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LETTERATURA: I MAESTRI: Marino Moretti

21 Giugno 2018

di Geno Pampaloni
[dal “Corriere della sera”, martedì 2 aprile 1968]

Con i Romanzi dell’amorino, volume quarto della serie ma uscito ora per sesto ed ultimo, si è conclusa la pubblicazione presso l’editore Mondadori delle Opere complete di Marino Moretti. Vi so ­no compresi Guenda (1918), bella né brutta (1921), I due fanciulli (1922), Anna degli elefanti (1937) e I co ­niugi Allori (1946): libri cioè di varie epoche e di diversa ispirazione, taluno lavorato e riscritto più volte dall’autore sino alla presente stesura de ­finitiva; sì che le date sopra indicate, che si riferiscono al ­le prime stesure, hanno un valore non assoluto. (Direi co ­munque che, come risultato d’arte, si va in crescendo).

Ma quanto alle date. Nelle Opere complete i romanzi, che sono 17 o 18 (a seconda che vi si includa o no il Doctor Mellifluus) e ne occupano più della metà, non sono ordinati cronologicamente, sibbene con criteri un po’ empirici, per non dire estrinseci. In un volume, Romanzi della mia ter ­ra, sono riuniti quelli proba ­bilmente ritenuti i maggiori, due della giovinezza e due della maturità; e vedremo poi come tale opinione possa essere aggiornata. Nel nostro volume, i cinque romanzi sono uniti dal legame, invero assai esile, del fiore dell’amorino, o reseda (« odore di erba più che di fiore, di frutto più che di fiore », secondo il D’An ­nunzio) che compare in tutti i cinque. Nel volume delle Poesie ce ne sono tre, di prosa più sottile e filata nella me ­moria, ridotti, o blasonati, co ­me « idilli in prosa ». Nel se ­sto volume infine sono acca ­tastati i rimanenti con il ti ­tolo, molto morettiano ma non certo criticamente esemplare, di Romanzi dal primo all’ul ­timo: da Il sole del sabato, che è del 1916, a La camera degli sposi che è del ’58.

Il modo più confidenziale che filologico con cui è or ­dinata la sua opera risponde ancora una volta al curioso giuoco a rimpiattino, un po’ malizioso, un po’ agrodolce, che ha sempre accompagnato i rapporti del Moretti con la critica. Non che il lavoro del ­lo scrittore non sia stato accompagnato e talora illuminato dai giudici letterari più au ­torevoli. Ma via via che l’ope ­ra veniva accompagnata e stretta dalle definizioni, ne rimaneva sempre fuori qualcosa che riluttava, che si sottraeva con una sorta di mite caparbietà a ogni tipo di con ­sacrazione.

Crepuscolare, romanziere della bontà, pascoliano, roma ­gnolo: sono altrettanti esem ­pi dei tentativi di cogliere in modo riassuntivo e proverbia ­le l’essenza dello scrittore; giu ­sti in parte, ma tutti ecce ­denti, o manchevoli o episo ­dici. Lo scrittore non stava mai a suo agio nei panni, peggio se di serie, che gli veni ­vano cuciti addosso. Donde un malessere, e quasi un di ­sagio di « incomunicabilità » con la società letteraria; ma anche, per contrappeso, il senso di una continua sorpre ­sa, di smentita o rivalsa, e in qualche caso di gentile sber ­leffo che il lungo esercizio letterario del Moretti non mancava via via di accredi ­tarsi. Proprio lui, che sembrava lo scrittore più docile al suo destino, più confitto nel suo calco originario, si rive ­lava al contrario insofferente   interrogativo, indipendente, e tutt’altro che disposto ad ab ­bandonare il dialogo con i tempi che pur velocemente mutavano, e, in una inarre ­stabile deriva, si allontanavano sempre di più dal porto-canale di Cesenatico da cui si era levata la sua prima fantasia di poeta. Le sorprese di Marino, sino a quella delle recenti poesie del Diario senza le date (1966) e, im ­magino, alle poesie che ha nel cassetto, non finiscono mai.

*

Per anni, sino alla prima guerra mondiale, egli era sta ­to, come fu detto, il « crepu ­scolare tipo », che aveva adot ­tato, con una buona dose di autoironia ma senza vera in ­sofferenza, una cultura senza passioni, era interprete di sen ­timenti dimessi, e trovava nel quotidiano più minuto la sua poesia, così come si sbriciola con la mano, sulla tovaglia ormai deserta, una mollica di pane. Per anni ancora, in se ­guito, era stato novelliere e romanziere di successo: si muoveva nel grande alveo na ­turalistico, portandovi di suo un più (e talora un troppo) di sentimento, di trepidazione e di realismo lievitato con grazia nello spirituale. Era questo il « primo tempo » del ­lo scrittore, che trovava la sua pienezza nel primo do ­poguerra (I puri di cuore, I due fanciulli). Il « secondo tempo » doveva fiorire molti anni più tardi, quasi alle so ­glie della seconda guerra, nel ­le pagine narrative più mali ­ziose e sbrigliate, ma intima ­mente irrobustite, che il Pancrazi felicemente definì come « allegretto »; e basti ricorda ­re quella straordinaria riuscita che è La vedova Fioravanti (1941).

Che cos’era dunque acca ­duto tra quel primo tempo e il secondo? Quale il segreto e i modi della trasformazione? Molto, del nuovo Moretti, veniva di lontano. Dietro il romanziere pascoliano della ri ­nuncia, del « mansueto » ab ­bandono al destino, c’era sin dalla gioventù un romanziere diverso, che potremo chiama ­re dell’intransigenza del sen ­timento. La nota dominante delle sue storie di « vinti » è il dolore non la rassegnazione; la misericordia che accompa ­gna i personaggi nel loro via ­tico non spegne l’orgoglio del ­la sofferenza; subiscono a den ­ti stretti le offese della vita e dell’ingiustizia con una disperata fedeltà a se stessi che è una forma silenziosa di resistenza. Il narratore naturali ­sta nel Moretti era interessato non alla franche de vie ma a storie d’anima, a storie, vorrei dire, di laica « salvezza ». Die ­tro lo scrittore patetico, delle « tenerezze di cartavelina » (Cecchi), c’era uno spirito vi ­gile, una coscienza acuminata e in certo senso ribelle.

Allo stesso modo, la formu ­la del Moretti poeta crepusco ­lare: « io non ho nulla da dire », non era soltanto una civetteria,     un     sottovoce     del « pettegolezzo » (Debenedetti) di cui il letterato si compia ­ceva, nell’ordine minore quin ­di del divertimento; ma era una definizione autentica e sofferta (pronunciata sull’esat ­to crinale tra Otto e Novecen ­to, nel nome del Pascoli e co ­me addio definitivo al D’An ­nunzio, e perciò storicamente significativa) dell’« uomo sen ­za qualità », ostinato e soli ­tario, mite e tetragono, inca ­pace di mercanteggiare i soc ­corsi mondani delle ideologie e delle retoriche.

Di codeste sue disposizioni, il Moretti stesso ha preso co ­scienza, come oggi possiamo vedere, per gradi. In realtà, ripercorrendo con la memo ­ria le strade del passato, come fece abbastanza presto, sui quarant’anni, egli svolgeva di fatto un’esperienza autocriti ­ca, arrivava a un’oggettivazione severa e anche dolorosa non solo della propria arte ma della propria idea di let ­teratura e di se stesso. Non esi ­tava a mettersi in crisi, non rifiutava gli insegnamenti del tempo, respingeva a suo modo il disimpegno spensierato dell’«entre deux guerres »; se non poteva mutare la propria natura, non vi si arroccò: non teorizzò la propria arte, ma se mai ne teorizzò la discutibilità storica e la solitudine.

*

Le tracce di un simile iti ­nerario si possono cogliere an ­che nei cinque Romanzi dell’amorino, che si stendono, co ­me si è detto, nell’arco di un trentennio. Guenda, l’unico romanzo d’amore del Moretti, che pur piacque al Papini del ­le « stroncature », appare oggi ottocentesco e invecchiato. Né bella né brutta ha molto belli i primi capitoli: il viaggio di nozze di una coppia senza amore, quando la sposina sen ­te con pudico egoismo di as ­saporare i suoi ultimi giorni di libertà. I due fanciulli è quel bel romanzo che molti ricorderanno, nell’intensa e pu ­ra commozione della sua sto ­ria di adolescenze turbate. An ­na degli elefanti è una delle più rilevate figure di donna della intera galleria morettiana. Sullo sfondo di una Mi ­lano borghese affettuosamente intuita, il destino di Anna precipita a scatti lievi in una assurda gimcana di amuleti sbagliati, e lo scrittore ve l’ac ­compagna con una singolare pietà resa crudele dall’impo ­tenza di entrambi: del perso ­naggio a vivere, dello scritto ­re a modificare il desolato tim ­bro delle esistenze deluse. E in tale contrappunto, segreto e quasi geloso, si afferma la poesia del romanzo.

Ma il libro più bello e nuo ­vo è senza dubbio I coniugi Allori, che, per essere uscito tra guerra e dopoguerra, è rimasto praticamente sconosciu ­to e sarà per molti una rivela ­zione. È la storia di due vecchietti un po’ palazzeschiani, ultraottantenni ma arzilli e freschi, i quali, costretti quasi alla miseria da un figlio illu ­stre e taccagno e da una strega di nuora, si ribellano come ra ­gazzi che si divertano a farla in barba al precettore. Sono vegliardi e discoli. La loro vi ­talità che non si arrende li ri ­porta non alla maturità ma al ­la monelleria. Presi nel vortice del loro minuetto di adole ­scenti per forza, persino la gelosia retrospettiva li infiamma e li separa; ma un senso quasi misterioso (ed è tratto di vera poesia) della gravità della vita e della solidarietà li riuni ­sce, prima che lui muoia e lei, vincitrice di molti milioni alla lotteria, si prepari tra l’ossequio dei parenti a un’ul ­tima gioiosa giovinezza. I co ­niugi Allori è un romanzo fe ­stoso e agro, ironico e di profonda liricità: un delicato grottesco si unisce a un’incalzante inventività e a una sorta di felice oltranza della fantasia. Sì che non esiterei a correg ­gere i giudizi correnti, e a mettere anche questo almeno alla pari con i libri più riu ­sciti del sorprendente Marino.

 

 


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Bart