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PITTURA: I MAESTRI: Bruegel: Apocalisse contadina

14 Maggio 2009

di Giovanni Arpino
[Classici dell’arte, Rizzoli, 1967]  

In principio, bastò una semplice canna di legno a favorire facili interpretazioni e illazioni su Pieter Bruegel. Successe perché il giovane pittore fiammingo si innamorò d’una servetta, assai più vogliosa di diver ­tirsi che non d’accasarsi. Bruegel invano le promette ­va il matrimonio, la ragazza, bugiardissima, seguitava a ingannarlo. Il pittore cercò di persuaderla con un patto: prese una canna e decise che per ogni bugia avrebbe inciso una tacca nel legno. Se entro un breve tempo la canna fosse stata crivellata come uno zufolo, addio bella… Innamorato ma non sciocco, Bruegel, per meglio provare la ragazza, scelse una canna assai lunga, che tuttavia ben presto si rivelò intaccata fino al fondo.
È un aneddoto boccaccesco, e per via di aneddoti simili fu giudicato Bruegel lungo circa tre secoli. Lo si vide contadino e poi borghese, cattolico di stretta osservanza e poi ‘libertino’, umanista e poi filosofo e poi satirico; è stato ritenuto un seguace di Hieronymus Bosch e poi l’ultimo dei primitivi, il grande pit ­tore della tradizione fiamminga e poi un semplice rea ­lista, un paesaggista, un pittore di genere, un inven ­tore di realtà favolose… Persino Baudelaire giudicò l’arte di Bruegel “un cafarnao diabolico e grottesco che si può interpretare soltanto come una sorta di gra ­zia singolare e satanica”. Una critica seria su Bruegel il Vecchio non prese avvio che nell’ultima decade del ­l’Ottocento.
E tuttavia Bruegel non sfugge ancora alla defini ­zione di popolare, alla destinazione più consumistica. Lo vediamo noi, oggi, riprodotto su copertine di qua ­derni scolastici, appeso sopra i camini di osterie pre ­tenziose, stecchito su portaceneri e fermacarte, su calendari e agende da borsetta.
Eppure lui fu diverso, tutt’altro che proverbiale: in pieno Cinquecento, non decorò altari o chiese o palazzi o altri luoghi pubblici, ma dipinse per gli ami ­ci, per i pochi collezionisti che lo amavano molto; fu in Italia per circa due anni, ma di quell’Italia dav ­vero regale, dove lavoravano Michelangelo e Leonardo, non avvertì – sembra – che certi paesaggi: fu amico di incisori, di cartografi, di stampatori anziché. fatte le debite eccezioni, di duchi, re, cardinali, papi : non fu quel “burlone” che parve a diversi critici ottocenteschi francesi, ma un uomo mite, serio, di poche parole, gran lavoratore, attento a scoprire i peccati al ­trui, pronto a ritrarli, benché odiasse a morte ogni for ­ma di pettegolezzo quotidiano.
Certo, è il pittore del mondo contadino, di un mondo scoperto fino al più minuto particolare anato ­mico, e di costume, e di atteggiamento. Ma è un mon ­do contadino visto senza compiacenze, senza idillio. dove persine Cristo è umiliato, dove la fede è deridi o ridotta a semplice oggetto di superstizione, dove Li crapula e la paura e la deformazione fisica e morale sono all’ordine del giorno anche se entrano in paesaggi di sogno, tra grani e faggi, tra querce e giaggioli. tra fieni e miti pecore e dolci covoni e acque in riposo e ghiacci virginali.
Il fiore di Bruegel è il cardo, solido, spinoso, con ­creto. La sua luce è gialla, alita da tetti di paglia, da guance cotte al sole, da mani callose, da campi grassi. L’uomo che egli colpisce in un quadro è rachitico, un essere non nell’ordine maestoso della natura, ma un tragicomico scherzo che si rotola sotto il sole e niente afferra, niente capisce. Ciò che quest’uomo ha inven ­tato e che dovrebbe rispettare giace nei dipinti come un simbolo ormai ignoto: è una chiesa, è una Madon ­na alle quali i contadini beoni voltano le spalle, e una chiesa, è una Madonna davanti alle quali si svi ­luppano commerci, si vende il pesce, si litiga, si urla. si contano quattrini, ci si sbaciucchia con musi porci ­ni, si fa mercato e osteria. Anche i bambini, in Brue ­gel, non vengono perdonati: già i loro volti paffuti denunciano l’avidità futura, un’avidità paesana e bassa. pronta a stripparsi nei lunghi inverni nordici, pronta a gozzovigliare, a barattar denari, a far carnevali. Salvo poi piangere, con ipocrita e intontito ceffo di do ­lore, durante le quaresime.
Quando la lente di Bruegel ingrandisce l’uomo, ne fa un mostro; e se lo porta in primo piano è soltanto per rendere evidente questa goffaggine di creatura, questo insulso bipede che non ha la dignità di un albero, una foglia, una pietra. E quando la lente di Bruegel si allontana, ecco i paesaggi, con quella ve ­na – possiamo dirlo – romantica, che non gli fu data dal suo Brabante, dai suoi Paesi Bassi, ma dal suo amore per le Alpi, il lago Maggiore, i colli intor ­no a Roma. Nella lente che abbraccia infiniti piani, il paesaggio si raccoglie come una memoria di luoghi diversi, talora contrastanti, ma che riescono a convivere felicemente, pacificamente, sotto un unico ciclo: rupi e fiumi gelati, tronchi e siepi, monti e colline e gibbosità lente, coltivate o selvatiche, villaggi ; ecco poi un cespuglio disegnato con l’accanimento di un bota ­nico, ecco una fascina tenuta viva fino all’ultimo stec ­co, ecco una gazza precisa in ogni sua penna.
Rispettoso delle regole, devoto della pittura, uomo di genio oltreché di buonsenso (solo l’assurdo roman ­ticismo ha inventato la sregolatezza come base neces ­saria del genio), Bruegel lavorò molto, non solo ai pro-pri quadri, così fitti che abbisognarne di ore per go ­derli e decifrarli in ogni particolare, ma anche a stam ­pe satiriche, a mappe, carte, incisioni. Da queste de ­rivò forse l’estrema pulizia del disegno, da queste tras ­se l’impegno per visioni che dovevano sempre costituire un racconto, un fatto, un discorso concluso.
L’attenzione che portò agli uomini lo condusse ai mostri, a quelle forme bestiali in cui racchiuse i pec ­cati, il demonio, le colpe. Che non ci appaiono come veri e propri incubi, ma solo enormi, esagerate deformazioni di nature ancora umane, ancora tra noi. Non sono il capriccio di una fantasia che si traduce in sim ­boli casuali, ma il frutto di un metodo, di un’appli ­cazione. E per questo Satana, nella tavola della Dulle Griet, è ancora un’enorme bocca di contadino che si ingozza, un contadino-pesce, laido, estroverso, affa ­mato, che giù per le canne può mandare tutto, polenta e sassi, salsicce e rospi, immondizie e fragole. Per questo i mostri di Bruegel, anche se ci appaiono in forme sozze e fantastiche – topi e ovuli e scimmie ed esseri con code e branchie e rostri -, non ci fan ­no dimenticare le condanne dell’uomo, chiuse dentro l’uomo, unico vero universale colpevole. Neppure nel ­la morte quest’uomo si redime. Anche di fronte al ­l’esercito della morte noi lo vediamo che strilla, che gioca, che abbraccia, che impicca, che cerca scampo senza dignità, senza umiltà.
C’è qualcuno che si salva. Ed è il pastore. È una figura che appare sovente nelle tele di Bruegel, di un’angelicità che riscatta. In piedi su un colle, con qualche pecora attorno, mentre in primo piano vola un Icaro o cammina un misantropo seguito da un tagliaborse, il pastore, appoggiato alla sua canna, non guarda, non pensa, sta immobile, segno di pace, di ac ­cettazione, di rassegnazione alle forme e alle tempe ­ste del mondo. È l’uomo segreto che avremmo dovuto continuare ad essere nella realtà, non solo nelle intenzioni, è una figura che non partorisce mostri, è una creatura che ha sposato il paesaggio, il tempo. Ovviamente, non è più un protagonista, ma un’imma ­gine che serve come contrasto, ammonimento, e giace sui bordi della tela, non gli è possibile avanzare fino a prendere maggior spazio davanti a noi.

Davanti a noi è sempre il caos. Anche se spesso è un caos più comico che tragico, perché ogni calvario può essere ritratto non come una collina di dolore ma come il recinto di una rozza fiera paesana, anche se i ciechi della parabola fanno spavento, però è uno spa ­vento che non dimentica tutti i lati del ridicolo insiti nella natura dell’uomo, per disgraziato e beffato e storpio che sia.
L’occhio divoratore di Bruegel ha visto questa no ­stra incredibile, inaccettabile comicità. Ci ha visti stor ­pi, stracciati, luridi, con le membra storte, con la pu ­pilla bianca, ci ha visti così e non ci fa piangere. Miracolosamente, non fa piangere, anzi : ci riduce non a caricature ma a uno sconnesso, drammatico mucchio di arti, e ci impedisce di commuoverci su noi stessi, ci vieta stupide pietà o complici paure.
Nei lavori di Pieter Bruegel non mancano, certo. le allusioni ai tempi in cui si trovò a vivere: le lotte politiche e religiose, che fecero sanguinare i Paesi Bas ­si, hanno gremito di piccoli e grandi significati molte opere. Ma quella ‘attualità’ è arrivata fino a noi maturando un significato più alto e complesso, è diventata una contemporaneità di destino, costanza nel dolore. nella perdita, nell’affanno.
Aveva iniziato con grandi quadri, con fitti e gremiti racconti, e verso la fine della vita egli ritrasse solamente volti di vecchi, un’emaciata, terrorizzata con ­tadina, una gazza sulla forca, riducendo al massimo gli elementi narrativi necessari, riassumendo in pochi tratti figure, creature, un discorso sviluppato e arti ­colato per anni. Ribadì con gli ultimi chiodi una sua ‘storia’ che prima aveva raccontato con tutta l’am ­piezza e le allusioni possibili. La sua ‘attualità’ per noi è così poco significante che, scavalcandola, pos ­siamo di volta in volta attribuirle motivi e ricchezze e sottigliezze diversi, slegati da un’età precisa, dalle ‘illusioni della Storia’.
L’uomo balla, la morte è vicina, la Fede non agi ­sce più. Ecco cosa ci trasmette Bruegel in ogni rac ­conto. E infatti uno dei suoi ultimi dipinti – conta ­dini che ballano, la forca, la Croce, una gazza sulla forca – riesce a riassumere tutti i mostri, tutti gli storpi, tutta la gozzoviglia, tutta l’idiozia umana che per anni si sono riversati e ordinati sulla tavola di rac ­conto in racconto. L’uomo balla, goffo, la Croce è lon ­tana, le si voltano le spalle, la forca è in primo piano, e quella gazza sulla forca è la chiacchiera, il pettego ­lezzo, il vano affabulare di noi sulla terra, di noi che viviamo come se fossimo eterni e proprio per questo errore non fummo né siamo umani.
E c’è il terrore che ci colpisce quando siamo alla fine, quando ci accorgiamo che la carne è inutile, per ­sa, vinta, divorata dal tempo. È il terrore che tira la faccia della vecchia contadina come negli ultimi suoi anni la dipinge Bruegel, un misero volto schiodato tra i denti per una sorta di stupore, luttuoso timore. Sotto la pelle il teschio è già lucido, pronto ad apparire. Questo non è più un volto, è già un oggetto, un cero, un verme, uno spettro, un residuo umano ‘giunto al paragone’ e che domani un qualunque becchino da commedia smuoverà di tra i piedi con un calcio.
Intorno a questo volto, intorno ai contadini che ballano a lato della forca, la natura si è fatta buia, un bosco non più praticabile, un mondo che ormai si rifiuta d’essere esplorato. È una grande foresta nera, di rami e foglie fitti come un muro, anche i larghi paesaggi d’un tempo non si attardano più sotto gialle strisce di luce, in nessun angolo di questi ultimi qua ­dri potrebbe riapparire il pastore in sosta. La condanna è totale, l’uomo è perduto, è solo più una debole massa di carne che seguita a ballare dentro un sacco, fino alla fine, scioccamente sì, ma con qualcosa di pa ­tetico, con uno struggimento che l’ignoranza, anziché rendere odioso, abnorme, improvvisamente rivela can ­dido, incolpevole come il volo di una farfalla, il balzo di un cane. Perché non siamo altro che questo : cani, farfalle, insetti di breve vita. Anche se abbiamo co ­struito chiese e sognato Babele, e cercato il volo di Icaro e festeggiato le scadenze lunari, non ci siamo mai staccati abbastanza dalla nostra natura di bestie, indegne persine delle loro stesse invenzioni e astrazioni.
Forse non esiste altro pittore che, accanendosi tan ­to sull’uomo, inietti nostalgia per un’età dell’oro che, se fu, fu prima dell’uomo, un’età felice nelle chiome de ­gli alberi, nel volo degli uccelli, nella pace delle acque, delle luci che tramontano e sbiadiscono sulle colline.
Ma forse anche questa è una delle massime illu ­sioni, degli enormi inganni che l’uomo si pone in cuo ­re nei suoi rari momenti di dubbio, di inquietudine vera. Anche il sogno di questa età non è che un pro ­dotto del nostro dolore, del nostro contorcimento vita ­le. Quell’età non ci appartenne, proprio perché noi fummo capaci di ucciderla venendo al mondo e impadronendoci del mondo. Sognare quell’età è forse il supremo supplizio che possiamo darci. Quindi non di ­ciamo nulla al contadino che balla, che si ingozza, che si sbraca sotto un albero. La sua fatica, la sua morte, gli costituiscono un sufficiente riparo per evitare dolori più grandi, più sottili. Lasciamo che quest’uomo goffo seguiti ad agitarsi, a godere quando può, a mo ­rire tra gli spaventi quando è la sua ora, non corrom ­piamoci a vicenda con l’inventare dolori che non ap ­partengono più alla nostra vita. Cerchiamo di evitare i peccati, di correggerli, di umiliarci, cerchiamo di medicare la nostra superbia e la nostra ignoranza, dove quando come si può. Non c’è altro, sembra dire Brue ­gel, non c’è più una magica via per sfuggire a troppi pesi, se non una tempesta finale che ci cancelli tutti.


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Bart