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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

LETTERATURA GOTICA: Francesco Mastriani: “L’assassinio in via Portacarrese a Montecalvario”

18 Settembre 2020

di Bartolomeo Di Monaco

Mastriani ha tratto spesso dalla cronaca il soggetto dei suoi romanzi.
In questo, scritto nel 1882, il fatto narrato accadde il 9 gennaio 1819. Occorre precisare che il romanzo fu pubblicato in appendice sul quotidiano “Roma” dal 15 settembre al 12 dicembre 1882 in 85 dispense, ed è stato pubblicato in volume solo nel 2018 da Guida editore a cura dei discendenti diretti Emilio e Rosario Mastriani.
Barbara (Barbarina) Castigli è una danzatrice di Messina che vive a Napoli. È piuttosto belloccia, non bella, ma ha un corpicino che fa girare la testa agli uomini, i quali la spiano ogni volta che passa per strada per recarsi alle prove presso il teatro San Carlo, accompagnata dalla nonna, essendo orfana dei genitori: “C’erano di quei giamberghini più avventati che seguivano la corifea insino al vestibolo delle scene di San Carlo e, al ritorno insino al vico ‘Storto alla Concordia’; ma queste erano passeggiate che si riducevano a solo vantaggio dei calzolai; dacché gli spasimanti non avevano neppure l’onore di essere guardati con la coda dell’occhio dalla piccola Tersicore, che, se fosse accaduto che ella si avvedesse di quei persecutori, si fermava di botto, e menava giù colpi di ombrellino a manca e a dritta, accompagnando queste ombrellate con certi sonnacchi pornografici che le uscivano dalle rosse labbra e che non erano certamente fiori di arcadica poesia.”.
Con poche parole è tratteggiato il carattere intimo del primo personaggio che incontriamo e lo vediamo muoversi come lanciatovi in mezzo dal pennello di Toulouse Lautrec o dai bronzetti di Edgar Degas.
Ma Barbarina non era come le tante che si lasciano abbindolare a fronte di certe agiatezze concesse dai corteggiatori. Era furba, e onesta lo era per calcolo: “Barbarina era onesta per calcolo: voleva ‘maritarsi bene’, com’essa diceva.”.
Mariannina, una sua collega, piccoletta e grassottella dalle forme tuttavia seducenti, non è dello stesso parere e le suggerisce di fare come lei, che si è accalappiata uno sciocco corteggiatore, il cavaliere (dell’ordine di San Costantino) Benedetto Sabini (l’autore ci avverte che avrà parte “importantissima” nel romanzo), che non le fa mancare nulla. Non è il momento di legarsi ad un marito, le fa capire, quando si è giovani e belle.
Forse perché si parla di teatro e l’opera si apre descrivendocene il mondo variopinto, ci viene in mente la stupenda apertura, ambientata proprio in un teatro parigino, del celebre romanzo di Émile Zola, “Nanà”, del 1880, di due anni prima, cioè.
Mastriani fa un cenno alla reggenza di Murat: “Il principe napoleonide volea far divertire il buon popolo di Napoli e vi metteva tutto il suo buon volere. Nelle gale di Corte facea correre il vino dalle fontane; alzare in tutte le principali piazze gli alberi della cuccagna; e faceva dare accesso gratuito al popolo nei teatri.
Il governo di re Gioacchino avea permesso che nel vico ‘Freddo a Chiaia’ si aprisse una specie di ballo pubblico, come si costuma a Parigi.
Fu chiamato il ‘Giardino di Tivoli’.”.
Esso, da principio ritrovo delle classi più alte, a poco a poco divenne luogo frequentato da femmine di facili costumi e per incontri e approcci amorosi.
Il ricco don Benedetto, il protettore di Mariannina, ne era un assiduo frequentatore. In quel vizio stava per esaurire tutto il patrimonio ereditato dal padre, ma riesce a salvarsi mettendosi al servizio dello Stato nel ramo della polizia segreta, ossia dello spionaggio. Si leggerà più avanti che “si era mezzanamente arricchito con una professione che non obbliga a nessun lavoro, e che si esercita comodamente nei gabinetti dei sopracciò che governano.”.
Barbarina si mette in testa di sedurre l’amante dell’amica, onde sfruttarlo pure lei: “… la primissima intenzione di Barbarina si fu quella di carpire qualche regaluccio all’amante di Mariannina senz’arrischiare la propria onestà.”.
Nel ballare sul palcoscenico, occupando la prima fila, la sua bellezza si faceva notare, e si era già accorta che Benedetto la riguardava con un certo interesse. Così una sera fissa su di lui uno sguardo pieno di voluttà, che è percepito dal “panciuto ganimede”: “Don Benedetto ebbe il capogiro; gli si annebbiò la vista pel piacere e avrebbe voluto che il ‘passo a due’ fosse durato un’ora per deliziarsi della luce vaporosa e magnetica di quelli occhi divini.”.

Il contatto avviene e il lettore potrà ammirare le arti seduttive di Barbarina, ben rappresentate dall’efficace scrittura di Mastriani.
Ci sono strade e luoghi che vengono immortalati dalla sua penna di gran conoscitore della città di Napoli e sarebbe bello che un altrettanto conoscitore facesse una comparazione storica tra quelle strade citate, che forse potrebbero anche aver cambiato intestazione, e quelle di oggi. Per esempio, esiste ancora la locanda dell’Aquila nera? E la strada dove si situava si chiama ancora Tre re a San Tommaso?
Nell’opera complessiva di Mastriani è contenuta anche una invidiabile, doviziosa e varia eredità di notizie da renderla del tutto speciale. Egli si esercitò in molti campi, lasciando “oltre 900 lavori letterari”.
Ci lascia anche moniti e suggerimenti, e pillole di saggezza popolana che mostrano la sua sapienza esistenziale e il contatto profondo che tenne con la società civile, che imparò a conoscere fin nell’anima. Leggete cosa scrive della nonna, quando si accinge a descriverci l’avola di Barbarina, che sia chiama Rosalia, e ha circa 55 anni, “ma ne addimostrava una decina di più”: “C’è nella nonna due volte la madre e quattro volte il padre.”. E verso la fine: “Dicemmo altrove che la nonna è due volte madre, epperò la tenerezza per i nipoti è due volte più intensa dello stesso amore di madre.”.
Che si deve dire di uno scrittore di tale delicata e rara sensibilità?
Si faccia quanto prima dagli esperti un approfondimento su questo scrittore i cui meriti sono disseminati a iosa nelle sue opere, mai banali per valori di contenuto e di scrittura: “Un giorno, settant’anni fa, anch’essa era una bambina che folleggiava da una stanza all’altra e correva nei giardini appresso alle farfalle; e tutti la baciavano e le facevan carezze; ed aveva i capelli come l’oro e i labbri come il corallo.”.
I vocaboli che usa, spesso sono perle che formano una preziosa, scintillante e ubertosa collana.
I rapporti tra nonna Rosalia Fioretti, che era stata madre di Rosolina, cantante di teatro e morta di tisi a 32 anni, e la nipote Barbarina, che oltre alla madre era rimasta orfana del padre Paolo Castigli, pure lui interessato al mondo del teatro, sono più che amorevoli. Le dice Barbarina: “Aspetterò che la buona ventura m’arrivi di maritarmi come dico io; e allora, nonna mia, tu vivrai altri cento anni tra le morbidezze d’una comoda vita.”.
Ma ci avverte l’autore: “Questo è veramente un giuoco assai pericoloso per una fanciulla; ed anche quando con arti sottilissime ella riesca a difendere la sua onestà contro le provocazioni che la medesima fa nascere, non riuscirà certamente a porre in salvo il suo decoro e la sua reputazione.”.
Sarà così anche per Barbarina?
Intanto ammiriamola mentre sa tenere sulle ansie il cavaliere Benedetto che di mattino è andato a trovarla, regalandole un bell’anello con due brillantini, e avviando con ciò il suo corteggiamento: “Costui si era trovato al fianco di tante bellissime donne e, nondimeno, nessuna gli avea fatto quello effetto d’incantesimo che gli facea quella donnina di Sicilia, dalla cui capigliatura esalava una vibrata essenza di garofano; ed era un’acqua odorosa o pomata di viva fragranza di cui le danzatrici solevano in quel tempo ungere i loro capelli, e che si addimandava ‘La Favorita’.”.
Il dialogo è uno dei punti di forza di Mastriani (che fu anche autore di teatro), il quale non sbaglia mai tempi e situazioni, e il lettore ne avrà un esempio leggendo il corteggiamento in questione che ci farà apparire il cavaliere come un galletto che abbia avanti a sé una faina. Sull’importanza del teatro ai quei tempi, più avanti, dirà: “Le polemiche teatrali tenevano quel posto che oggidì occupano le polemiche politiche.”.
Certi interventi dell’autore hanno delicata ironia e garbo.
Eccone uno. Mentre il cavaliere e Barbarina stanno esibendosi nel corteggiamento, si sente bussare all’uscio, e chi è? Il padrone di casa che viene a riscuotere gli affitti, in un momento così inopportuno. E l’autore chiosa: “I miei benigni lettori debbono certamente aver notato che c’è una classe di persone che io picchio ben bene nelle mie opere, ed è la classe dei padroni di casa.”.
Chi sa a quanti recano felicità e soddisfazione queste parole! Al punto che, se Mastriani fosse un Santo, ne terrebbero l’altarino all’ingresso della loro casa, onde auspicarne e accalorarne la venuta.
Così continua, palesando anche l’anima del socialista, quale fu: “Non credano pertanto che io li picchi per astio personale. Non iscrissi mai una parola sotto l’impeto della collera o del rancore. Ma non risparmio tutti gli oppressori della povera gente, tutti quelli che succhiano il sangue dalle nostre vene, tutti quelli che calpestano le leggi di Dio e della umana fratellanza per infame ingordigia del guadagno.”.
In quel primo giorno di corteggiamento, l’abile faina Barbarina riuscì a togliere con le sue movenze all’istupidito galletto: un anello di brillanti, un orologio d’oro, e due mesate con le quali Benedetto saldò l’arretrato dell’affitto.
E siamo solo al principio.
La femminilità, pare suggerirci l’autore, è qualcosa di sublime che agisce in specie sul lume della ragione: “Barbarina lo guardava con un sorriso ineffabile, mettendosi le mani ai fianchi con quella grazia di civetteria che è tutta propria delle danzatrici, e facendo rilevare un busto che Venere le avrebbe invidiato.”.
La sera dello stesso giorno il cavaliere si reca nuovamente in casa di Barbarina, secondo le intese, e vi trova un giovane poeta, anch’egli originario di Messina, Tito Leonzi di anni 24. La cosa non gli garba punto e noi già andiamo avanti e pensiamo che sarà questo giovane a mettersi in mezzo alla nascente relazione. Sarà così?
Il Mastriani semina il sospetto, come al solito abilmente, richiamandoci alla memoria i tanti romanzi che hanno circolato con perfide seduttrici quali protagoniste.

Il giovane Tito ha scritto una tragedia e desidera che sia rappresentata. Lasciata la casa di Barbarina, questa lo raccomanda al cavaliere perché trovi un impresario disposto a metterla in scena. Lui lo promette ma la conversazione, che Benedetto si attendeva propizia, prende una brutta piega quando egli le chiede se vuole diventare la sua amante. Barbarina dichiara di sentirsi onorata, ma chiarisce che ella è disposta ad accettare solo se diventerà sua moglie. Non se lo aspettava il galletto, e va su tutte le furie, imprecando che non si farà più vedere. Ma Barbarina non ci crede ed è sicura che tornerà al più presto.
E ha ragione. Il contatto, dunque, si mantiene.
Ne approfitta Mastriani per fare una divagazione che annuncia con la solita sua galanteria e ci dà, in sovrappiù, una notizia che il lettore gradirà perché divertente.
La prima, che serve ad introdurre alcune note sull’impresario di Barbarina, don Domenico Barbaja, ha tale una squisitezza: “Ci consentano i nostri leggitori un breve capitolo su quest’uomo che per tanti anni resse le sorti dei nostri reali teatri. Benché questo capitolo sia in gran parte estraneo al viluppo del sanguinoso dramma di via Portacarrese, verrà sempre a colorire i tempi e gli uomini. D’altro lato, non si può fare la storia di una corifea dei reali teatri senza che ci entri per poco don Domenico, del quale più diffusamente parlammo in altro nostro lavoro.”.
La seconda ci narra un fatterello di cui dobbiamo esser grati a detto impresario, e riguarda Vincenzo Rossini: “Rossini forse non avrebbe scritto una nota senza Barbaja.
Si sa che il grande maestro di Pesaro era neghittoso, massime in Napoli. È noto che don Domenico, per avere l”Otello’, dovette rinchiudere il maestro prigioniero in sua casa, dandogli per tutto svago per colazione, per pranzo e per cena i maccheroni, di cui il Rossini era ghiotto e mangione.”.
Nel farne il ritratto ci fa sapere che: “Aveva inoltre un’altra qualità che è assolutamente indispensabile per un impresario. Il suo cuoio era impermeabile ai vezzi delle cantanti e delle danzatrici. In quanto a queste, le metteva tutte in un fascio, dando loro una qualificazione, di cui si sarebbero tenute offese, se non avessero saputo che il Barbaja non era molto corretto nel parlare.”.
La capacità di saltare da un personaggio all’altro con assoluta lievità è una delle tante qualità di cotesto narratore, il quale dimostra di avere sempre la storia in punta di dita. E il passaggio dall’uno all’altro è così armonioso che il lettore non avverte alcuna cesura.
Dopo l’impresario tocca di entrare in scena al poeta che abbiamo già incontrato di sfuggita in casa di Barbarina, Tito Leonzi, che era in cerca di raccomandazione per rappresentare una sua tragedia e l’aveva trovata in don Benedetto.
Vediamo come si prosegue.
Riceviamo questo segnale, di cui, come abbiamo visto in altre sue opere, l’autore ci fa grazia per metterci in ansia e in sospetto. Il giovane va a trovare Barbarina e la nonna Rosalia gli consegna la lettera di raccomandazione preparata da don Benedeeto e, nel farlo, si lascia scappare che quel gentile signore “ha forse qualche intenzione per Barbarina.”.
Ecco il segno: “Se la vecchia ci avesse badato, avrebbe visto a queste parole farsi più pallida del solito la faccia del comparello e più bianche le labbra.”.
La mano di Mastriani scivola a questo modo nello svolgimento delle sue storie, con una leggerezza saporosa che accarezza sempre la scrittura con cui ci intrattiene: “È necessario che diciamo qualche cosa su questo giovine, che è destinato a rappresentare una parte non secondaria nel dramma di via Portacarrese.”.
Pare di vedere già la scena finale, che può anche preludere ad una tonalità a forte tinte shakespeariane.
Tito e Barbarina sono legati dall’amicizia dei loro rispettivi padri che è durata fino alla loro morte. Il padre di Tito, violinista, avrebbe voluto che anche il figlio si dedicasse alla pratica dello strumento, ma questi era stato vinto soprattutto dall’ispirazione poetica: “Certo è che fra tutte le protuberanze questa del poetare, ed in generale questa dello ingegno, è la più funesta che Domineddio possa regalare ad una povera fronte umana. È meglio nascere con la disposizione a vendere trippe e baccalà.”.
Si delinea un quadro di vita bohemienne, a cui avrebbe volentieri messo mano il nostro grande Giacomo Puccini: “Avea scarne le guance e pallido il viso il siculo giovinetto; e, quando le ombre della sera cadevano sul mare, se ne andava soletto e molte volte pressoché digiuno di pane in riva al mare, e quivi, seduto sull’arena, guardava quell’antico fenomeno di tetra grandezza che sono le acque; e pensava… pensava… poetava.”.
Ciò che abbiamo pensato è vero: “Tito amava la comarella Barbarina.”.
È un amore senza avvenire? Non si sa. L’autore ci anticipa che la sua tragedia “Saffo”, fu rappresentata con successo e “si ripetette non poche sere”. Dunque, intanto, coglie questo trionfo, che lo rende più sicuro nel suo amore verso Barbarina.
Riguardo ai suoi meriti nel suonare il violino, siamo avvertiti: egli “vivea miseramente con la mamma sonando il paterno violino nelle orchestre di chiese e di teatro; ed era forse migliore poeta che sonatore di violino.”.
Ma Tito non ha il carattere docile che potrebbe immaginarsi per una persona che cresce negli stenti.
S’avvede dell’interesse accanito che don Benedetto ha per Barbarina e mette le mani avanti, con un altro avviso che il lettore dovrà tenere di conto. Gli dice “che, se per avventura ella abbia fatto nell’animo suo il bel proponimento di fare di Barbarina la sua ganza, può fare il suo testamento.”.
Questa minaccia spaventa il ricco pretendente, che non se l’aspettava, verso il quale Tito aveva anche aggiunto: “Una palla nel petto la mandiamo al seduttore delle nostre donne con la stessa facilità onde diamo una stretta di mano ad un amico.”.
Sarà lui l’assassino? Le premesse farebbero pensare di sì, o almeno questa è la strada su cui ci avvia Mastriani.
Così, per la passione che nutriva per la ballerina e a seguito delle esplicite minacce del giovane poeta don Benedetto si decide di menarla a nozze, che avvennero “Nell’ottobre dell’anno 1818”; “nella parrocchia di San Matteo e quella sera la chiesa era gremita di curiosi di cui ciascheduno fece i suoi commenti su gli sposi.”.

Il matrimonio fu, comunque, una sorpresa per Tito, che tutto si aspettava fuorché che Benedetto sposasse una fanciulla senza dote e di una tale miserevole condizione sociale: “Se Tito Leonzi non si gittò dal Ponte della Sanità fu perché avea dato al Fabbrichesi la sua tragedia, ed aspettava i trionfi della scena.”. Di questo ponte, costruito nel 1809, sapremo che era diventato il ponte dei disperati dal quale essi si gettavano a morire (“ebbe quasi ogni anno a registrare due o tre suicidii”): “Il ponte, com’è noto, fu opera di Gioacchino Murat, che nel breve suo regno fece di molte e buone cose, e moltissime altre avrebbe fatte se non fosse stato moschettato da Ferdinando I, per grazia di Dio e per disgrazia nostra, re del Regno delle Due Sicilie, e della povera Gerusalemme per soprammercato.”.
Col matrimonio, Barbarina cessa di calcare le scene per volontà dello sposo che non le fa mancare nulla di ciò che possa piacere ad una donna.
C’è già chi prevede la lite tra i due: “Ma c’è da scommettere che non passerà la luna di miele, e la sposina verrà in lite collo sposo.”.
Al lettore pare di avere la strada davanti dritta e spianata. Il triangolo si è formato e resta solo da assegnare le parti. Già immagina che Tito diventi l’amante di Barbarina e che si compia dai due il delitto. Oppure che don Benedetto continue le sue scappatelle e trascuri la sposa finché non lo uccida la vendetta del giovane Tito sempre più innamorato. Oppure che sia don Benedetto a uccidere la sua sposa e il suo amante.
Troppo facile? E perché no? Tutto sembra doversi risolvere all’interno di questo triangolo (fate, però, attenzione a non cadere nei trabocchetti che l’autore semina qua e là), ma intanto ciò che vale è il gusto che si prova per l’architettura semplice e lineare costruita con la saporosa arte di una scrittura ben amalgamata con il popolo: ridanciano ma sospettoso, crasso ma astuto, focoso ma vigile e previdente.
Ed ecco arrivare un altro segno, lasciatoci semplicemente in un inciso. Sarà una delle trappole?: “Un anno era appena trascorso da questa sera del banchetto, e Barbara Castigli, la moglie del cavaliere don Benedetto Sabini, sedeva su lo sgabello dei re nell’aula della Gran Corte Criminale di Napoli, alla presenza di quel giudice della Gran Corte, il quale era stato seduto quella sera alla cena delle nozze.”.
Una domanda sorge spontanea. Perché Mastriani ci dà certi segni? Vi è una spiegazione possibile, che è quella che egli conti sulle sue qualità di abile narratore, così che il lettore non sarà mai sprovveduto d’interesse. L’arte nativa e l’esperienza del mestiere gli danno, ovviamente, una tale sorridente e astuta sicurezza. Egli è un sarto sopraffino capace di cucire un vestito addosso al lettore senza neppure prenderne le misure. Sa quel che fa.
E Tito? Voleva gettarsi dal Ponte della Sanità, a far compagnia ai suoi predecessori: “Per il disperato, l’ignoto della morte è meno terribile del noto della vita.”. Lo distoglie dal tragico proposito il suono di una campana: “Poi lentamente si allontanò da quel sito funesto, che era stato per lui una terribile tentazione; e cominciò a ridiscendere la strada.”.
Mentre sta camminando incontra Giacinto Acimulo, un amico di infanzia, che si era traferito a Napoli, pure lui amico di infanzia di Barbarina, e lo mette al corrente dell’accaduto e del suo proposito di suicidio. Giacinto si adopera per ridonargli il buon umore e scuoterlo da quella profonda e pericolosa tristezza. Vuole incontrare Barbarina, che non vede da anni.
Ahi, ahi! si dirà il lettore: Ora abbiamo il terzo incomodo. Sarà lui il nuovo amante di Barbarina?
Ä– la conferma che Mastriani è padrone della scena e sa attirarci nelle sue trappole. Certamente sorride mentre ci apparecchia le sue sorprese. Credevi, sembra dirci, di aver spianata la strada? Ebbene, ora eccoti quest’altro seme che ti spronerà ancora di più a seguire la mia storia. Mettiti comodo, sembra sorriderci maliziosamente, e continua a leggere, che le sorprese, vedrai, non sono finite. Abbi fede nel tuo burattinaio.
Ci troviamo in presenza di un’altra curiosità, o meglio di una notizia storica: piccole gemme che ingentiliscono e impreziosiscono il romanzo: “Come curiosità storica notiamo che il re stanco di regno [Ferdinando IV], aveva affidato le cure dello stato al suo dilettissimo primogenito don Francesco, duca di Calabria, che aveva assunto il titolo di Vicario generale.
Il principe Francesco, duca di Calabria, aveva una strana consuetudine, che egli continuò nel breve suo regno.
Pranzava a mezzogiorno preciso; e, appresso al desinare, si coricava, e non si alzava prima delle due ore di notte; andava al teatro e restava in casa fino alle undici della sera; e verso la mezzanotte cominciava ad occuparsi delle cose del regno; per modo che i Consigli Stato si teneano dalla mezzanotte in poi e i ministri e tutti gli uffici pubblici erano aperti nel cuore della notte; e gli impiegati governativi non andavano a letto che verso le otto o le nove del mattino.”.

La tragedia scritta da Tito ha successo, rappresentata in presenza della Real Casa e di molta aristocrazia. Si noti che il successo è misurato, come è accaduto in tutti i tempi e accade tuttora, dalla commozione che l’opera riesce a suscitare nel pubblico. Più lacrime si versano e più si presume che l’opera abbia delle qualità.
Tornando al matrimonio di Barbarina, l’autore ci dà notizia di un’altra usanza, che oggi appare davvero curiosa per non dire crudele: “Ma, ‘in illo tempore’, quando viveva mia nonna, le cose non si facevano così a dirupo; e la sposa non se ne scappava dalla città, ma stavasene rinchiusa otto giorni in casa; e per lo più non usciva neppure dalla stanza coniugale, avendo quasi vergogna di farsi vedere dai suoi stessi parenti.”.
S’usava pure dare alla sposa un Cavalier servente con il quale uscisse a passeggiare in assenza del marito. Di solito un parente, ma poiché Barbarina non ne aveva, don Benedetto le suggerì di nominare a quell’incarico il giovane messinese, suo compagno d’infanzia, Tito Leonzio, che egli crede uno sprovveduto. Barbarina fa le viste di essere scontenta di andare in giro a braccetto di un giovane, e don Benedetto invece, da sciocco, insiste, non sapendo che con ciò fa il gioco della furba sposa.
Annota Mastriani: “Noi non crediamo a quel Dio di bronzo che si chiama ‘il destino’ e lo abbiamo detto mille volte; crediamo invece all’alta sapienza divina che regola tutte le umane cose. Ma pur ciò nondimeno avvengono di tali cose nel mondo le quali si potrebbero a ragione addimandare ‘fatali’. Come si spiega, verbigrazia, che un marito si ostini a rendere accetta alla moglie una persona che dovrà poi cagionare la sua disgrazia?”.
E ci dà con questo un altro segnale. Veritiero o ingannevole?
Il lettore già si arrovella a fabbricare da sé la conclusione della storia. Una specie di gioco che gli è posto davanti, come quelle figurine di mosaico che devono essere incastonate l’una all’altra per formare il disegno complessivo, ed ora si prova una figurina, ora se ne prova un’altra, finché tutto non si aggiusti.
Ti sarai accorto, caro lettore, che così sto facendo pure io con questa lettura che mi piace proprio per il gioco che vi sta nascosto e che sta prendendo i suoi colori, divertendomi ancora di più.
La tragedia “Saffo” composta da Tito, che ebbe grande successo e procurò commozione in tutti gli spettatori e massimamente in Barbarina, ha nel romanzo la stessa funzione che ebbe la storia di Lancillotto e Ginevra nell’infiammare i cuori di Paolo e Francesca, di dantesca memoria.
Barbarina fu contenta di avere come Cavalier servente (detto anche ‘Bracciere’) il giovane artista.
A mettere gallo al poeta, è anche questa frase detta da Barbarina a Tito, loro due rimasti soli a tavola, a riguardo del marito che se n’era andato a letto: “Un marito, e sia di quella specie, è sempre un vescicatorio sul petto.”.
Allo stupore di Tito, così completa il quadro: “Si vede che sei poeta, ragazzo mio! E tu pensi che io abbia sposato per amore quel bufalone? Gli faccio, è vero, moine e carezze per dargli a credere che io muoia per lui; ma questo io fo soltanto per carpirgli il più che posso denaruzzi e gioielli, e perché mi sta a cuore di far passare una comoda vecchiaia a questa mia buona e affezionata nonna, che mi vuol tanto bene. Ma, in quanto al resto, io respiro più liberamente quando non ho su lo stomaco questo gastigo di Dio, che non sa parlare d’altro che dei suoi becchi, dei suoi maiali e del granturco e dei fagioli e delle fave e delli stomatici di Bari e dei vini di Bitonto e di Molfetta! Quanto è antipatico, Gesù Cristo mio!…”.
Ce n’è d’avanzo per farsi un’idea della furba e spregiudicata sposa, che già abbiamo paragonato a una faina.
In un attimo si mangia in un solo boccone l’innamorato poeta, e già ci dà l’idea che potrà manovrarlo a suo piacimento.
Leggendo le opere di Mastriani, e il lettore ci ha potuto seguire in quelle che già gli abbiamo offerto, si ha solo una piccola idea della varietà dei personaggi che egli riesce a creare, tutti perfetti, aiutati in questo, oltre che dalle appropriate descrizioni, anche dalla parlantina, diversificata a seconda del soggetto da mettere in scena, che l’autore riesce a tingere dei giusti colori, si tratti di commedia o di tragedia.
Giacinto, ad esempio, vi appare presto, con il suo allegro ed estroso carattere, come il pagliaccetto di corte che tiene di buon umore e risolleva dalla tristezza il nostro debole poeta.
Pare di vederlo coperto di un abito da paggetto e con un cappello dai sonaglini vibranti.
Quando Tito gli dice che ha baciato Barbarina, in un impeto di passione provocato dal troppo vino, ed ora si vergogna di incontrarla di nuovo, lui lo incoraggia a non fare lo stupido e gli dice che ha sbagliato fuggendo subito dopo dalla donna, che invece si aspettava ben altro da lui. Gli ha offerto di essere il suo Cavalier servente e lui si sente in imbarazzo? Ebbene accetti o sarà lui, Giacinto, a offrirsi al suo posto.
Tito però lo raffronta a Mefistofele, immaginandosi qualche cattivo tiro da parte sua nei riguardi di Barbarina, che pure lui conosce sin dall’infanzia.
Vuol forse soffiargliela ora che Giacinto ha chiesto di volerlo accompagnare a far visita alla giovane sposa?
Nell’introdurre un nuovo personaggio, che andremo a conoscere meglio, e dall’apparenza di un ricco cafone, ci dà questa informazione a proposito di un paesino, Sava, situato in “Terra di Otranto”, da dove questi proviene. A Sava “è la costumanza di seppellire i morti appena un’ora dopo che sono ‘apparentemente’ spirati; e diciamo ‘apparentemente’ dappoiché non è possibile che dopo un’ora si sia certi della morte reale di un uomo. Per lo che noi pensiamo che 99 su 100 sepolti nella pretura di Sava in terra d’Otranto siano ‘sepolti vivi’; in guisa che il cimitero di colà può dirsi veramente il ‘campo scellerato’.
Come conseguenza di questa amena costumanza, la famiglia di un infermo si affretta a fargli costruire la cassa mortuaria qualche giorno o parecchie ore prima che spiri l’anima o si supponga così. E il più delle volte egli avviene che l’infermo guarisce; e, dacché la cassa mortuaria si trova già bella e fatta, la si conserva per quando dovrà servire; e l’uso vuole che si tenga sotto il letto, ad imitazione di un antico re di Spagna e della vivente attrice francese Sarah Bernhardt.”.

Ma chi è questo rozzo individuo apparso in casa di Barbarina? Un compare di don Benedetto, una specie di parente. Il suo nome? Pippo Gnuoccolo.
Benedetto arriva a casa e trova il compare, la cui cafonaggine esce magnificamente descritta dalla conversazione tra i due. A Benedetto viene subito in mente che quello potrebbe essere il Cavalier servente per la sua mogliettina, che vuol far conoscere al compare, il quale segue Benedetto: “Don Benedetto andò innanzi, e il cittadino di Sava appresso, lasciando dietro ai suoi passi orme di fango su i tappeti che correvano per tutti i pavimenti.”.
Il bello è che subito dopo arrivano anche Tito e l’amico Giacinto.
Il primo era vestito come piaceva a Barbarina, ma il secondo leggete come Mastriani lo descrive: “Il suo amico Giacinto era vestito in un modo che non si potea far di meno di ridere nel guardarlo: portava un giubbone a coda di rondine con un bavero che gli copriva interamente la parte posteriore del capo. Un corpetto bianco gli scendeva insino all’ombelico, e una cravatta di seta color giallo-cromo era il bastimento sul quale si rizzavano due alte vele, ed erano i colletti della camicia. Un fazzoletto di seta color sangue di porco gli spenzolava addietro pendente da una delle tasche del giubbone.”.
Non vi pare di vederci il Grillo parlante del cartone animato di Walt Disney, “Pinocchio”?
Ma a fare il Cavalier servente è scelto il poeta, il quale è invitato a restare a cena, mentre Giacinto già se n’era andato dopo una lite col cafone di Otranto. Barbarina, nell’accompagnarsi a Tito per andare a tavola, gli sussurra: “Pure, quell’originale di Giacinto mi piaceva. L’avrei tanto volentieri fatto rimanere a cena.”. L’autore aggiunge: “Tito impallidì.”.
Che cosa ha in mente Mastriani e quel don Pippo comparso all’improvviso a quale ruolo è destinato? Si noti che tanto don Pippo che Giacinto sono entrati in scena come personaggi portatori di una certa comicità, peraltro ben rappresentata, che ci ricorda che Mastriani fu anche autore di commedie esilaranti.
Uscita in carrozza con seduto a fianco Tito, tutto intimidito, Barbarina è felice perché avverte di essere ammirata lungo il corso della “Favorita”, dove si davano convegno le dame, in gara tra loro: “Ed era veramente bella questa diavolessa di Barbarina! E la sua beltà era rialzata non tanto dalla pomposa acconciatura, la quale pei tempi nostri sarebbe goffissima, quanto dalla contentezza che le brillava in quei grandi occhi neri per la umiliazione che essa infliggeva alle sue ex compagne che in modesti ‘equipaggi’ erano menate dai loro amanti al passeggio.”.
Non dimentichiamoci di apprezzare la carezzevole scrittura dell’autore, che in questa immagine del passeggio in carrozza ci rammenta autori francesi come Stendhal e Maupassant. Da ammirare il dialogo tra il timido Tito e la civettuola Barbarina, con ciò degna di entrare nei migliori ritratti dipinti dal Mastriani.
Anche Benedetto, da parte sua, non sta fermo; donnaiolo com’è, s’è stancato della moglie e così mette gli occhi sulla cameriera di Barbarina, Antonetta. Leggete come giustifica il corteggiamento alla ragazza, che si mostra timida e sorpresa ma ne sa più del diavolo: “Le farfallette non vanno a baciare sempre lo stesso fiore, ma svolazzano su per i prati, e libano essenze da questo o da quel fiore, secondo che lor prende vaghezza. Piace la varietà.” (la farfalletta, ovviamente, è don Benedetto).
Pare di assistere a una commedia del Goldoni.
Ed ecco che cos’è la donna pel Mariani: “C’era una volta un diavolo nello inferno che era il più infame di tutti i diavoli; e questo diavolo fu spedito nel nostro buono mondo per far dannare tutti gli uomini. E sapete, graziose mie leggitrici, come si chiama questo demonio che ora si trova su la terra? si chiama la ‘Donna’!”.
E allora? Allora “Noi vogliamo dare un consiglio alle signore mogli che voglion vivere sicure su la fedeltà dei loro mariti. Il consiglio è il seguente: Chiudeteli a chiave in una stanza; e fate che non escano mai e badate che in quella stanza non abbia ad entrare nessun individuo del vostro sesso che non abbia ancora valicata la sessantina.”.

Ma Antonetta non gli basta, e conosce e frequenta un’altra donna, che riesce a irretirlo, Fortunata.
È una di quelle donne che vivono in “’quelle case oneste’, in cui il marito esce all’alba, e non rientra che dopo la mezzanotte, e sempre che torna a casa non manca mai di avvertire del suo ritorno la moglie, facendo giù dal portoncino un fischio acuto che la moglie conosce.”.
Fortunata andava verso 35, 40 anni: “C’era del giovanile ancora nella sua bellezza delle forme e nel colore dei capelli in cui non avresti trovato un solo filo d’argento; ma la maturità cominciava ad alzarsi nelle grinze che ne solcavano la fronte ed il viso, il cui colore era quello della lisciva. Le labbra avea bianche e grossolane, Ma i denti li avea tutti e nitidi. Sulla fossetta del mento era un neo. Tutto compreso, donna Fortunata quando si pettinava e acconciava, era ancora piacente, benché il suo linguaggio fosse quello di una pedina da trio, e non sapesse aprire la bocca senza mandare a lippa qualcheduno.”.
E qui sovviene Fellini.
Il marito, don Ciccio Mitraglia (“brutto come la mala notte; ed avea la guardatura del lupo”), esercitava fittiziamente il mestiere di sensale (“ma esercitava questo mestiero in un’ampia significazione.”).
La casa si trova “nel vico ‘Storto Concezione Montecalvario’.”.
Montecalvario, con la via Portacarrese del titolo, diventa a poco a poco la strada del destino di questo romanzo, nel quale le attaccature (legate al tipo in voga di pubblicazione a puntate) sono sensibili ed evidenti, ma il modo pregevole in cui sono riprodotte le fanno apparire come anelli di una solida catena.
Torniamo ad Antonetta, la quale ci sapeva fare col padrone, e in più odiava nascostamente sia Barbarina che il suo Cavalier servente, che non si mostravano molto generosi con lei. La corte che le faceva don Benedetto era una fortuna che non si sarebbe aspettata. Farsela fuggire? Giammai.
La donna in questo romanzo assume i connotati di una astuta padrona delle azioni e dei pensieri degli uomini. Antonetta, al pari della padrona, si muove sulla scena con l’agilità e la sicurezza dei campioni nelle tenzoni d’amore. L’una, circuito Tito bellamente, lo fa cadere ai suoi piedi e questi le manifesta con un incandescente fiume di parole la sua passione. L’altra, Antonetta, gioca al gatto e al topo con don Benedetto, al quale, debole per le gonnelle, qualunque donna era in grado di far girare la testa, figuriamoci lei che gli girava in casa tutto il giorno.
Ma tutte le donne, anche quelle che seguiranno, sembrano formare insieme una donna sola, regina e padrona degli uomini.
Si volge al meglio anche l’intoppo che capita all’Antonetta, essendo stata cacciata dalla sospettosa Barbarina. Don Benedetto le propone di affittare una stanza tutta per lei presso una casa di cui la Fortunata e il don Ciccio che abbiamo conosciuti erano i tenutari per i convegni d’amore: “… quest’oggi io torrò in affitto una stanza per te e ci potrai stare fino al giorno che ti mariterai. Converrò con donna Fortunata che ti dia anche il pranzo e la cena, tutto a mie spese. E quando ne andrai a marito ti farò pure una discreta dote.”.
Tutto procede a puntino per Antonetta (non durerà molto, però, secondo il vezzo del cavaliere, che si stancava presto delle donne, una volta conquistate), ma non per Barbarina, poiché don Benedetto l’ha sorpresa con Tito, e ha proibito a costui di frequentare la sua casa. In seguito a ciò, Don Benedetto pensa di separarsi dalla sposa.
Don Benedetto nel frequentare la casa di Fortunata sente parlare di una certa Rosina Cataldi, avellinese “che si dicea di maravigliosa bellezza” e chiede a don Ciccio, il ‘sensale’, di fargliela conoscere.
Il galletto si è messo di nuovo a caccia, come si prevedeva. Tanto più che don Ciccio gli dice: “Uh! signor cavaliere, bisogna vederla, una gioia di figlia, diciassette anni, fresca e colorita come una rosa di maggio.”.
Però ha già un amante: un ufficiale tedesco “brutto come un rospo. Io sono sicuro che quando la Rosina avrà veduto voi, andrà pazza di voi; e manderà al paese il tedesco.”.
L’incontro avviene con soddisfazione del cavaliere: “Per lo che lasceremo in tutta libertà quei due personaggi di sesso diverso i quali naturalmente dovettero rimanere soddisfatti e contentini l’uno dell’altro.”.
Ma presto si ha un altro incontro, e proprio in casa di Rosina, dove il capitano tedesco sorprende, rinchiuso nell’armadio, il nostro cavaliere don Benedetto.
La conversazione che si ha tra i due è godibile per quell’italiano tedeschizzato del militare, e il lettore si ricorderà con ciò, che l’autore conosceva ben cinque lingue e le padroneggiava anche nello storpiarle a fini comici.
Non v’è altra via di fuga per don Benedetto se non quella di trasferire in un’altra casa Rosina, di modo che il capitano non l’avesse più a trovare al solito indirizzo.
Ne fa le spese Antonetta, poiché viene scacciata dalla sua stanza e sostituita con la bella Rosina.
Ci sembra di vivere quelle situazioni amorose che divertivano i francesi nel diciottesimo secolo.
Tornato a casa dalla sua dolce Barbarina, la trova nella stessa situazione in cui, dal tedesco, era stato trovato lui con Rosina, ossia la trova in camera con il poeta.
È la goccia che fa traboccare il vaso, e i due si separano di comune accordo e Barbarina andrà ad abitare altrove.
A riguardo dei pettegolezzi che si levarono in quell’occasione, Mastriani fa questa sottolineatura che vale anche oggi: “Questo modo di uccidere civilmente il prossimo è uno dei privilegi conceduti all’uomo. Eppure troviamo nelle Sacre Scritture che Domineddio ‘perseguiterà’ i maledici fino alla terza generazione!”.

Ed eccoci all’approssimarsi della fine. Rosina finisce per essere trasferita in un appartamentino tutto suo. E dove? In via Portacarrese a Montecalvario, che è la strada del titolo e dove si compie il delitto.
Chi sarà destinato a morire? Don Benedetto? Rosina? Il tedesco? Barbarina? Tito? Tutto è possibile.
Il romanzo ci ha portato in giro per tante strade e casupole di una Napoli popolana, ed ora esse pigliano una sola e unica, e definitiva, direzione: la strada e la casa dove si commetterà il delitto: “Ad onor del vero dobbiamo dire che la Cataldi [Rosina], stabilita nella sua novella dimora, non lasciò parlare di sé i vicini perciocché mai non si mettesse alla finestra né in altro modo si lasciasse vedere.”.
Però occorre vigilare attentamente affinché la Rosina non ne faccia una delle sue, coll’attrarre in casa qualche altro amante, poiché in quel caso, la polizia, secondo le leggi del tempo, avrebbe arrestato don Benedetto quale “tenitore di casa illecita”, ossia di un bordello: “Questa minaccia spaventò siffattamente il nostro barese che raddoppiò le spie e la vigilanza sulla donna da lui sequestrata in via Portacarrese.”.
Ci pare di avvertire già l’odore del delitto.
Sappiano che la storia è stata ricavata da un fatto di cronaca realmente accaduto e ci si figura che i lettori di quel tempo, essendone stati a conoscenza, avessero meno dubbi di noi lettori di cent’anni dopo, che i fatti li apprendiamo ora e solamente dall’opera del Mastriani, ma la lettura deve essere stata avvincente anche allora, allo stesso modo e con la stessa intensità e la stessa curiosità che si son mantenute fino ai nostri giorni.
Abbiamo ora trascorso l’8 dicembre, tanto pieno di avvenimenti, e giungiamo ai primi dell’anno 1819, ed esattamente a sabato 9 gennaio.
Don Benedetto incontra uno sconosciuto il quale l’avverte che la sua vita è in pericolo, poiché la moglie Barbarina gli ha teso un agguato, e gli consiglia perciò di astenersi dall’andare in giro di notte.
Il motivo glielo spiega il rozzo amico che abbiamo già conosciuto, Pippo Gnuoccolo, “che avea fino il cervello e grossolane le suole delle scarpe”. Si tratta di questo. Tito Leonzio è diventato straricco per una eredità venutagli dall’America, precisamente dalla città di Boston, da parte di un prozio defunto senza altri eredi, e dunque lui, don Benedetto, costituiva un ostacolo per Barbarina, che s’era messa in testa di sposare con regolare matrimonio il suo innamorato. E ciò poteva succedere, gli chiarisce l’amico, solo con la morte di Benedetto (che era da lei “confidenzialmente separato”).
Ci si appressa al delitto, dunque: “Su quel vico non passava a quella ora persona viva; e le botteghe erano quasi tutte chiuse, vuoi per l’ora tarda, vuoi pel freddo.”.
Il lettore leggerà da sé come avvenne il delitto, che fu in strada, una volta che il cavaliere fu sceso dalla casa della sua Rosina, e le altre cose che seguirono del processo che vede accusati (ci sarà un colpo di scena) Barbarina e il suo innamorato Tito Leonzi, “che durò per oltre un mese”, raccontate in uno stile trascinante e risolutivo. Oltre che preciso nel rapportarci fasi e dettagli del medesimo, quali potrebbero uscire dalla penna di un cancelliere di tribunale. Noi ci limitiamo a dire che fa meraviglia quanto un semplice fatto di cronaca possa ispirare la fantasia di un sensibile narratore.
In una specie di elogio funebre che l’autore indirizza alla vittima, nel far presente che ai defunti, soprattutto quelli in giovane età e di morte violenta, si deve cancellare ogni macchia, poiché tale è la loro espiazione voluta da Dio, aggiunge, con riferimento alla concupiscenza nei confronti delle donne: “… scagli pure la prima pietra chiunque si senta mondo di tali peccati. Ed ecco che i lapidatori svaniscono. Gli stessi Santi che la Chiesa cattolica venera in su gli altari non andarono immuni di questi peccati, od almeno furono in tutta la loro vita molestati da queste violente tentazioni della prepotente natura; in guisa che della castità nessun uomo può darsi vanto, imperciocché questa preziosa virtù non è che un dono particolare del cielo.”.


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A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart