LETTERATURA: I MAESTRI: Aldo Palazzeschi: Stefanino23 Giugno 2018 di Geno Pampaloni Nella nebbia di una rigida alba d’inverno un involu cro rosa fu depositato da ma no ignota sui gradini del Pa lazzo comunale, e un altissi mo strillo ruppe il deserto si lenzio di quell’ora anteluca na; ma la naturale pigrizia, favorita dal tepore delle col tri, fece sì che non un solo cittadino si affacciasse a ve dere cosa accadeva, e l’even to rimase misterioso a ecci tare la fantasia della gente. A poco a poco tuttavia la ve rità cominciò a filtrare at traverso la criticatissima re ticenza dell’Autorità. In quel fagotto rosa era ravvolto un neonato dalla voce robusta, con accanto un poppatoio di latte e un elegante biglietto ove era scritto in oro il no me di STEFANINO. A questo punto altri interrogativi incal zano. Chi era Stefanino? Per ché ogni legittima curiosità era elusa? Dove veniva alleva to, come e da chi? Qual era mai la ragione di tanto se greto? Dovranno passare ven ti anni perché finalmente, quando Stefanino è già uomo, la risposta sia data con chia rezza. Una commissione a ciò delegata dal sindaco testimonia ufficialmente che Stefa nino ha bell’aspetto, bellissi ma voce, pronto ingegno, ma, ma, ma è fatto in modo che « laddove gli altri uomini nel fondo dell’addome hanno quelle parti che formano il cosiddetto bacino del loro corpo », egli ha la testa; e viceversa, là dove tutti han no la testa, ha le pudenda. Quando si seppe, in giro, l’argomento di questo roman zo che Aldo Palazzeschi scri veva a 84 anni (Stefanino, ed. Mondadori, pp. 184, lire 2000) ci si chiese, quasi stuz zicati dalla sorprendente trouvaille, che mai non avrebbe tirato fuori uno scrittore co me lui dall’invenzione bizzar ra di quello scambio di po sto, in un uomo, tra testa e sesso. Bisogna dire che, con raffinata malizia, dal punto di vista più facile il Palazzeschi ci dà ben poca soddisfa zione. Sul piano del diverti mento, del doppio senso, della trasposizione sessuale, il giuo co è assai misurato. Stefani no non è un romanzo di quel li che una volta si leggevano sotto il banco. Si direbbe anzi che lo scrittore faccia di tut to per ricondurre il suo per sonaggio nella normalità. Lo « scandalo » fisiologico, pur conservando una sua inalte rabile gaiezza, si volge a una musica che ha un sottofondo grave, sottintesi severi. Nel suo scherzoso balletto di non-sense, anche questo è uno scandalo che, cristianamente, doveva avvenire. E proprio qui io cercherei le differenze più significative (a parte una minore intensità e sicurezza di scrittura) con i famosi ro manzi giovanili, nel cui stam po sono stati foggiati, a di stanza di tanti anni, i due più recenti libri dello scrit tore. * Stefanino ha una partitu ra musicalmente e tematica mente scandita in tre tempi. Nel primo, che appare il me no riuscito, è alla ribalta la psicologia della folla, pigra ed esigente, credula e curiosis sima, demagogica per ambi zione e gregaria per destino. Come già nel Doge (1967) il Palazzeschi tende alla celebra zione del « buffo di massa », senza qui riuscire del tutto a quell’impasto variegato di più livelli linguistici, a quella fa volosità della « ciàcola » che là trovava naturale spazio nel l’immagine di Venezia. Quando dipinge, per dir così, i fondali delle sue storie, la sua sintassi attuale accen tua due interni movimenti contraddittori. Da un lato la sua lingua è tutta tesa al superlativo, spinge al limi te, semplificandole all’estre mo e sino all’assurdo, situazio ni e definizioni; dall’altro lato le sue capricciose argomenta zioni (parodia di referto sto rico) sono impacciate dalla loro stessa libertà, che agglo mera subordinate e gerundi in un’allegra e personalis sima paratassi; sì che il ri sultato è composito, quasi un colorito bazar visitato su una tolda ondeggiante, che dà il mal di mare. Il secondo tempo, il più armonioso e artisticamente felice, è segnato dall’assem blea nella quale i dieci della commissione riferiscono al po polo i risultati dei loro scru polosi accertamenti su Ste fanino. Sono pagine che richiamano i grandi quadri ani mati (processi, balli, feste) di cui il Palazzeschi, dal Co dice di Perelà ai Fratelli Cuccoli, si è sempre rivelato maestro; e precisano con sa piente insinuazione il tema di fondo, lo « scandalo ». Il terzo tempo infine narra le avventure di Stefanino: la presentazione alla folla in piazza, completamente vela to, sull’alto di un camion tappezzato di rosso e oro, quando canta con voce me lodiosa e toccante l’Ave Ma ria di Gounod; il concerto promesso e poi sine die rinviato; la residenza nel castel lo di Ripafratta, mèta di de sideri, sogni, « imitazioni », in uno spasmodico incontrolla bile transfert collettivo; il suo insolente colloquio con il sin daco; sino all’assalto finale che chiude il libro in bellez za e lo riporta, a grande or chestra, ai temi modulati al l’inizio: con la folla che, tra volta ogni difesa, irrompe nel castello, come di stanza in stanza attratta dalla sonora incantevole voce, e si trova d’un tratto davanti non Ste fanino ma un gigantesco grammofono, e fugge diso rientata e sconvolta tra l’e cheggiare delle potenti roman ze del Trovatore, come se quella delusione, la scompar sa del « mostro » adorato, avesse il significato di una catastrofe, di un’apocalisse (« credendo fosse scoppiata la rivoluzione »). A me sembra dunque che in Stefanino sia possibile individuare una sorta di itinera rio e approfondimento tema tico; dal più facile divertimento iniziale fondato sul pettegolezzo collettivo, sino al le pagine ove penetra addirittura l’ombra del potere, e il mondo dei « buffi » è per corso da un raggelante brivi do di prossimità con la Sto ria. Per questo Palazzeschi, l’ultima monelleria è quella di giuocare a rimpiattino con la serietà della vita. Sempre, e specie nel periodo giovani le, lo scrittore libertario aveva posto la sua irriverenza al contrasto con le istituzioni borghesi. Ma se Perelà era personaggio di fantasia simbolica, Stefanino è personag gio di fantasia allusiva. Se il primo era campione di una li bertà in assoluto, lieta e lie ve anche nella malinconia, invincibile perché fuori della storia, il secondo è il campione di una libertà che comin cia a misurare i suoi diritti. Dice Stefanino all’untuoso sindaco che, perse le staffe di fronte alla sua insolenza, minaccia di farlo uccidere: « sopprimere una persona, una sola e piccolissima per sona è la cosa più difficile che ci sia, e quando ti do vesse capitare una simile di sgrazia uccidine immediata mente un’altra, due, tre, al tre dieci meglio ancora, e meglio ancora se cinquan ta o centomila, non ti ca piti nulla, solo di intitolare, con una lapide od una ste le, una piazza od una via alla loro memoria: (..) ma uno te lo sconsiglio nella forma più precisa perché non la faranno più finita ». E questo, oltre che uno sber leffo di filosofia politica adatto a tempi totalitari, suo na come un atto di fede. La contestazione di Perelà alla società era metafisica, si proiettava nella perfezione di una libertà assoluta; quella di Stefanino è per così dire se colarizzata; egli con un pie de sta nel giuoco allegro del le metafore, con l’altro sta nel campo delle vittime, degli esclusi. Nello scandalo del « mostro », sotto le clausole ridanciane, si nasconde una piega amara. Durante l’as semblea, un omone alto due metri, popolano, si alza a chiedere che accadrebbe se lui, « normale », capitasse a vivere in un mondo di Ste fanini, e conclude : « Non è questione di averlo sopra o sotto, si tratta che la ragio ne è del più forte in ogni caso ». La franca brutalità della formula annuncia una protesta morale. E non per caso le più accanite nemiche di Stefanino, deliberate a farlo fuori senz’altro alla pri ma occasione, sono tre furie deformi e animalesche, la donna cannone, la donna tricheco dalle grandi zanne, e la donna che ha gli occhi fuori della testa come una rana pescatrice: i veri «mostri » del la non-carità, della società morta nella ipocrisia e nel l’odio, sono loro. * Di là dai rilievi che potrem mo fare sulla sua sfrangiata compagine che lo rende un po’ discontinuo e impreciso, il senso dei libro sta in questo inaspettato contributo di at tualità. Se il vecchio Aldo è davvero maestro dell’ avanguardia d’oggi, la sua lezio ne è questa volta pungente di carità. C’è una risolutezza ideologica nella struttura di Stefanino, questo «buffo » che intende rovesciare i rapporti tra «mostri » e «normali »; essa crea figurazioni improv vise, balenanti, dissolvenze misteriose e miraggi che ci riportano, sotto lo schermo dell’ironia, alla forza lirica dello scrittore; anche se non finiamo di rimpiangere la pu ra movenza fantastica, la ma liziosa pietà che più amiamo nel Palazzeschi maggiore.
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