato di peso i colori, gli odori e gli oggetti del paese dei cosacchi.” Numerosi i particolari messi in risalto, quale ad esempio questo, a proposito della religiosissima Dunaika, la madre di Ghirei: “Per i morti del bombardamento non faceva che pregare e tracciare infiniti segni di croce con le dita raggruppate a mazzetto.” Sgorlon ne approfitta per tornare a deprecare la guerra – costante presenza in un modo o nell’altro nei suoi romanzi -, descritta qui con gli occhi di un popolo che si trova nella duplice condizione di vittima e di oppressore, in una pagina di storia vera, localizzata in quel lembo d’Italia di cui Sgorlon è un testimone illuminato, attento e coraggioso, e forse poco conosciuta, ma che si eleva a simbolo delle assurdità e delle follie della guerra. I cosacchi, infatti, cacciati dai “Rossi” dalla loro patria, attendono il momento del rientro. I tedeschi, a cui si sono alleati nella speranza di poter riprendere la loro terra, li considerano, però, degli inferiori e li tengono occupati a combattere i partigiani della Carnia. Essi avvertono, così, che non c’è poi tanta differenza tra loro e i partigiani, anch’essi impegnati a scacciare l’invasore; preferirebbero, perciò, essere impiegati in una vera e propria guerra contro i bolscevichi. Non corre buon sangue tra cosacchi e tedeschi: il momento del loro impiego, che sognano sotto il comando del leggendario, ma vecchio e stanco Krassnov, tarda ad arrivare e covano nei confronti degli alleati sempre più diffidenza e rancore. Riuniti la sera intorno ai bivacchi, nelle loro canzoni (tra cui i “dumy epici che parlavano di disfatta e di morte”) e nelle storie che si raccontano, ritornano “i nomi delle loro stanitÅ¡e abbandonate, delle località nella steppa e nelle Terre Nere, e dei loro fiumi perduti.” C’è uno scandaglio riuscito dell’anima cosacca. Il vecchio tartaro Akmekkahn, “che sembrava tagliato soltanto per la festa e la gioia, ad un certo punto s’infilava nella gola stretta della tristezza.” Pensava “che il ‘kazàk’ aveva soltanto nemici, i partizany, i tedeschi, i Rossi, gli Alleati, le malattie, i pidocchi, la fame, e dappertutto gli sparavano a tradimento e gli tendevano agguati.” Così è anche per gli altri: “Urvàn aveva un’anima slava e cosacca, con dimensioni vastissime, carica di rimpianti enigmatici e di sconfinate nostalgie.” È la malinconia di un popolo nomade, costretto dal destino a perdere continuamente la sua patria, che si porta sempre dietro “nelle lunghe peregrinazioni”, impressa e accarezzata nella memoria: “il kazàk, quando era sconfitto, abbandonava la propria terra e se ne andava altrove. Quello era il suo costume e la sua tradizione.” Si tratta di un popolo dalle molte etnie, ma compatto e solidale: “I tartari e i circassi per esempio erano più selvaggi degli altri, più inclinati all’orgia, al saccheggio e alla rapina. Ma anche quelli erano kazàk”. La forza del passato transita nel romanzo attraverso questo popolo, e la stessa Marta, che parla il russo per essere stata al servizio dei suoi padroni deportati, gli Heshel, ne è avvinta, fino al punto che si riflette tra la più anziana Dunaika e Marta un reciproco comune sentire, e soprattutto il convincimento che “lo spirito dell’uomo era fatto per la pace, la tranquillità, la vita di tutti i giorni”.
Insieme con la coralità dei due popoli, sono le donne tra le interpreti principali di questa storia; i pensieri e i sentimenti, che pur non mancano negli uomini, specialmente nel cosacco Urvàn, si elevano per il loro tramite e diventano lezione della storia, congiunzione di realtà e istinto, di ciò che è concreto e di ciò che si percepisce ed è insondabile. Avevamo già visto, ne “La carrozza di rame”, la scelta nuova di Sgorlon di distribuire il fascino e la magia della parola sul conto di più di un narratore. Questa scelta si ripete qui. Molti cosacchi, da Gavrila a Urvàn, da Ghirei al cuginetto Luca, a Dunaika, e così via, sono raccontatori. Il piccolo Luca “quando si metteva a raccontare a sua volta le favole che gli aveva narrato Dunaika, imitava il sussiego del principe, l’astuzia guardinga del ladro, la parlantina del venditore ambulante, o l’allegria festaiola e canterina del vagabondo.” Perfino all’indomani della epica e tragica ritirata, narrata in pagine memorabili, allorché i superstiti accendono i fuochi dei bivacchi “Fiorivano i racconti”. È attraverso il raccontare che scorre l’anima di un popolo. Più ancora che nelle cose materiali, nei segni visibili, ossia, è nella parola, quella non scritta soprattutto, che si tramanda la complessa identità della vita, nella quale, ad esempio, la bellezza e l’amore non conoscono freni di razza e di condizione, e nemmeno i venti freddi della guerra riescono a cancellare. Alda è una ragazza friulana di rara bellezza. Il giovane Ghirei, “che era molto bello”, ne è invaghito e cerca in tutti i modi di attirare la sua attenzione: “Talvolta quando la strada era deserta e sgombra di neve, spuntava in fondo alla borgata col cavallo lanciato in corsa. Com’era vicino alla sua finestra, smontava dall’animale, lo seguiva per pochi passi, tenendosi afferrato alla criniera, e risaliva in groppa con la destrezza dell’acrobata.” La guerra è così, per un attimo, lontana, domata, e la sovrasta la parte più bella e incantevole della vita. Per un attimo, tuttavia, giacché “la guerra era il trionfo della morte.”
Anche Urvàn ha simpatia, ricambiata, per Marta. Spesso considera che “C’era affinità tra la sua e quella gente, invasa e rapinata da loro.” Così a poco a poco prende forma il convincimento che “c’era qualcosa di stridente e di falso nel fatto che il Kazàk fosse venuto a invadere le terre di un altro popolo.” Perfino il vecchio e duro Akmekkahn, davanti al plotone di esecuzione “avvertì che c’era negli uomini qualcosa di comune e di universale, che tendeva alla pace e alla vita”. Sgorlon avvicina il popolo friulano al popolo cosacco: la stessa malinconia che troviamo condensata in Gavrila; lo stesso carico di nostalgie e di sventure. Marta non riesce a fare distinzione tra gli uomini, che considera “tutti simili tra loro, che parlavano lingue diverse, che avevano in mente cose differenti, ma erano tutti tartassati dalla guerra e dalle sventure, tutti dispersi nel disordine e nel buio del mondo.” Un pensiero che sfiorerà anche il giovane Ghirei allorché, smarritosi sulla montagna, si troverà di fronte ai partigiani, e addirittura allo stesso Vento, il loro leggendario e imprendibile capo, e non saprà riconoscerli. Soltanto sulla strada del ritorno, lasciato andare dai partigiani che si sono accorti della sua inesperienza e che li ha scambiati per pastori, si renderà conto della verità e di aver scoperto “che i partizany erano uomini come lui, che avevano degli amici, degli affetti, una donna da salutare. Se non l’avevano ucciso voleva dire che non erano sanguinari e terribili come si diceva”. Sgorlon traccia con nettezza il confine tra l’essenza dell’uomo, che discende dalla stessa progenie, e le sue azioni che si sono andate accumulando nel tempo, tali da condurre a divisioni, assurdità e nefandezze inconcepibili, tra le quali primeggia il demone della guerra (“gli uomini avevano la guerra nel ventre, come una malattia endemica”), i cui disastri “ritornavano eternamente, sotto climi diversi e in tutti i luoghi della terra.”, e quando Marta apprende dell’esistenza dei campi di sterminio dentro i quali finiscono ebrei, zingari, partigiani fatti prigionieri, e dove è finita la sua padrona Esther, si rassoda nella “decisione di sopravvivere a ogni costo e di tener duro fino in fondo.” La “corrente della vita” riprende a scorrere in lei come risposta alla morte, allo stesso modo che nel popolo cosacco si riversa il desiderio, attraverso il canto e il ballo, di non voler morire e di possedere “ancora un futuro, dei villaggi da abitare, un fiume nel quale nuotare o pescare le trote.”, e che “mai nella storia si era verificato che un popolo fosse stato eliminato per intiero.” Ma al di là di questo, il triste convincimento che qualcosa di irreparabile è accaduto con la guerra s’insinua a poco a poco nella mente, non solo di Gavrila e Urvàn, i più attenti e sensibili, ma di tutto il popolo; una sorta di presentimento pervade i “Kasàki” e una strana inquietudine li conduce a considerare che forse il loro sogno di libertà è destinato a morire in quel lembo di terra. S’innesta, cioè, un lugubre canto di dissolvimento e di morte, nel quale, come ad un appuntamento finale, tutto il carico e il mito del passato si presentano alla resa dei conti di fronte all’impassibilità violenta della storia: Urvàn sentiva “in modi sempre più forti di appartenere a una generazione perduta, schiacciata dalle maledizioni della storia.”; “quel popolo era come disorientato, istupidito, incapace di parare i colpi.”, penserà Marta, quando constaterà il gran numero dei cosacchi uccisi dai partigiani. Sarà, la loro, un’agonia terribile, devastante, che a poco a poco li vedrà soli, abbandonati anche da quei pochi che li avevano per qualche tempo considerati uomini come gli altri, invece che invasori.
Se ne “Gli dèi torneranno” spirano già i profumi seducenti e delicati che incontreremo ne “La conchiglia di Anataj” del 1983, “L’armata dei fiumi perduti”, uscito nel 1985 (e finito di scrivere nel 1983), si trascina dietro, pur nella tragicità della conclusione, e diffonde le medesime, incantate atmosfere, con la sola differenza che, mentre nel romanzo uscito nel 1983 l’azione si svolge nella Russia siberiana, Sgorlon ricostruisce e fa rivivere, attraverso una dolorosa pagina di storia, quelle atmosfere nella sua regione, il Friuli, che egli considera altrettanto evocatrice, tragica e mitica. Si leggerà: “Invasori e invasi erano stretti e impastati insieme da un medesimo destino.” E ancora: “Il Friuli con i suoi fiumi e le sue verdi montagne, la gente e le sue donne, così simili in qualche modo alle ragazze e alle bábuÅ¡ke cosacche, si riassumevano e si concentravano in Marta e nei suoi richiami potenti.”
Marta e la sua villa, ereditata dagli sventurati Heshel, continuano ad essere un rifugio per tanta gente disperata. Anche Ghirei vi farà ritorno, come pure il partigiano Ivos, conosciuto con il soprannome di Vento. C’è un vagabondo che gira per quei luoghi, ha perso la memoria, è “il più indigente di tutti.” Ha un volto familiare, seppure nascosto da una fitta barba incolta. Anita è più che sicura di averlo riconosciuto; Marta intuisce, freme, non vuole crederci, ma quando va nella baracca per incontrarlo, il barbone è sparito. Non tornerà mai più, simbolo atroce di una guerra che, sottraendoci la memoria, ci ruba la vita.