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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

LETTERATURA: Cencio Ognissanti va in città

20 Marzo 2022

di Bartolomeo Di Monaco
(Estratto dal mio romanzo-cronaca “Cencio Ognissanti e la rivoluzione impossibileâ€, del 1995/1996)

Quel pomeriggio Cencio andò in città. Glielo suggerì Loretta.
«Vatti a distrarre. »
«Ma è vita questa? » le rispose Cencio, che pensava alla vacuità dei suoi giorni.
«Non ci pensare. Passerà. » Loretta temeva che i nervi di Cencio potessero cedere, che la resistenza di un uomo non fosse preparata a subire tutte queste umiliazioni. La donna, si sa, è più forte, ha millenni di sopportazioni sopra le spalle, ma l’uomo, ce l’avrebbe fatta l’uomo ad attendere il cambiamento senza provocare una terrificante rivoluzione? Le delusioni in un uomo portano anche alla follia, e una rivoluzione nasce spesso da una follia collettiva, che travolge gli argini della rassegnazione, e risveglia la bestia che sta racchiusa dentro di noi.
Lucca ci accoglie nell’intimità. Le sue Mura sono tenere braccia che si stringono intorno a noi; chiunque è assillato da grigi pensieri, nelle sue strade trova requie. A molti lucchesi accade così, e a Cencio sempre. Andava volentieri in città, anche quando doveva svolgere qualche fastidiosa incombenza. Gli bastava varcare una delle porte, e subito avvertiva la presenza di un’aria nuova. I turisti l’avevano scoperta di recente, e ora venivano da ogni parte d’Europa, ma anche da più lontano, a visitarla. Fortunatamente si stava fermando lo scempio compiuto negli ultimi anni, e quei pochi soldi di cui si disponeva venivano spesi con maggior oculatezza per il bene della città. E il bene consisteva anche nel saper preservare le stupende opere d’arte create dai nostri avi. Ce le invidiavano, i forestieri; anche gli italiani venuti dalle loro città ammiravano stupiti il miracolo dei nostri monumenti. Lo scrittore Mario Tobino soleva passeggiare spesso per la città, e si fermava sempre in piazza San Michele, si guardava attorno incantato e poi entrava, lui quasi miscredente, nella bella chiesa: qui, ha lasciato scritto, conversava con l’antico crocifisso. Lucca fa di questi scherzi perfino a chi si crede ateo. Ma vi è un altro crocifisso, che viene di lontano, dalla leggenda, dal profondo della storia, il Volto Santo. Chi giunge a Lucca va a visitarlo nella cattedrale di San Martino, come facevano i papi e gli imperatori nel medioevo, e milioni di pellegrini, che percorrevano la via Francigena per andare a Roma. Lucca era tappa importante di questo viaggio. Alcuni si sono fermati qui, e vi sono morti, come Riccardo re del Wessex, sepolto nella basilica di San Frediano. Lucca è nobile come quei re e quei papi che l’hanno visitata, nobile di schiatta e di animo. Cencio veniva da Porta San Donato, da quella parte delle Mura, cioè, che è costata tanto sudore ai lucchesi, che non voleva nascere e faceva tribolare gli architetti; prese via Pelleria, via San Giorgio ed entrò in via Fillungo. Si sentiva pellegrino nella sua città, già aveva dimenticato le umiliazioni della vita e si era calato in un tempo che appartiene allo spirito, e ne ha la levità. Incontrava turisti, anche se era inverno, alzavano la testa ad ammirare le torri, i palazzi. Erano stati migliori di noi gli antichi? Cencio lo pensava spesso che qualcosa della loro arte e del loro saper vivere si era smarrito. Finito il Fillungo, invece di voltare a destra e dirigersi verso piazza San Michele, proseguì a diritto per via Cenami, superò piazza san Giusto, dove si ergeva il palazzo dei duchi longobardi, quando Lucca era capitale della Tuscia, e si trovò di lì a poco davanti alla cattedrale. Vi era una sapienza negli antichi che si è perduta. Basta guardare il duomo di Lucca per avvertirlo, e la sua piazza. Duomo e piazza appaiono come un’unica bellezza inscindibile, e vi è calcata l’impronta del genio. Che cosa del progresso ci allontana dal nostro passato e ci rende incapaci di servire i nostri padri? La cattedrale, al suo interno era immersa nella penombra. Visitatori l’attraversavano in lungo e in largo, con a tracolla la macchina fotografica e in mano una guida turistica tenuta aperta. Cencio passò davanti alla cappellina del Civitali, dove è custodito il Volto Santo, il crocifisso nero scolpito, secondo la leggenda, da Nicodemo, che non seppe disegnare il volto, e un angelo lo fece per lui, una notte. Quel volto parlava a tanti, ed anche a Cencio. Non c’è lucchese che non gli rivolga una preghiera. Si fece il segno della croce distrattamente, perché così agiva sempre, sin da ragazzo, quando passava davanti alla cappella, e si diresse verso l’altare, si sedette. Poteva ascoltare Dio, ora? C’è sempre, in ogni uomo, anche il peggiore miscredente, il tempo di Dio. Cencio pensava alla sua vita dannata, alle umiliazioni, a Loretta, che era disgraziata più di lui, perché subiva senza colpa. Perché gli nasceva dentro la rabbia, e non era capace di sopportare, come invece aveva fatto Dio, quando si era incarnato nel Figlio?

Il libro (2 volumi), qui.


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Bart