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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

LETTERATURA: Ducati 65 T

13 Maggio 2009

di Felice Muolo
(Ha pubblicato cinque romanzi, di cui Il ruolo dei gatti, Azimut, 2008)  

        Mio padre non aveva bisogno di nessun mezzo di trasporto per raggiungere il posto di lavoro. Gli bastava scavalcare la finestra sul retro di casa nostra per ritrovarsi nell’orto di mia nonna. Quando avevo all’incirca dieci anni, l’orto fu venduto e mio padre se ne comprò uno suo. Era a circa tre chilometri dal paese. Fu allora che acquistò la moto per potercisi recare.
        A quel tempo, sia le moto che le macchine al paese si potevano contare sulle dita di una mano. La maggior parte dei mezzi di trasporto era costituita da biciclette e carri tirati dai quadrupedi. Per farsi un’idea, il servizio della nettezza urbana veniva svolto da quattro-cinque operai che giravano spingendo a braccia una carretta. Raccoglievano lo sterco degli animali sparso per le strade e scarsi rifiuti che la gente vi buttava, non altro. L’immondizia veniva depositata in uno spiazzo alla periferia del paese, grande quanto poi è bastato per costruirci dentro una palazzina. Gli schiamazzi degli spazzini, quasi sempre mezzo ubriachi, non erano da paragonare al grande casino che oggigiorno producono gli operatori ecologici con i loro mezzi meccanici. Allora, a disturbare la quiete pubblica del paese, almeno nel mio quartiere, provvedeva mio padre con la Ducati.
        Il seminterrato dove abitavamo in realtà era un semi-seminterrato, in quanto la camera da letto dei miei genitori si trovava a livello del marciapiede. Qui la sera mio padre parcheggiava la moto, con la stessa disinvoltura con cui non molto tempo addietro nelle case si ospitava un mulo o un asino. Ogni giorno, poco prima dell’alba, la tirava fuori e cercava di avviarla. Pigiava e ripigliava parecchio sulla leva della messa in moto, prima di riuscirci. Quando ci riusciva, imballava il motore tanto da svegliare il vicinato.
        Quando non partiva a spinta, prima di muoversi, tirava la frizione e assestava un poderoso colpo di tacco sulla levetta delle marce per inserire la prima. Subito dopo innestava la seconda, poi la terza. Durante la corsa, se doveva rallentare, non scalava: tirava la frizione e frenava, per riprendere velocità restando in terza. Arrivava a destinazione conservando sempre questa marcia, e rimetteva il motore in folle solo dopo averlo spento. Questo sistema di guida gliel’aveva insegnato sbrigativamente il rivenditore della moto e non l’aveva mai modificato.
      Il suo ritorno era annunciato dal particolare rumore che la moto produceva guidata in questo modo. Chi da casa lo captava, era sicuro di non sbagliare e si precipitava ad aprire la persiana della camera da letto. Entratoci, mio padre issava la moto sul cavalletto, infilava la catena in una ruota e la chiudeva con un lucchetto.
        Tutte le sere usciva, si recava dal barbiere o a fare due passi in piazza. Spesso andava al cinema, più per riposarsi che vedere il film. Quando rincasava, accostava una mano alla testata della moto per controllarne la temperatura. Se era calda, l’indomani mio fratello maggiore si buscava una strigliata. Nonostante che mio padre gli proibisse di usare la moto durante la sua assenza, dal momento che non aveva la patente di guida, faceva orecchio da mercante: con un ferro da calza apriva il lucchetto e se ne impossessava.
        Anch’io la guidai. Solitario, giravo sul lungomare o su per le colline. La sensazione di libertà che provavo era da padrone del mondo. E’ toccato a me conservarla. Ogni volta che entro nel box e la vedo, penso che la vita ci ha giocato un brutto tiro.


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3 Comments

  1. Commento by Gian Gabriele Benedetti — 13 Maggio 2009 @ 21:36

    In questa pagina, sottesa da un sottofondo di nostalgia, ritorna il chiarore di cose, di figure, di pensieri che superano la lunga traccia del tempo e cullano il cuore. È la testimonianza di una stagione che non può essere sepolta nel confuso quotidiano, ma, anzi, induce ad intima lunga profonda emozione.
    La storia mi riporta a mente quando anch’io avevo la mia indimenticabile Vespa 125. Con quella, tra l’altro, mi recavo ogni giorno a scuola su per i colli ed i monti di Coreglia Ant.lli. Insegnavo, allora, nella pluriclasse di Piastroso, ma in precedenza ero stato supplente per parecchio tempo nella ancor più piccola scuola di Bacchionero. Il primo tratto di strada, fino al capoluogo, si poteva percorrere in Vespa. Il secondo, assai lungo e faticoso a piedi. E sempre con la mia cara Vespa, la sera ed anche nei pomeriggi liberi mi recavo a Gallicano, da Fornaci di Barga, per passare gli incancellabili momenti con la mia fidanzata, ora, da ben quarantasei anni, mia adorata moglie.
    In un certo senso rimpiango quei momenti, che, seppur non sempre semplici da vivere, mi parevano e mi paiono tuttora più belli, più genuini, meno frenetici, più generosi nel donare all’animo una serenità che il ritmo parossistico ed una certa aridità della vita moderna non mi pare riescano ad offrire oggi.
    Forse questo mio modo di pensare, di vedere, di “esaltareâ€, quasi di rimpiangere il passato è sinonimo di vecchiaia. Ma mi sembra che ai giorni nostri le persone e soprattutto i giovani non trovino più quella tranquillità, quella spensieratezza buona, quel modo sano di vivere tipico dei nostri tempi.
    Che fosse meglio il passato, Felice, pur con le sue limitatezze e miserie? Non so. So soltanto che ciò che si è perduto torna tinto di rosa, il presente ed il futuro mi lasciano alquanto perplesso ed anche con un po’ di trepidazione
    Gian Gabriele Benedetti

  2. Commento by Felice Muolo — 14 Maggio 2009 @ 08:52

    Grazie per l’intervento, Gian Gabriele. Se posso permettermi un consiglio, per sopravvivere al meglio, di fronte al passato bisogna assumere un atteggiamento disinvolto. Di fronte al presente e al futuro, lo stesso.

  3. Commento by Gian Gabriele Benedetti — 14 Maggio 2009 @ 17:28

    Consiglio saggio, Felice, ma ogni tanto… mi succede quanto non dovrebbe.
    Un caro saluto
    Gian Gabriele

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