LETTERATURA: Gira rigira biondina2 Maggio 2010 di Mariapia Frigerio Senza nessuna telefonata, ma dalla cronaca del quotidiano, aveva saputo della fine di Bianca. Poi era salito nella sua camera francescana (un lettuccio, uno scrittoio, scaffali a giorno ricoperti di libri). Qui, sulla sedia di fronte alla scrivania, testa tra le mani, per la prima volta nella sua vita aveva pianto. Di nascosto. Nessuno doveva sapere. Nessuno doveva vedere. Scoprire la fine della donna dal giornale. Del resto, chi lo avrebbe potuto avvertire? Non il marito che era all’oscuro del loro strano legame. Non la figlia che lo considerava una delle tante conoscenze della madre. Neppure Clelia, la fedelissima domestica – quasi un’amica per Bianca – che, dopo un grave intervento, ne frequentava ormai poco la casa. Al suo posto, ora, c’era Manuela. Ma mai Bianca le avrebbe parlato. E tante volte Romano l’aveva rimproverata di tenere così a distanza la donna. «È così chiacchierona! ». *** *** *** Tre sere prima, mentre cenavano insieme, Bianca aveva iniziato a parlargli di Aldo Garbarini. «Lo voglio andare a trovare, la prima volta che vado in Piemonte ». *** *** *** Anni prima Bianca aveva accettato l’invito di Romano a pranzare con lui. «Ma a un patto » gli aveva detto «solo se farai un giro in auto con me ». E, in quel giro in macchina, avevano raggiunto insieme un paesino sopra un colle. A un tornante Bianca si era fermata. «Qui, in questo luogo e in questo istante – con te – ho la percezione esatta della felicità. So che non potrei esserlo di più. Potrei morire adesso e saprei di morire felice. ». Romano era rimasto senza parole. A tavola però – e negli anni successivi – non ne aveva più fatto cenno. Ma era un discorso in sospeso. Almeno per Romano. Anche se non era più riuscito a tornarci sopra. Del resto, quella che lui definiva la sua amica del cuore, era uno strano “animale”. Indecifrabile. Almeno per uno come lui e non solo per lui. «Bel complimento, definirmi “animale” » gli aveva più volte fatto notare Bianca. Ma ne rideva. E, forse, anche di quello era felice. *** *** *** Era un pomeriggio d’autunno. Bianca in visita alla casa con la torretta. Stavano bevendo un tè. Di punto in bianco aveva chiesto a Romano: «Quanto tempo impiegheresti a dimenticarmi se morissi? ». Da sola si era poi data la risposta: «Smemorato come sei… facciamo… facciamo tre giorni? ». «Sì, diciamo che fino a tre giorni riuscirei a ricordarmi di te. Dopo non so… ». Ma qui il vecchio Romano aveva taciuto. La risposta – se c’era – non la conosceva. *** *** *** *** *** *** *** *** *** Monica disse a Dolores di aver visto anche quel giorno il vecchio avvicinarsi alla rete e parlare con Felicita. La bambina sembrava conoscerlo, ma non sapeva dire di più. «È il tuo nonno? » le aveva chiesto Dolores. La collega si era fatta pensosa. «È incredibile, ma… ma forse siamo di fronte a un pedofilo. Sarà il caso di dirlo alla direttrice ». Dolores, Monica e Felicita rientrarono nell’edificio e si diressero in fondo al corridoio. Fuori dall’ultima porta un cartello indicava: «Sandra Maionchi – Direttrice ». La donna ascoltò i fatti dalle due maestre. Poi volle sentire la bambina. Sandra Maionchi non era più giovane. Aveva esperienza. Sapeva come muoversi. «Allora, Felicita, è proprio simpatico quel signore che ti canta la canzone “Gira, rigira biondina…”. Una volta lo conoscevo anch’io, ma ora non ricordo più il suo nome… Me lo vuoi dire tu? ». Sandra Maionchi distrasse la bambina con alcuni pupazzetti che teneva sulla scrivania. Poi, rivolgendosi alle maestre: «Domani, durante la ricreazione, non perdetela di vista, ma neppure intervenite… sempre che il signore in questione non faccia… ». Il giorno successivo, a ricreazione, i bambini si sparpagliarono, come sempre, in giardino. Felicita giocò un po’ con loro. Poi raggiunse la rete. Il vecchio era già là. Sandra Maionchi, come si era ripromessa, non la perse di vista, ma senza seguirla. La osservava, nascosta, da dietro la grande magnolia. «Dio mio, non ci posso credere! Ma quello è Romano Baschieri! Che vorrà dalla bambina? ». Intanto vedeva Felicita ridere con lui, mentre il Baschieri infilava a fatica le sue dita nella rete per toccarle i riccioli biondi. Le maestre richiamarono i bambini perché era ora di rientrare. La direttrice vide Felicita salutare con la manina il vecchio. Poi raggiungere i suoi compagni. Monica voleva a tutti costi sapere. Affidò la classe a Dolores e andò a bussare alla porta della direzione. Quando entrò vide la Maionchi passeggiare avanti e indietro nervosamente. «Si sieda, Monica… anzi, guardi, mi siedo anch’io ». La direttrice fece le telefonate. Parlò con Gabriele, il figlio del Baschieri, e con Lavinia, la figlia di Bianca e madre di Felicita. Lo fece con le dovute cautele, cercando di non accusare esplicitamente l’uomo, né con l’uno né con l’altra, dal momento che non aveva prove concrete in mano. A sua volta Gabriele telefonò a Lavinia. Superando un doppio imbarazzo. Quello per lo strano comportamento del padre e quello per il lutto che l’aveva colpita. Se non fosse stato per l’anomala vicenda, non avrebbe pensato certo né di sentirla né di partecipare al suo dolore. L’aveva vista sì e no due volte in vita sua. Le volte in cui aveva accompagnato il padre a trovare Bianca. La telefonata terminò con: «Comunque siano andate le cose vorrei che andassimo insieme da lui. Entrambi abbiamo diritto a una spiegazione. Ti prego di dirmi di sì ». E di sì gli aveva detto Lavinia. Sì, sarebbe andata con lui in via Paolo Savi. Gabriele suonò al cancello della casa con la torretta. Venne ad aprire Silvana. «C’è mio padre? ». Romano se ne stava sprofondato in poltrona. Appena vide il figlio quasi lo investì: «Avrei voluto quella di Tajoli, ma la signorina di Musicaebasta mi ha voluto a tutti i costi vendere questa di Villa. Chissà poi perché. L’importante è sentirla, non trovi? ». Quando Romano vide entrare la figlia di Bianca si alzò immediatamente dalla poltrona e le porse la mano. Poi guardando entrambi: «Non so perché siate venuti e in ogni caso non ho niente da dirvi ». E nuovamente si sprofondò nella poltrona: «A te Lavinia sì… forse…, ma non adesso. Adesso no ». Il figlio riconobbe l’uomo deciso di sempre. «Senti, papà » riprese «non voglio infierire, ma ti rendi conto in che situazione ci hai messo tutti… e in che situazione ti sei messo con quei tuoi incontri con Felicita alla rete della scuola? Pensa alla nostra reputazione… ». Lavinia non ascoltava. Si guardava intorno. Ripensava che la madre aveva trascorso lì, in quella stanza, molto tempo. Si guardava intorno cercandone delle tracce. Guardava gli scaffali dei libri. Le pareti con i quadri. L’antiquato lettore Cd da cui proveniva – in modo ossessivo – la canzone. Ma era una ricerca vana. Nulla che le parlasse di lei. Poi osservò il vecchio Romano. Non sentiva quello che diceva al figlio. Il volume alto della canzone ne copriva le parole. O, forse, non lo voleva sentire. Sapeva che Gabriele cercava di difendere la sua reputazione e quella del padre. E il padre si ribellava. Del resto anche lei, dentro di sé, si ribellava. Anche Bianca, sua madre, si sarebbe ribellata. La reputazione! Romano non le piaceva particolarmente. La divertiva, lo trovava ironico, ma nient’altro. Del resto aveva provato più volte un certo fastidio quando la madre la andava a trovare con un amico – come le diceva – e, nell’ultimo periodo, l’amico era sempre lo stesso: quel vecchio… Era certa però che tutto fosse solo un equivoco. Che mai Romano si sarebbe avvicinato alla sua bambina se non con intenzioni affettuose. Ripensò alla Maionchi. Alla telefonata. Risentiva le parole della donna. Di quella donna che sapeva come ci si comporta in ogni occasione. «Mi dispiace disturbarla, signora Florenzi, con quello che le è accaduto, ma devo segnalarle la presenza di un signore – un signore piuttosto noto – Romano Baschieri, che parla con Felicita alla recinzione della nostra scuola. Ormai da diversi giorni. Non intendo dire… ». Intendeva, eccome se intendeva, la stronza. Lavinia non l’aveva lasciata finire: «Grazie del suo interessamento, ma sono perfettamente a conoscenza di tutto ». E aveva riattaccato senza permetterle di aggiungere altro. D’un tratto Romano pose fine ai discorsi col figlio e rivolgendosi a Lavinia: «Io credo di sapere perché tua madre sia morta. “Uscita di strada… colpito il guard-rail… nessun mancamento né veicolo che abbia provocato l’incidente…”. Questo si sa dai giornali e, del resto, è tutto confermato dalle perizie… «Però… però penso – anzi, ne sono sicuro – che la vera causa sia stata la sua felicità. Era felice della tua bambina, di te, e… ho un certo pudore a dirlo… anche di me. Del resto era una donna piena di felicità. Le prime volte restavo ammutolito alla cornetta. Non capivo. Non sapevo che indistintamente s’immergeva in quella felicità o se la sentiva “straripare” dal cuore. Che se ne lasciava prendere a tal punto… a tal punto da distrarsi qualunque cosa stesse facendo… «Mi chiedo se abbia fatto in tempo a rivedere quell’Aldo Garbarini! O forse non era per lei così importante… Spero, comunque, che tu mi possa perdonare. Per tutto. Anche per la canzone… Sai, l’ho cantata spesso a tua madre… poi a tua figlia… per via dei loro capelli chiari ». Lavinia pensò che finalmente aveva trovato qualcosa che le ricordasse la madre. Non i libri, né i quadri, neppure l’antiquato lettore Cd. Il suo sguardo, ora, si era posato sul vecchio. Sul vecchio che le parlava. Lui era la traccia più evidente del tempo trascorso da sua madre in quella stanza. Lo guardò in silenzio. Lo guardò per la prima volta con sentimento. Ecco, l’unica traccia, l’unico legame era lui. E, inconsapevolmente, la tenerezza per quella vecchiaia s’impossessò di lei. Si era fatta l’ora di prendere Felicita a scuola. La ragazza gli sorrise riconoscente mentre usciva dal cancello con Gabriele. *** *** *** *** *** *** *** *** *** «Dove stiamo andando, mamma? » chiese Felicita. Ciabattante e felice al pensiero di quanto avrebbe raccontato il giorno successivo facendo la spesa nel rione, l’anziana domestica entrò nel salotto in penombra. «La figlia di Bianca? Certo… certo… la faccia entrare ». La bambina riconobbe immediatamente il signore della rete. «La direttrice mi ha chiesto come ti chiami ». «Mi fa un certo effetto dirlo proprio a te, ma sei l’unico, sai, con cui riesca a parlare di lei. E vorrei crederti, lo vorrei tanto… vorrei come te pensare che sia morta distratta dai suoi pensieri felici, al colmo della sua felicità! ». Si erano seduti, nel frattempo, al tavolo di legno scuro (chissà quante volte era stata sua madre a sedersi lì con lui…). Lavinia gli versò il tè. Senza saperlo, ripeteva i gesti di lei. «La sua compagnia… quanta compagnia! E quando non c’era… partecipare alla sua vita… anche a distanza… ». Romano dava voce ai suoi pensieri. Poi, d’improvviso: «Tu sai come si fa a tenere in vita qualcuno che non c’è più? Ma il vecchio non le diede il tempo di continuare. «Una persona che non c’è più resta viva se noi riusciamo a trasferire il nostro affetto su chi è stato oggetto del suo amore. L’ho capito questa notte. Solo questa notte. Per via del sogno. Un sogno lunghissimo… Forse un sogno rivelatore… Sapevo quanto Bianca amasse la tua bambina. Perché altrimenti sarei andato a trovare Felicita? ». Lavinia rimase in silenzio. Quel vecchio… non sapeva neppure lei spiegarsi come… ma iniziava a piacerle. La sua sofferenza glielo rendeva vicino. La loro sofferenza li univa. Ora sentiva suo dovere, per quanto possibile, prendere il posto della madre. Del resto se era lì non era forse per lo stesso motivo del sogno del vecchio? Non era lui la persona su cui la madre aveva riversato – negli ultimi anni – il suo affetto? Romano non aveva mai provato, in passato, grande simpatia per la ragazza. Troppo diversa da Bianca. Ma ora era in preda a una strana alchimia. Lui e Bianca. Bianca e Felicita. Lui e Felicita. Felicita e Lavinia. Lui e Lavinia. Per cui le chiese: «Spero che verrai altre volte a bere un tè da me. Che verrai con la tua bambina… ». Non c’era bisogno di risposte. Lavinia era già lì con lui. «Mamma, mamma, guarda che bei fiori » disse mostrandole il mazzolino. Poi, rivolgendosi a Romano: «Silvana mi ha fatto vedere la vasca con i pesci rossi… ma io avevo già visto quella vasca… ». La bambina non rispose. Ora anche lei si guardava intorno. E senza Cd, senza Tajoli né Villa, carezzandole i capelli, col tono monotono della sua voce roca, il vecchio iniziò a cantare: “Gira, rigira, biondina, Letto 3212 volte. | ![]() | ||||||||||
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Commento by mariapia frigerio — 2 Maggio 2010 @ 10:22
Commento di Gian Gabriele Benedetti
Il racconto trova la sua garanzia e la propria “identità” in una memoria, che definisce e scandisce le pagine di un tempo personale in scadenza. Memoria che si tinge d’affetto e d’amore, si trasforma in accesa nostalgia e cerca una proiezione della coscienza che non conosce abbandoni. Ed i giorni si rivestono di tutto quel mondo che riaffiora col suo atteso diluvio di polline fecondo. È vinto, in parte, il dolore di una perdita; è vinto nella favola di un rapporto voluto, quasi reinventato, ritrovato e vissuto con delicata “accoratezza” non solo nell’animo e nella mente, ma pressoché fisicamente. E l’attesa di ogni giorno si fa luce interiore che vivifica e si esterna soprattutto in una carezza ed attraverso un ritornello, distesi fertilmente lungo il sentiero degli ultimi sogni.
La maturità della prosa (sempre “organizzata” in modo sapiente) si avvale di una vibrazione creativa, accompagnata da un susseguirsi di immagini, abilmente distribuite; prende forza da un’analisi del reale, intenso nella determinazione espressiva ed appropriato al coronamento emotivo; approda soprattutto nella sottile riflessione che privilegia l’intento introspettivo.
La dolce commozione che ne scaturisce si esalta nella compiutezza dell’assunto ed aspira ad un movente poetico.
Gian Gabriele Benedetti
Commento by Carlo Capone — 3 Maggio 2010 @ 14:02
Non so, ma il racconto è talmente ben costruito e la figura di Romano risulta così incisa, che mentre leggevo mi è venuta in mente , chi sa poi perché, l’immagine di Cesare Musatti. Un grande vecchio, buono e canuto, di cui conservo un ricordo straordinario.
Scherzi della psicoanalisi.
Carlo Capone
Commento by daniela toschi — 5 Maggio 2010 @ 21:17
Complimenti MPF! :wink:
Commento by claudio grosset — 9 Maggio 2010 @ 09:42
Si direbbe che la “Frigerio” abbia scritto questo racconto intorno ad un’affascinante autoreferenziata idea, un’illusione forse, una speranza ‘irrinunciabile’ “…una persona che non c’e più resta viva (in noi stessi) se noi riusciamo a trasferire il nostro affetto su chi è stato oggetto del suo amore…”. Il pregio, a mio dire, è aver fatto riemergere nella consapevozza, gratificante per il lettore, un comportamento diffuso ed umano che agisce ‘nel senso inverso’ cioè, noi tutti, rivolgendo il nostro affetto agli affetti della persona ‘amata’ che non c’è più, cerchiamo in ogni modo di mantenere viva la sua presenza in noi, negli altri e del suo ricordo.
Sempre mi colpisce come l’autrice non sia in un mondo tutto suo letterario ma quanto sia attenta a ciò che accade intorno, ai comportamenti dei nostri giorni che osserva con ironico distacco, al contrario dei suoi protagonisti che sono permeati di sentimenti profondi, quasi retaggio di un passato perduto e forse idealizzato. Temi oggi dibattuti come la pedofilia, in un mondo sempre più alla ricerca di patologie, vengono rapportati invece all’amore stupendo e per niente innaturale di una persona matura, un nonno verso una bimba, una nipotina; un bell’esempio di stortura ‘perversa’ della realtà percepita su cui bisogna, e la “Frigerio” ci aiuta in questo, certamente riflettere.