LETTERATURA: Cesare Pavese: “Dialoghi con Leucò”
16 Luglio 2020
di Bartolomeo Di Monaco
Tanto si è scritto su Pavese e anche su questo libro, ma la conclusione è una sola: Pavese vi indaga se stesso e ha deciso di farlo rievocando e richiamando il senso e il mistero del mondo antico.
Che altro è, infatti, la mitologia se non un ricercare in se stessi un’immagine ed un sentire che solo attraverso questo strumento fantastico si possono spiegare con semplicità?
Una domanda, prima di cominciare l’esame del libro:
Chi è Leucò? Leucò in greco significa ‘bianca’, e Bianca Garufi era la donna di cui era innamorato Pavese. Nei dialoghi comparirà come Leucotea. Ma Leucò è anche il fedele compagno di Odisseo, trafitto da una lancia scagliata in battaglia da uno dei figli di Priamo, Antifo.
Odisseo, e perciò anche Leucò, stanno per viaggio, e dunque per conoscenza, ed è proprio quest’ultima che l’autore si ripromette di conseguire coi suoi ventisette dialoghi.
Vediamoli insieme uno ad uno.
“La nube”.
La nube Nefele, nel dialogo omonimo che apre la raccolta, dice al giovane Issione, a proposito degli immortali: “Issione, tu credi che sian presenti come noi, come la Notte, la Terra o il vecchio Pan. Tu sei giovane, Issione, ma sei nato sotto il vecchio destino. Per te non esistono mostri ma soltanto compagni. Per te la morte è una cosa che accade, come il giorno e la notte. Tu sei uno di noi, Issione. Tu sei tutto nel gesto che fai. Ma per loro, gli immortali, i tuoi gesti hanno un senso che si prolunga. Essi tastano tutto da lontano con gli occhi, le narici, le labbra. Sono immortali e non san vivere da soli. Quello che tu compi o non compi, quel che dici, che cerchi – tutto a loro contenta o dispiace. E se tu li disgusti – se per errore li disturbi nel loro Olimpo – ti piombano addosso, e ti danno la morte – quella morte che loro conoscono, ch’è un amaro sapore che dura e si sente.”.
Gli dèi immortali, dunque, si interessano a noi e ci controllano e vedono di noi ciò che noi non possiamo vedere. Se sbagliamo ci puniscono, anche con la morte, poiché essa è una pena crudele che è “dura e si sente.”.
Ne deriva che l’uomo non ha il completo controllo di se stesso, ed è in balia di un qualcosa che non conosce.
È delineato uno smarrimento cosmico ineludibile, poiché incarnato in noi stessi.
La scrittura è asciutta, i pensieri intrisi di una dolente malinconia.
“La Chimera”.
Nel secondo dialogo, “La Chimera”, Bellerofonte, che la uccise, sta invecchiando e al figlio di lui Ippòloco, Sarpedonte, figlio di Glauco “che nutriva i cavalli con uomini vivi”, dice: “Tuo padre accusa l’ingiustizia degli dèi che hanno voluto che uccidesse la Chimera. “Da quel giorno”, dice, “che mi sono arrossato nel sangue del mostro, non ho più avuto vita vera. Ho cercato nemici, domato le Amazzoni, fatto strage dei Sòlimi, ho regnato sui Lici e piantato un giardino – ma cos’è tutto questo? Dov’è un’altra Chimera? Dov’è la forza delle braccia che l‘uccisero? Anche Sìsifo e Glauco mio padre furon giovani e giusti – poi entrambi invecchiando, gli dèi li tradirono, li lasciarono imbestiarsi e morire. Chi una volta affrontò la Chimera, come può rassegnarsi a morire?” Questo dice tuo padre, che fu un giorno Bellerofonte.”.
Notate come Pavese riproduce la musicalità e i tempi, mai frettolosi nonostante la sua secca scrittura, cari ai mitografi del passato.
In questo dialogo emerge la delusione contro la mancata ricompensa del bene che si è fatto. Arriva un momento che di esso gli altri si dimenticano, abbandonandoci.
Il noto malessere, il noto pessimismo di Pavese già emergono dalle profondità del suo sentire.
Non lo hanno mai abbandonato. Tutta la sua opera è una manifestazione del disagio di vivere, di cui vorrebbe liberarsi con lo scriverne, come per una catarsi metamorfica, che però è impossibile.
“I ciechi”.
Nel terzo dialogo, “I ciechi”, sono presenti Edipo e Tiresia, come noto entrambi ciechi, il primo per punirsi dell’uccisione del padre Laio; il secondo per l’ira di Era (per altri di Atena).
Tiresia: “Non c’è dio sopra il sesso. È la roccia, ti dico. Molti dèi sono belve, ma il serpe è il più antico di tutti gli dèi. Quando si appiatta nella terra, ecco hai l’immagine del sesso. C’è in esso la vita e la morte. quale Dio può incarnare e comprendere tanto?”.
Al pensiero di Tiresia che fa del sesso una forza misteriosa anche per gli dèi, viene da appaiare quello contrario rappresentato dal mito di Ippolito, che si vantava della sua verginità.
Ippolito resiste alla forza dell’eros, alla quale gli stessi dèi, come la mitologia dimostra ampiamente, sono assoggettati. Ma Ippolito, amato dalla matrigna Fedra, sposa di Teseo, farà una brutta fine, travolto dal suo cocchio mentre fugge in esilio.
Tiresia dice anche: “C’è un grosso serpe in ogni giorno della vita, e si appiatta e ci guarda. Ti sei mai chiesto, Edipo, perché gli infelici invecchiando si accecano?”.
L’infelicità conduce, a poco a poco, all’isolamento, alla estraniazione fino a che l’uomo è accecato dalla solitudine.
“Le cavalle”.
A Chirone il più saggio tra i centauri, sono stati affidati molti eroi per essere da lui educati, tra essi Achille e Asclepio, il famoso medico mitologico strappato da Apollo dal grembo della madre incinta, che aveva ucciso per gelosia.
“Ti ho già detto la sorte che attende costui nelle case mortali. Sarà Asclepio, il signore dei corpi, un uomo-dio. Vivrà tra la carne corrotta e i sospiri. A lui guarderanno gli uomini per sfuggire il destino, per ritardare di una notte, di un istante, l’agonia. Passerà, questo bimbetto, tra la vita e la morte, come tu ch’eri coglia di toro e non sei più che il guidatore delle ombre Questa la sorte che gli olimpici faranno ai vivi, sulla terra.”.
La medicina offre ai mortali l’illusione di una lunga vita. Meglio così, domanda Ermete a Chirone, piuttosto che “incappare nella bestia o nell’albero, e diventare bue che mugge, serpente che striscia, sasso eterno, fontana che piange?
La scelta, per Pavese, è rimanere uomini e cullarci nell’illusione dell’immortalità.
Vi è dunque il rifiuto di una promiscuità di esistenze e l’accettazione della specie a cui siamo stati destinati, nel bene e nel male.
“Il fiore”.
Eros, espressione della vita, dice a Tànatos, il dio della morte: “quando un dio avvicina un mortale, segue sempre una cosa crudele.”.
È la conferma di un rifiuto di speranza. L’uomo è solo, in realtà. Qualsiasi aiuto può essere peggiore del male che si sta patendo.
Nella storia mitologica richiamata da Pavese, Iacinto (Giacinto), un giovane bellissimo, era amato da Apollo. Durante una gara tra i due a chi lanciasse il disco più lontano, questo, deviato da Zefiro, il dio del vento, geloso di Apollo, finisce sulla fronte del giovane, uccidendolo. Apollo, addolorato, lo trasforma nel fiore che porta il suo nome.
I dialoghi, che qui si esaminano uno per uno in modo sintetico, apparentemente non ha hanno un collegamento tra loro, e ogni storia sembra racchiudersi in sé nel semplice richiamo del mito.
In realtà, come si continuerà a vedere, vi si esprime il dolore dell’autore per l’umano modo di essere e di vivere.
Il contatto con gli dèì è ingannevole, illusorio e causa nuovo dolore. Dice Eros a Tànatos: “Mio caro, in Iacinto non fu che speranza, una trepida speranza di somigliarsi all’ospite. Né il Radioso raccolse l’entusiasmo che leggeva in quegli occhi – gli bastò suscitarlo -, lui scorgeva già allora negli occhi e nei riccioli il bel fiore chiazzato ch’era la sorte di Iacinto. Non pensò né a parole né a lacrime. Era venuto per vedere un fiore. Questo fiore doveva essere degno di lui – meraviglioso e familiare, come il ricordo delle Càriti. E con calma indolenza creò questo fiore.”. Le Càriti (le Grazie latine), figlie di Zeus e di Eurinome sono le tre personificazioni della grazia e della bellezza. Il loro nome è Aglaia, la splendente; Eufrosine, la rallegrante; Talia, la fiorente.
Dirà Thanatos: “Che per nascere occorra morire, lo sanno anche gli uomini. Non lo sanno gli Olimpici. Se lo sono scordato. Loro durano in un mondo che passa. Non esistono: sono. Ogni loro capriccio è una legge fatale. Per esprimere un fiore distruggono un uomo.”.
È uno dei dialoghi più intensi. Eros cerca di difendere Apollo sostenendo che ha dato a Iacinto momenti di luce, ossia di felicità. Che altro pretendere. Ma Tànatos è implacabile e risponde che avrebbe dovuto rimanere “Un uomo tra gli uomini”.
L’indifferenza degli dèì sulla sorte umana è racchiusa in questa secca risposta che Tànatos dà alla domanda di Eros: “Che altro vorresti, Tànatos per lui?”. Eccola: “Che il Radioso lo piangesse come noi.”.
E Eros ammette: “Tu chiedi troppo, Tànatos.”.
Niente, dunque, può aiutare l’uomo, che è solo a gestire la sua vita. Per quanto riguarda la sua sorte può confidare solo nelle lacrime degli uomini, non mai degli dèì.
I segni di una irreligiosità che colpisce ogni credenza che non provenga dalla materialità e dall’esperienza dei sensi, sono in questo scambio molto evidenti, e impietosi.
“La belva”.
Endimione è il giovane bellissimo di cui si innamora Artemide, la Diana latina, la quale chiede a Zeus di fermare nel tempo quella bellezza. Zeus lo sprofonderà in un sonno eterno che consentirà a Artemide di contemplarlo per sempre nella sua intatta bellezza.
Va segnalato l’inizio, in cui Endimione parla ad uno straniero che si avvicina. È di una chiara fascinazione: “Ascolta, passante. Come a straniero posso dirti queste cose. Non spaventarti dei miei occhi di folle. Gli stracci che ti avvolgono i piedi sono brutti come i miei occhi, ma tu sembri un uomo valido che quando vorrà si fermerà nel paese che ha scelto, e qui avrà un riparo, un lavoro, una casa. Ma sono convinto che se adesso cammini è perché non hai nulla se non la tua sorte. E tu vai per le strade a quest’ora dell’alba – dunque ti piace essere sveglio tra le cose quando escono appena dal buio e nessuno le ha ancora toccate. Vedi quel Monte? È il Latmo. Io l’ho salito tante volte nella notte, quando era più nero, e ho atteso l’alba tra i suoi faggi. Eppure mi pare di non averlo toccato mai.”.
Vi si legge l’inadeguatezza del ricordo, che non si fa più afferrare e tramutare di nuovo nella realtà. Il ricordo è un processo di estrema delicatezza e irreversibile, impalpabile e tale da immalinconire: “e ho questi occhi, questi occhi, come di chi fissa nel buio. Mi pare di esser sempre vissuto così.”.
Quando Endimione descrive allo straniero l’incontro con Artemide, il lettore avverte che Pavese scrive non con la penna ma con l’anima, tale è la trasparenza del sentimento, oltre che della luminosa immagine che ne affiora. Se ne riporta una parte: “O straniero, lei mi disse il mio nome e mi venne vicino – la tunica non le dava al ginocchio -e stendendo la mano mi toccò sui capelli. Mi toccò quasi esitando, e le venne un sorriso, un sorriso incredibile, mortale. Io fui per cadere prosternato – pensai tutti i suoi nomi – ma lei mi trattenne come si tiene un bimbo, la mano sotto il mento. Sono grande e robusto, mi vedi, lei era fiera e non aveva che quegli occhi – una magra ragazza selvatica – ma fui come un bimbo. ‘Tu non dovrai svegliarti mai’, mi disse. ‘Non dovrai fare un gesto. Verrò ancora a trovarti’. e se ne andò per la radura.”.
Vedete come con quel “la tunica non le dava al ginocchio” e quel “una magra ragazza selvatica”, Pavese ha disegnato un quadro di splendente leggerezza, con una efficacia più incisiva di un dipinto.
Eppure Artemide è come una belva negli occhi e nello sguardo: “In questi occhi c’è la bacca e la belva, c’è l’urlo, la morte, l’impetramento crudele. So il sangue sparso, la carne dilaniata, la terra vorace, la solitudine. Per lei, la selvaggia, è solitudine. Per lei la belva è solitudine. La sua carezza è la carezza che si fa al cane o al tronco d’albero. Ma, straniero, lei mi guarda, mi guarda, e nella tunica breve è una magra ragazza, come tu forse ne hai vedute al tuo paese.”.
L’ansia e il dolore che pervadono i dialoghi emanano sempre un afflato di poesia e ci fanno dire, con un certa determinazione, che questa dolente e intima prosa è il segno di una disperazione inestricabilmente affidata proprio alla poesia.
“Schiuma d’onda”.
La nota poetessa Saffo (VII-VI secolo a.C.), che si ritiene suicida in mare, ha un dialogo con la ninfa Britomarti, la quale fu inseguita da Minosse che se n’era innamorato. Vicina ad essere raggiunta si gettò dalla rupe in mare (“Spiccai il salto, per salvarmi.”), ma cadde nella rete di pescatori che la salvarono. È un’ancella di Artemide, la dea cacciatrice.
Siedono tra gli immortali e Saffo si annoia, non si aspettava di trovarsi a vivere in quel modo negletto: “Non sapevo che fosse così. Credevo che tutto finisse con l’ultimo salto. Che il desiderio, l’inquietudine, il tumulto sarebbero spenti. Il mare inghiotte, il mare annienta, mi dicevo.”. Britomarti cerca di consolarla, ma Saffo avrebbe preferito la morte, il nulla.
L’obiezione che ella muove è così forte da percepirne all’interno un grido personale dello stesso autore. Quando Britomarti le dice che il segreto di tutto sta nell’”accettarsi e accettare”, la sua risposta è quasi irata: “E che cosa vuol dire? Si può accettare che una forza ti rapisca e tu diventi desiderio, desiderio tremante che si dibatte intorno a un corpo, di compagno o compagna, come la schiuma tra gli scogli? E questo corpo ti respinge e t’ infrange, e tu ricadi, e vorresti abbracciare lo scoglio, accettarlo. Altre volte sei scoglio tu stessa, e la schiuma – il tumulto – si dibatte ai tuoi piedi. Nessuno ha mai pace. Si può accettare tutto questo?”.
La vita è subbuglio e il sopravviverle non dà alcuna speranza, poiché la sopravvivenza non è altro che una ripetizione di ciò che abbiamo vissuto.
È un’invocazione, più che alla morte, ad una condizione di annullamento e di liquefazione nel cosmo.
“La madre”.
Non ci si può liberare della maternità. Meleagro era legato ad un tizzone che la madre cavò dal fuoco quando lui nacque, e visse con il timore che la madre lo spengesse, troncando così la sua vita.
Domanda a Ermete se è giusto infliggere all’uomo una condizione così perversa: tenere i propri occhi in quelli della madre per percepirne i sentimenti a suo riguardo. Con la paura che ella abbia deciso di spegnere il tizzone.
Meleagro: “Ermete, bisogna aver visto i suoi occhi. Bisogna averli visti dall’infanzia, e saputi familiari e fissi su ogni tuo passo e gesto, per giorni, per anni, e sapere che invecchiano e muoiono, e soffrirci, farsene pena, temere di offenderli. Allora si, è inaccettabile che fissino il fuoco vedendo il tizzone.”.
Ermete risponde: Sai anche questo e ti stupisci, Meleagro Ma che invecchino e muoiano vuol dire che tu intanto ti sei fatto uomo e sapendo di offenderli li vai cercando altrove vivi. e veri. E se trovi questi occhi – si trovano sempre, Meleagro – chi li porta è di nuovo la madre. E tu allora non sai più con chi hai da fare e sei quasi contento, ma sta certo che loro – la vecchia e le giovani – sanno. E nessuno può sfuggire al destino che l’ha segnato dalla nascita col fuoco.”.
In questi dialoghi, scritti tra il 1945 e il 1947, ogni tanto si avvertono gli stessi motivi ispiratori dell’“Antologia di Spoon River”, di Edgar Lee Masters, pubblicata tra il 1914 e il 1915.
La morte, ciò che fummo, ciò che non siamo stati, sono, infatti, tra i motivi ispiratori della raccolta dell’autore statunitense.
E in Pavese, questa madre non è forse la morte, che ciascuno, una volta generato, porta dentro di sé come segno di conoscenza, di trepidazione, di attesa ed anche di rassegnazione?
La domanda importante, perciò, non è: Perché si muore? Ma: Perché siamo nati?
“I due”.
Patroclo è il più caro amico di Achille, il quale si è ritirato dalla guerra per protestare contro Agamennone che gli ha sottratto la schiava Briseide, da lui amata. Patroclo chiede di poter scontrarsi con Ettore (che gli darà la morte) indossando le armi di Achille: “Prenderò i tuoi schinieri e il tuo scudo. Sarai tu nel mio braccio. Nulla potrà sfiorarmi. Mi parrà di giocare.”. Lui acconsente. La morte di Patroclo scatenerà l’ira di Achille, che tornato a combattere, ucciderà Ettore, facendo scempio del suo corpo.
Qui Achille dialoga con Patroclo e ad un certo punto mette in risalto una cosa che tutti abbiamo provato da ragazzi, quando ci accorgevamo che gli anni erano lenti a passare e noi volevamo essere già grandi. Non sapevamo di avvicinarci alla morte.
Achille: “Voglio dire, quando stavamo sempre insieme e giocavamo e cacciavamo, e la giornata era breve ma gli anni non passavano mai, tu sapevi cos’era la morte, la tua morte? Perché da ragazzi si uccide, ma non si sa cos’è la morte. Poi viene il giorno che d’un tratto si capisce, si è dentro la morte, ed allora si è uomini fatti. Si combatte e si gioca, si beve, si passa la notte impazienti. Ma hai mai veduto un ragazzo ubriaco?”.
Achille manifesta la tristezza che ci procura il trascorrere del tempo: “Io mi chiedo se ancora qualcuno in Tessaglia si ricorda d’allora. E quando da questa guerra torneranno i compagni laggiù, chi passerà su quelle strade, chi saprà che una volta ci fummo anche noi – ed eravamo due ragazzi come adesso ce n’è certo degli altri. Lo sapranno i ragazzi che crescono adesso, che cosa li attende?”.
Il pessimismo di Achille raggiunge l’acme: Achille: “Ci sono giorni che dovranno ancora nascere e noi non vedremo.”; Patroclo: “Non ne abbiamo veduti già molti?”; Achille: No, Patroclo, non molti. Verrà il giorno che saremo cadaveri. Che avremo tappata la bocca con un pugno di terra. E nemmeno sapremo quel che abbiamo veduto.”.
“La strada”.
Entra in scena uno dei personaggi più noti della mitologia greca, Edipo, che un tragico destino volle ignaro uccisore del padre Laio, re di Tebe, e sposo della vedova, sua madre, Iocasta (Giocasta), da cui ebbe figli, che furono anche suoi fratelli. Venuto a conoscenza del misfatto inconsapevolmente compiuto, si acceca. La figlia Antigone sarà la sua guida nella cecità.
Non può dimenticare la sua scelleratezza e al Mendicante con il quale dialoga e che gli ricorda che ha avuto la fortuna di diventare re di Tebe, gli dice che a lui duole di essere stato Edipo. Non avrebbe voluto essere quell’uomo, dannato dal destino.
Il destino, che è inevitabile e accompagna l’uomo già prima della sua nascita, è il tema di questo dialogo.
Al Mendicante che riconosce che “i tuoi casi sono stati atroci.”, risponde che ciò che provoca la sua ira non sono quegli atti atroci commessi, ne avrebbe potuto compiere anche di peggiori, ma che sia stato non lui ma il destino a prescriverli. Ricorda la profezia ricevuta che nascondeva quanto poi accadde: “No, non capisci, non capisci, non è questo. Vorrei che fossero più atroci ancora. Vorrei essere l’uomo più sozzo e più vile purché quello che ho fatto l’avessi voluto. Non subìto così. Non compiuto volendo far altro. Che cosa è ancora Edipo, che cosa siamo tutti quanti, se fin la voglia più segreta del tuo sangue è già esistita prima ancora che nascessi e tutto quanto era già detto?”.
L’uomo vuole essere artefice della sua vita, non vuole che essa sia preordinata da una volontà estranea: “Io sapevo – ho saputo sempre – di agire come lo scoiattolo che crede di inerpicarsi e fa soltanto ruotare la gabbia. E mi domando: chi fu Edipo?”.
Edipo e Pavese paiono incontrarsi.
“La rupe”.
Prometeo disubbidì a Zeus e donò il fuoco agli uomini, e per questo fu incatenato ad una rupe e un’aquila di giorno gli mangiava il fegato, che di notte si ricomponeva. Un supplizio che sempre si ripeteva, dilaniante. Eracle giunge nell’antro dove è tenuto prigioniero per liberarlo.
Prometeo, lo aspettava: “Lo sapevo già quand’eri solo un bimbo in fasce, quando non eri ancora nato.”.
Si lamenta della sua immortalità. Essa non è un dono, ma una condanna. Rivela all’eroe delle dodici fatiche che pure lui, alla sua morte, diverrà immortale. Eracle, infatti, mentre, avvolto dal manto avvelenato donatogli dalla sposa Deianira (che ignorava del veleno), sta bruciando sull’ara, sarà assunto nell’Olimpo, divenendo, con ciò, immortale.
Prometeo rievoca il tempo in cui uomini e titani come lui dominavano la terra, che era caotica e selvaggia. Vorrebbe ritornare a quel tempo, in cui ciascuno aveva le sue difficoltà da affrontare (la sua “rupe”), sia i titani che gli uomini, e combatteva per vincerle: “Tutti avete una rupe, voi uomini. Per questo vi amavo. ma gli dei sono quelli che non sanno la rupe. Non sanno ridere né piangere. Sorridono davanti al destino.”.
Quegli dèi non si possono vincere. Ma vaticina che finirà il tempo degli dèi, e si tornerà a quando i titani e gli uomini dominavano la terra.
È l’esaltazione per una vita che impegni, mostri di ciascuno i valori e li metta alla prova. Il sorriso guadagnato in una vita tranquilla non vale nulla.
“L’inconsolabile”.
Orfeo è l’insuperato suonatore dello strumento, la lira, inventato da Apollo, ed è il solo che possa confrontarsi con il dio. Gli sarà concesso di scendere all’Ade e di ricondurre alla vita la sposa Euridice, ma accadrà che la sua impresa fallisca. Orfeo si volterà indietro a guardare la sua Euridice che esce dall’antro buio (gli era sto proibito di voltarsi) e vedrà la sposa risucchiata dagli Inferi. Per l’avvenire, rifiuterà l’amore e le Baccanti lo sbraneranno per la sua scelta.
Nel dialogo, Orfeo confessa di essersi voltato di sua volontà, poiché ha avvertito in sé e nella sposa “un gelo, un vuoto”, che non avrebbe sopportati.
Bacca (una baccante) non ci crede, e così le risponde Orfeo: “Che c’entra il destino. Il mio destino non tradisce. Ridicolo che dopo quel viaggio, dopo aver visto in faccia il nulla, io mi voltassi per errore o per capriccio.”.
Euridice “era quasi rinata”, osserva Bacca, e Orfeo: “Per poi morire un’altra volta, Bacca. Per portarsi nel sangue l’orrore dell’Ade e tremare con me giorno e notte. Tu non sai cos’è il nulla.”.
Rifiuta, dunque, una rinascita, la quale non farebbe che rinnovare l’angoscia dell’attesa di un nulla che ci gela e ci disperde.
Basta essere stato tra i morti per capire e rifiutare la vita. Euridice, vivendo un’altra volta, non sarebbe stata più la stessa.
Orfeo: “E voi godetevela la festa. Tutto è lecito a chi non sa ancora. È necessario che ciascuno scenda una volta nel suo inferno. L’orgia del mio destino è finita nell’Ade, finita cantando secondo i miei modi la vita e la morte.”.
“L’uomo-lupo”.
Anche Pavese è stato suggestionato da questo figura, il licantropo, che ha ispirato nel tempo molti autori.
Quando Pavese scrive questi dialoghi era già uscito, nel 1941, il celebre film omonimo di George Waggner con l’ottimo Lon Chaney Jr. nel ruolo del protagonista. Già dal 1935 giravano film dello stesso tipo, minori per resa qualitativa.
Ma a ispirare il dialogo di Pavese è la figura mitologica di Licaone, un cacciatore che, avendo sacrificato a Zeus un bambino, fu trasformato in lupo.
Due cacciatori lo uccidono e ricordano la sua sventura.
Vi si disegna un’accusa contro la protervia e la presunzione umane. Tanto è vero che spesso la punizione che viene inflitta all’uomo è quella di essere trasformato in una bestia o in una pianta. Mai che avvenga il contrario, tanto egli è tristo.
In ogni caso, nonostante la trasformazione, dentro si resta quelli di prima. Così Licaone, rimasto uomo interiormente, sarà seppellito.
Se sbagliamo, la punizione non si cancella con la trasformazione del corpo. Sbagliare è per sempre.
“L’ospite”.
Litierse, figlio del celebre re Mida, che ciò che toccava trasformava in oro (e si pentì di questo dono ricevuto da Dioniso), era un agricoltore che fecondava la terra col sangue dei suoi ospiti, che invitava a gareggiare con lui a chi fosse più veloce nella mietitura. Era talmente bravo che vinceva sempre e come premio si prendeva la testa dello sconfitto. Ma quando arriva Eracle le cose mutano.
Il figlio di Zeus ha fretta di gareggiare e Litierse se ne stupisce: “Ospite, sei strano. Mai nessuno finora ha detto questo davanti al campo. Non la temi la morte sul covone? Speri forse di fuggire tra i solchi come una quaglia o uno scoiattolo?”.
Ecco che cosa se ne fa della vittima. Litierse: “Lo si lacera ancor semivivo, e i brani li spargiamo nei campi a toccare la Madre. Conserviamo la testa sanguinosa avvolgendola in spighe e fiori, e tra canti e allegrie la gettiamo nel Meandro. Perché la Madre non è terra soltanto ma, come ti ho detto, anche nuvola e acqua.”.
Eracle gli darà una lezione che varrà nel tempo. Prevarrà su di lui, uccidendolo.
Chi semina vento, raccoglie tempesta, si direbbe.
Indubbiamente è da ammirare la fantasia creatrice di Pavese, il quale utilizza la fonte mitologica per aggiungervi un suo personale mito, generando dai fatti tramandatici immagini e personalità nuove.
“I fuochi”.
Il Citerone è il monte più importante della mitologia greca. Lassù, cade la neve, e certe descrizioni ce lo rappresentano, infatti, innevato. Con il Citerone hanno a che fare tanti miti e personaggi.
Padre e figlio, pastori, hanno acceso sul monte molti falò per auspicare la pioggia sui campi: “Adesso s’accendono i fuochi, e si dice che fa piovere.”. È l’occasione perché il padre racconti al figlio la storia di Atamante il quale, poiché nonostante i sacrifici agli dèi perdurava la siccità, fu consigliato dalla sposa Ino a immolare i due figli avuti dalla prima moglie, Nefele. Quest’ultima li salverà grazie ad un ariete dal vello d’oro (sarà il famoso vello d’oro del ciclo di Giasone e Medea), il quale li trasporterà lontano. Il figlio Elle, però, durante il volo, cadrà in mare e darà il nome, Ellesponto, a quella parte del Mediterraneo. Fuggiti i figli, Ino tanto farà che immolerà lo sposo, il quale sarà salvato dall’arrivo della pioggia: “e Atamante, buon uomo, perdona tutti, anche la moglie.”.
La lezione che se ne trae è che, quando si arriva all’estremo del bisogno, si diventa “bestie feroci”. Cade ogni rispetto e il sentimento che prende il sopravvento è quello dell’egoismo.
Per Pavese, dèi e uomini svelano nel loro agire la loro crudeltà. Se qualcuno è buono, come Atamante, è burlato fino a tentare di sacrificarlo sull’ara. Si sopravvive lottando; non c’è spazio per la vaghezza e la gioia.
“L’isola”.
È l’isola di Ogigia dove Odisseo sosta sette dei dieci anni che occorsero per il suo viaggio di ritorno a Itaca,. È ospite della ninfa Calipso, figlia di Atlante sulle cui spalle poggiano le colonne che reggono il cielo, e vi trascorre lieti giorni. Sarà la stessa Calipso, infine, su ordine di Zeus, a lasciarlo ripartire, favorendone l’arrivo in patria.
Il dialogo dà una certa sensazione che si può cogliere dall’insieme di parole, tonalità e immagini: è quella di un caos che si ferma e si fissa nell’istante, nel quale si annulla e si dissipa. Resta un vuoto che è l’eternità.
Dice Calipso: “Ma non senti anche tu certi giorni un silenzio, un arresto, che è come la traccia di un’antica tensione e presenza scomparse?”. E ancora: “Devi rompere una volta il destino, devi uscire di strada e lasciarti affondare nel tempo…”.
Odisseo risponde: “Quello che cerco l’ho nel cuore, come te.”.
Il cuore, cioè la nostra intimità, l’ascolto di ciò che è dentro di noi, è la nostra compiutezza, ed essa è pari all’eternità.
“Il lago”.
Virbio è il nome che ebbe Ippolito (ne abbiamo già parlato) quando Artemide (la latina Diana) lo resuscitò, dopo che il padre Teseo lo fece uccidere da Poseidone, il dio del mare e padre dello stesso Teseo, credendolo l’amante della moglie Fedra. Dal mare uscì un enorme toro che fece capovolgere il cocchio su cui Ippolito viaggiava, e cavalli e cocchio lo travolsero dandogli la morte. Ippolito era restio all’amore e rifiutava le donne. Si vantava di essere vergine. Fedra, innamorata di lui, e respinta, si uccide, ma lascia una lettera in cui accusa falsamente Ippolito di averla stuprata. Da qui la reazione di Teseo.
Virbio ora è un seguace di Diana ed è felice del luogo in cui si trova: “Ti dirò che venendoci mi piacque. Questo lago mi parve il mare antico. E fui lieto di viver la tua vita, di esser morto per tutti, di servirti nel bosco e sui monti. Qui le belve, le vette, i villani non sanno nulla, non conoscono che te. È un paese senza cose passate, un paese dei morti.”.
Ancora una volta la morte è vista come un passaggio che spalanca le porte alla quiete del nulla, in una vastità che è anche una nuova natura, in cui animali, monti e boschi hanno radici e floridezza nell’eterno: “Mi hai posto qui dove terra e cielo risplendono, dove tutto è sapido e vigoroso, tutto è nuovo. Anche la notte qui è giovane e fonda, più che in patria. Qui il tempo non passa. Non si hanno ricordi. E tu sola regni qui.”.
Si avverte da questi dialoghi che Pavese è attratto da ciò che si spalanca all’uomo dopo la morte, è lo disegna come uno spazio etereo dove parole e movimenti non sono gli stessi che si hanno sulla terra, ma sono avvolti dal fascino e dalla leggerezza dell’eternità.
L’eternità per Pavese è un nulla vivente, ma con altre regole ed altri messaggi. Dice Diana: “Questa non è terra di morti, ma il vivo crepuscolo di un mattino perenne.”.
Virbio (l’Ippolito che viveva sulla terra) vi trova ristoro e sazietà: “Eppure il sito qui è davvero più vivo che in patria. C’è in tutte le cose e nel sole una luce radiosa come venisse dall’interno, un vigore che si direbbe non ancora intaccato dai giorni. Che cos’è per voi dèi questa terra di Esperia?”.
Da questo dialogo molto intenso, si capisce perché Pavese abbia voluto affidare il suo pensiero alla mitologia.
La fantasia e l’immaginazione sono in grado di costruire, come fossero reali, le speranze e le idealità degli uomini, conservandone la luminosità del momento creativo e rivestendole del fascino dell’eterno.
Dice Diana: “Noi non viviamo di passato o d’avvenire. Ogni giorno è per noi come il primo. Quello che a te pare un gran silenzio è il nostro cielo.”.
Virbio è insicuro. Sente ancora forte il richiamo della vita: “Chiedo di vivere, non di essere felice.”.
“Le streghe”.
La maga Circe dialoga con Leucotea, la dea marina (si vuole anche che sia Ino, dopo che, uccisi i figli, si è gettata in mare.
Ricorda l’anno trascorso con Odisseo, di cui rimarca l’umanità e il forte desiderio di ritornare a Itaca, dalla sposa Penelope e dal figlio Telemaco.
Ci sono stati momenti in cui ella si mutava in Penelope per lui, per assecondare il suo desiderio.
Dice Leucotea: “Troppe cose ricordi di lui. Non l’hai fatto maiale né lupo, e l’hai fatto ricordo.”. Risponde Circe: “L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo di immortale. Il ricordo che forza e il ricordo che lascia. Nomi e parole sono questo. Davanti al ricordo sorridono anche loro, rassegnàti.”.
“Il toro”.
Teseo, di ritorno dalla sua vittoria sul Minotauro, si dimenticò di issare sulla nave le vele bianche, al posto delle nere, quale segnale della riuscita dell’impresa, e il padre Egeo, scorgendo le vele nere, per il dolore si uccise gettandosi nel mare che porta il suo nome.
Conversa con Lelego, re di Megara e figlio di Poseidone.
L’Ariadne che viene ricordata è Arianna, la figlia di Minosse che con il suo filo riuscì a far uscire Teseo dal labirinto dopo che aveva ucciso il Minotauro. Teseo la portò con sé per poi abbandonarla. Arianna si uccise.
Lelego gli rimprovera la sua crudeltà verso questa donna, che lo aveva salvato: “Era bella, signore, era fatta di terra e di sole.”. E Teseo, ricordando di avere ucciso il toro, risponde: “Quel che si uccide si diventa, Lelego.”.
In questa frase si racchiudono tante mitiche credenze antiche secondo le quali di un morto si può conquistare, se lo abbiamo ucciso, l’anima.
Vi è, dunque, una persistente selvatichezza nell’uomo, tesa ad assorbire egoisticamente non solo l’uomo, ma anche ciò che lo circonda; e dunque a farsi entità assoluta.
“In famiglia”.
I dioscuri Castore e Polluce (qui chiamato Polideute, altro suo nome) figli di Zeus e di Leda, la sposa di Tindaro, re di Sparta, sono i fratelli di Elena e Clitennestra, le due donne che hanno provocato l’una la guerra di Troia, l’altra l’assassinio dello sposo Agamennone e la conseguente vendetta matricida di Oreste.
Ricordano quando salvarono Elena, ancora bambina, rapita da Teseo.
Ora Elena è grande, ed è fuggita con Paride. Siamo nell’imminenza della guerra di Troia.
A Polideute che rimarca il carattere irrequieto di Elena e si domanda che cosa mai voglia dalla vita, Castore risponde: “Non vuole nulla. Ä– proprio questo. È la bambina ch’era allora. È incapace di prendere sul serio un marito o una casa. Ma non serve rincorrerla. Vedrai che un giorno tornerà con noi.”.
Elena è stata descritta da alcuni autori antichi anche come donna capricciosa e passionale, soggetta ai suoi impulsi, e facile ad innamorarsi di un bellimbusto. Castore: “Io domando: possibile che sia tutto casuale? Sempre lei deve imbattersi in simili tipi? È evidente che è fatta per loro, come loro per lei.”.
È l’occasione per descrivere gli Atridi come dei selvaggi, bisognosi di conquistare e imporsi con la forza: “Hanno bisogno di una donna che li frusti.”.
Gli Atridi discendono da Pelope, il quale vinse la gara dei cavalli contro Enomao, il padre della bella Ippodamia, e secondo le regole della sfida, lo uccise sposandone, come premio della vittoria, la figlia.
Ippodamia, complice, aveva corrotto l’auriga del padre perché il suo cocchio perdesse le ruote e lo travolgesse.
È ricordata un’altra donna, Aeròpe (o Erope), discendente di Minosse e sposa di Atreo, dalle cui nozze nacquero Agamennone e Menelao. La donna si innamorò del cognato Tieste e per l’ira Atreo uccise i figli di lui e glieli imbandì a tavola. L’ultimo figlio di Tieste, Egisto, scampato alla morte poiché si trovava altrove, tornerà e ucciderà Atreo e metterà sul trono il padre.
Pavese descrive la crudeltà come frutto della natura, da cui, se investiti, non possiamo sottrarci. Si impossessa di uomini e donne, ma nella donna si ha una speciale accentuazione.
“Gli Argonauti”.
Tocchiamo un altro celebre mito che vide Giasone impegnato coi compagni e con la nave Argo (da cui Argonauti) a conquistare il vello d’oro, prezzo imposto da Pelia, usurpatore del trono del padre di lui, Esone. Se Giasone avesse riportato il vello d’oro custodito da un drago, Pelia gli avrebbe ceduto il trono. Al successo dell’impresa, contribuì l’aiuto, oltre che dei circa cinquanta argonauti, della figlia di Pelia, Medea, che Giasone portò con sé e poi abbandonò per sposare la figlia di Creonte, Glauce (o, per i latini, Creusa), causando la tragica sciagura di Medea che, fuori di sé per l’affronto subito, uccise i figli avuti da lui, e la stessa Glauce a cui donò una veste intrisa di veleno. Creonte, accorso a soccorrere la figlia, ne seguì la sorte.
Celebre è la tragedia “Medea”, composta da Euripide, portata al cinema, nel 1969, da Pier Paolo Pasolini.
Giasone è vecchio e conversa con Mélita, una sacerdotessa di Corinto, da cui deriva il nome dato all’isola di Malta. Rievoca la sua impresa alla conquista del vello d’oro, quando il mare era deserto e tutti ne avevano paura, fuorché lui coi suoi argonauti. Ricorda Medea, che non sorrideva mai, se non il giorno che lui (compiuta l’impresa) la condusse con sé. Ricorda Eracle (Mélita: “Oh ma quello fu un dio. E adesso vive tra gli dèi.”) e le sue celebri e audaci fatiche.
È un dialogo da cui affiora la nostalgia di un passato spericolato e vigoroso che non può più tornare.
È da notare, a questo punto, che la seconda parte dei dialoghi ha contenuti più narrativi che filosofici e riflessivi. Come se Pavese avesse consapevolezza di essere sceso nella prima parte in una profondità violata e non violabile del proprio essere e, spaventato, ne abbia inteso fuggire, rifugiandosi in una narrativa con se stesso meno complice e incestuosa.
“La vigna”.
Due personaggi che abbiamo già incontrato conversano tra loro, Leucotea (o anche Ino) e Ariadne (Arianna).
Leucotea domanda a Ariadne perché Teseo, dopo aver sconfitto il Minotauro grazie al suo aiuto, l’abbia abbandonata, ma lei non risponde e allora Leucotea le rivela che Dioniso, il dio che sorride sempre (“Sorridere è come il respiro per lui.”) e ama le feste ha messo gli occhi su di lei e la desidera: “Verrà Dioniso, e ti parrà di esser rapita da un gran vento, come quei turbini che passano sulle aie e nei vigneti.”.
Dunque, Ariadne ha subito una umiliazione (“Gli ho salvata la vita, a questo dio [così Leucotea chiama Teseo]. Che ne ho avuto?”), ma un dio vero, Dioniso, è pronto a conquistarla e a rigenerarla. Invaghito della sua bellezza, infatti, la sposerà.
Angoscia e disperazione spesso sono sentimenti rimuovibili, e di cui ci si può facilmente liberare.
“Gli uomini”.
Zeus nel corso della lotta contro i terribili Titani ebbe paura ma, nonostante ciò, essi furono sconfitti grazie all’aiuto che ricevette anche da Cratos e la sorella Bia, figli di Pallante e della dea fluviale Stige, ai quali fu dato l’incarico di incatenare il titano Prometeo. In premio ebbero il dono di abitare vicino a Zeus.
Di questo dialogo, si segnalano due brani esplicativi. Sono entrambi di Bia, la sorella, che sottolinea come gli dèi e lo stesso Zeus abbiano bisogno degli uomini e scendano spesso tra loro: “Sono invece scaduti i signori del Caos, quelli che un tempo hanno regnato senza legge. Prima l’uomo la belva e anche il sasso era dio. Tutto accadeva senza nome e senza legge. Ci voleva la fuga del dio [Zeus], la grossa empietà del suo confino tra gli uomini quando ancora era bimbo e poppava alla capra, e poi la crescita sul monte tra le selve, le parole degli uomini e le leggi dei popoli, e il dolore la morte e il rimpianto, per fare del figlio di Crono il buon Giudice, la Mente immortale e inquieta. Tu credi di averlo aiutato a schiacciare i Titani? Se l’hai detto tu stesso: combatteva come avesse già vinto. Il bambino rinato divenne signore vivendo tra gli uomini.”. E ancora, circa gli umani: “Se tu ne avessi conosciuti capiresti. Sono poveri vermi ma tutto fra loro è imprevisto e scoperto. Si conosce la bestia, si conosce l’iddio, ma nessuno, nemmeno noialtri, sappiamo il fondo di quei cuori. C’è persino, tra loro, chi osa mettersi contro il destino. Soltanto vivendo con loro e per loro si gusta il sapore del mondo.”.
L’uomo è una fonte di attrazione ma anche di vita. Nemmeno gli dèi potrebbero sopravvivere senza gli uomini.
“Il mistero”.
Dioniso e Demetra sono i protagonisti del dialogo. Si divertono a ricordare che tra gli uomini essi sono riconosciuti come custodi e protettore del vino il primo, e del grano la seconda. Ma anche ben altro. E sono grati agli uomini. Avvertono che la loro mortalità e più ricca della propria immortalità. Demetra teme il tempo in cui gli uomini non avranno più bisogno degli dèi e faranno tutto da sé: “Capiscimi, Iacco [il Bacco dei latini], faranno da soli. E allora noi ritorneremo quel che fummo: aria, acqua, e terra.”. E più avanti, ancora Demetra dirà: “Insegnargli che ci possono eguagliare di là dal dolore e dalla morte. Ma dirglielo noi. Come il grano e la vite discendono all’Ade per nascere, così insegnargli che la morte anche per loro è nuova vita. Dargli questo racconto. Condurli per questo racconto. Insegnargli un destino che si intrecci col nostro.”.
L’impegno degli dèi a convincere l’uomo che pure in lui è il seme dell’immortalità, è il segno anche del timore che l’autosufficienza degli uomini confini gli déi nella noia e nella solitudine.
Tra il divino e l’umano vi è una interconnessione vitale e imprescindibile.
“Il diluvio”.
Sta piovendo tanta acqua che provocherà il diluvio universale.
Un’amadriade e un satiro osservano.
Le Amadriadi sono ninfe che vivono all’interno degli alberi. Si credeva che demolendo un albero si uccidesse anche l’amadriade che l’abitava.
Amadriade: “Alle volte, non so. Mi chiedo che cosa sarebbe morire. Quest’è l’unica cosa che davvero ci manca. Sappiamo tutto e non sappiamo questa semplice cosa. Vorrei provare, e poi svegliarmi, si capisce.”.
Satiro: “Sentila. Ma morire è proprio questo – non più sapere che sei morta. Ed è questo il diluvio: morire in tanti che non resti più nessuno a saperlo. Così succede che verranno a cercare noialtri e ci diranno di salvarli e vorranno esseri simili a noi, alle piante, alle pietre – -alle cose insensibili che sono mero destino. In esse si salveranno. Ritirandosi l’acqua, riemergeranno pietre e tronchi, come prima. E i mortali non chiedono che questo come prima.”.
Se il diluvio è una punizione, si sappia, però, che gli uomini riemergeranno e faranno di tutto per tornare ad essere come furono, ossia: “come prima”.
La natura umana, infatti, è inviolabile, sebbene sia debole, e addirittura, nel loro riemergere, gli uomini: “vorranno essere simili a noi” e partecipare ancora di più alla natura che li fa compagni di piante, pietre e di ogni altra cosa insensibile.
“Le Muse”.
Mnemòsine è una titanide e personifica la Memoria. Fu amata da Zeus, che le apparve con l’aspetto di pastore. Dal loro amore nacquero le celebri Muse, che presiedono all’arte. Ä– chiamata dal suo interlocutore anche con il nome di Melete, la dea della meditazione. Al pastore con cui dialoga è dato il nome di Esiodo, il poeta greco che forse fu contemporaneo di Omero. La conclusione lo fa pensare: “Prova a dire ai mortali queste cose che sai.”.
Ancora ritorna la domanda che gli immortali fanno agli uomini su che cosa essi pensino di loro: “Come t’immagini la vita di noialtri immortali?”.
È lei stessa, Mnemòsine, a darsi la risposta: “Non ti sei chiesto perché un attimo, simile a tanti del passato, debba farti d’un tratto felice, felice come un dio? Tu guardavi l’ulivo, l’ulivo sul viottolo che hai percorso ogni giorno per anni, e viene il giorno che il fastidio ti lascia, e tu carezzi il vecchio tronco con lo sguardo, quasi fosse un amico ritrovato e ti dicesse proprio la sola parola che il tuo cuore attendeva. Altre volte è l’occhiata di un passante qualunque. Altre volte la pioggia che insiste da giorni. O lo strido strepitoso di un uccello. O una nube che diresti di aver già veduto. Per un attimo il tempo si ferma, e la cosa banale te la senti nel cuore come se il prima e il dopo non esistessero più. Non ti sei chiesto il suo perché?”.
Riuscire, dunque, a fermare l’attimo, che in sé contiene l’eternità e il tutto.
Viene in mente la frase dello stesso Pavese, contenuta ne “Il mestiere di vivere”: “Non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi.”. E anche quel “All’attimo direi: sei così bello, fermati!” del “Faust” di Johann Wolfgang von Goethe.
“Gli dèi”.
Un Pavese pensoso e ironico verso gli uomini e se stesso, tira le conclusioni. Il dialogo ha tutti noi per protagonisti ed assume toni e contorni propri del mito. La domanda è: Qualcuno li ha veduti, gli dèi?; e la risposta: “Chi può dirlo? Ma si, li han veduti. Han raccontato i loro nomi e niente più – è tutta qui la differenza tra le favole e il vero. ‘Era il tale o il tal altro’, ‘Ha fatto questo, ha detto quello’. Chi è veritiero, si accontenta. Non sospetta nemmeno che potranno non credergli. I mentitori siamo noi che non abbiamo mai veduto queste cose, eppure sappiamo per filo e per segno di che mantello era il centauro o il colore dei grappoli d’uva sull’aia di Icario.”.
E ancora: “Di questa notte e delle lepri sarà bello riparlare con gli amici quando saremo nelle case. Eppure di questa paura ci tocca sorridere, quando pensassimo all’angoscia della gente di un tempo cui tutto quello che toccava era mortale. Gente per cui l’aria era piena di spaventi notturni, di arcane minacce, di ricordi paurosi. Pensa soltanto alle intemperie o ai terremoti. E se questo disagio fu vero, com’è indiscutibile, fu anche vero il coraggio, la speranza, la scoperta felice di poteri di promesse d’incontri. Io, per me, non mi stanco di sentirli parlare dei loro terrori notturni e delle cose in cui sperarono.”.
Nella malinconia e nell’atto di fede con cui questo vero e proprio testamento conclude i dialoghi, troviamo sintetizzato, in una profondità di pensiero che vale tutto l”Ulysses” di James Joyce, la sacralità e l’indispensabilità del mito.
Il libro (pensate, di appena 159 pagine!) è un dono, un atto d’amore.
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