LETTERATURA: I MAESTRI: Aldo Palazzeschi31 Ottobre 2017 di Claudio Marabini Si può forse giuocare con la realtà, farci sopra capriole, saltelli, balzi acrobatici; si possono forse anche spiccare salti sino a toccare la luna e tornare poi a terra pianamente e ricominciare a fare le cose di tutti i giorni, una dopo l’altra, restando a perfetto agio e in totale armonia con la realtà stessa. Ci si può divertire rispettando il mondo, divertire da morire: e dopo il divertimento conservare come un’impronta di gioia e di sbalordimento, di paura forse, o di mera viglia, mentre le giornate riprendono a scorrere col ritmo di sempre, uguali da secoli, ma capaci di subire di nuovo, alla prima felice e bizzarra occasione, la violenza di un altro giuoco, dello scatenarsi della pazzerella e sovrana fantasia. C’è una Venezia di sempre, una Venezia estiva e turistica, scin tillante nel sole, di notte punteggiata di luci multicolori e corsa da romantiche serenate, colma di stranieri stracarichi di valigie; una Venezia di piazza San Marco, in particolare, quella di tutti e del mondo intero, nota centimetro per centimetro, coi suoi piccioni, la basilica, la quadriga, i moretti che battono le ore, il palazzo ducale con la loggia eccetera. Ebbene: in questa Venezia comparirà il do ge, poi una bella mattina si saprà che è volata via la basilica, trasci nata – sembra – dalla quadriga stanca di aspettare (aspettava da se coli); mentre da un ciclo diurno divenuto nero come quello dell’apocalisse piovono valigie piene di panni sporchi e un altoparlante si sgola a raccomandare ai veneziani di non muoversi dalle case, sussistendo il tragico sospetto che le valigie siano piene di bombe! È l’ultimo romanzo di Palazzeschi: Il doge (Mondadori ’67) col quale è giocoforza incominciare il discorso sul Palazzeschi degli Anni Sessanta, il Palazzeschi, inoltre, del Buffo integrale (Mondadori ’66) e del più remoto Il piacere della memoria (Mondadori ’64). Nella straordinaria vicenda del Doge, tutto sembra filare liscio, senza incrinature; nessun veneziano, e neanche il lettore, osa chie dersi se si fa sul serio o per scherzo, perché ogni cosa pare plausi bile: in effetti a ciascuno di noi può venire in mente per un capric cio della fantasia o del sentimento, una bella mattina, che il doge, per un miracolo della sorte, sia ancora nel suo palazzo, il quale è in tatto ed ermeticamente chiuso, e possa affacciarsi alla loggia in barba al Tempo e alla Storia e annunciare qualcosa di straordinario: per esempio la rivoluzione, un nuovo ordine delle cose naturali e sociali. Al narratore bastano pochi elementi per far funzionare il congegno fia besco: un altoparlante che dia l’annuncio, una folla che corra nella piazzetta di Riva degli Schiavoni seguendo l’antico sentimento di venerazione, molte congetture e voci a non finire, e l’orologio che suoni il mezzogiorno fissato per l’appuntamento. In realtà il doge non si farà mai vedere, né il primo, né il se condo giorno. Il terzo sarà la folla a disertare delusa. Allora qualcuno dirà che il doge s’è proprio affacciato quel terzo giorno sulla piazza deserta: è stato visto con un cannocchiale, e aveva nientemeno che due donne al fianco. Chi l’ha visto? Il sindaco? Un monaco bene dettino dotto in astronomia? Una vecchia signora di nazionalità im precisata pazzamente innamorata di lui? Tornano a bollire le con getture, e la gente si riassiepa sotto la loggia. Chi, e perché, le due donne? Due mogli? Bigamia allora? E che vita conduce il doge nell’ermetico palazzo: vita ascetica, godereccia, oppure allestisce pre parativi di catastrofiche guerre? Il giuoco fiabesco continua. La fantasia è ormai in ballo: una sull’altra, a spirale, le trovate si sovrappongono. Si chiede il lettore: come se la caverà Palazzeschi? Sulla schematica scacchiera del con gegno seguita a muovere quelle sue pochissime pedine: la voce dell’altoparlante, l’enigmatico avvistamento, la psicologia della fol la. Le prime diremmo che siano fisse e meccaniche, come punti im mobili di riferimento in un’ideale topografia fantastica: sorta di ganci sicuri a cui appendere di volta in volta il tessuto della storia che viene nascendo; l’ultima invece offre il sottofondo alla storia e le da corpo in pagine corali spesso acute ed esilaranti, vere anche se appese a quell’altro gancio, di ben altra natura perché in tutto fiabesco, pazzerello ed aureo, della presenza del doge oggi. Col risul tato di assistere a una Venezia sbriciolata a settori, i pessimisti e gli ottimisti, i maligni e i fanatici, i chiacchieroni e i riflessivi, le donne e gli uomini… Una popolazione sezionata nella sua anima e nel mo mento preciso di una attesa che tutta la occupa e la paralizza. Potrà sciogliersi questo giuoco? Fino a che punto lo scrittore avrà la possibilità di protrarlo? Quale soluzione ha in tasca? Sono le domande maliziose, che accompagnano il lettore e che nascono dalla sensazione leggera eppur tenace che il giuoco sia giuoco sol tanto e che possa rotolare in qualche banalità o sfumare in una gra tuita bolla di sapone. Passano i giorni, le congetture potrebbero anche durare eterne: non è difficile alimentarle con l’altoparlante o con voci misteriose che fulmineamente solchino la città, trascinandole, per esempio, sul le cavillose disquisizioni intorno alla bigamia. Palazzeschi orchestra e conduce con estrema abilità questa sara banda sciogliendo, senza tuttavia dipanarla con troppa cura sintat tica, la matassa ingarbugliata della vociferazione, nella quale mo stra di saper penetrare e crogiolarsi a piacimento, girandosi e rigi randosi, si vorrebbe dire, come un divertito pulcino nel cotone, ma un pulcino dall’occhio bene attento a uscirne per riprendere il cam mino. E invece l’ultima capriola, quella più spericolata e imprevedibile anche dal più malizioso dei lettori: è partita la basilica! Vero o no? Nessuno ha visto, tutti sono chiusi in casa. Può essere suggestione collettiva, come quella per l’attesa del doge: come per i miracoli, del resto, per i quali è sempre pronta una spiegazione naturalistica. E il rombo vulcanico (siamo noi a insinuarlo), in quell’ora mattu tina balorda, forse un temporale o una formazione di aerei a rea zione… Poi il ciclo nero, le valigie sparse dappertutto, che sono poi le valigie dei turisti che se ne vanno (e qui il canovaccio, il lato cioè realistico del fatto, mostra la corda). Mentre il giorno dopo, essendo tutto tornato normale, e Venezia quella di sempre, la gente passerà sotto il palazzo ducale guardando su semplicemente, salutando nel suo cuore il doge, rendendogli l’omaggio di un affetto antico e ar cano, non importa se applicato a una persona in carne e ossa, oggi realmente esistente, forte come un toro, con una o due mogli, in tenta o meno ad ascetici o sardanapaleschi trattenimenti, o alla sua memoria soltanto, al sentimento che di lei è rimasto, pur dopo tanti secoli, nel cuore tenero, credulo e sognante dei veneziani… E qui il giuoco si sgonfia a terra, la favola è finita. Ma resta nel l’aria come un pulviscolo dorato, perché in realtà si sente che potrebbe ricominciare in ogni momento. Basta un nulla per Palazzeschi, e dal corpo sordo della realtà scatta la molla vertiginosa del fantastico e la vita si accende, come un palloncino colorato, di luce trasparente. Non è lecito infatti trarre nessuna allegoria, nessun ricavato morale. Il moralismo di Palazzeschi s’applica all’osservazione della psicologia della folla e basta, ed è semmai di natura puntuale e aforistica, non globale e metafisica. Da questa base in su tutto è in trasparenza e non esiste « altro » significato o « seconda » lettura. È giuoco, con tutti i rischi che il giuoco comporta, non solo di capi tomboli quanto d’amorale gratuità. Ma bisogna pur dire che se è lecito all’uomo giuocare, « diver tirsi », per usare un parola cara al Palazzeschi di sempre, cioè illu dersi e respirare nell’aria dei sogni, anche il giuoco di Palazzeschi è lecito e quella sua risulta, malgrado tutto, la realizzazione più lieve e suadente dell’armonia tra realtà e fantasia, tra il quotidiano e l’il lusione, che noi si conosca nella nostra moderna letteratura. Ed è proprio in questa atmosfera d’armonia – dove pur con tutta la pau ra dovuta al caso straordinario la folla veneziana si muove – che Pa lazzeschi può dare il suo meglio: sull’orlo estremo del giuoco per se stesso. C’è come un territorio, dato da Venezia città e dalla sua gente, che confina col nulla : da questo confine Palazzeschi opera, tendendo fili miracolosi tra una parte e l’altra. Venezia e i veneziani restano incredibilmente realistici e documentati; e il nulla è lì a portata di mano, concreto e tangibile, riempito delle nostre fantastiche illusioni. Sulla scena, reale e irreale al tempo stesso, il Tempo si è come fer mato. Palazzeschi, come gli artisti di pura fantasia, opera sul Pre sente. Il piacere di vivere, l’apoteosi del divertimento, il gusto della fantasia non conoscono il dolore della Memoria e del Passato. Il brivido, o la favilla che ci da la pagina di Palazzeschi, viene dalla bellezza dell’ora brevissima che stiamo vivendo. Ecco, infatti, quasi ad apertura di libro: “Ma il tempo, che durante l’accidia ci si presenta nel passare intol lerabilmente lungo, da parere eterno, diviene poi tutto il contrario una volta passato, tanto che sul finire di un’intera esistenza per lunga e tribolata che sia e sgangherata a tutta possa, ci appare un sogno, un sogno vago, fugacissimo e leggero, che possiamo definire un lampo, un soffio come quando si spenge la candela: pfu!, e per i veneziani, resta facile capirlo, era come non avessero veduto il Doge da qualche giorno. Ragione per cui alle nove di quella mattina la Riva degli Schiavoni già brulicava di popolo in attesa… “1 Questo senso del tempo viene ribadito più avanti e quasi con dotto a formulare una vera e propria poetica del Presente. Ed è quando, al secondo giorno della vicenda, attendendosi sempre l’ap parizione del doge, la gente s’accorge, o meglio sente, quanto si sia allontanata la giornata precedente, al punto quasi di essere cancel lata nel Passato, e il Passato ridotto a niente, svuotato, distrutto. Che significa di nuovo ribadire il valore esclusivo dell’ora che trascorre, come unica reale e tangibile, e della vita nella sua presente varietà, nel suo nascere e formarsi di momento in momento, in piena li bertà e fantasia, disancorata da se stessa e dal Tempo, da ciò che è stato e che in qualche modo potrebbe condizionarla, imponendole una linea già tracciata e vissuta. “Per modo che questa seconda giornata che alla gente sprovveduta e superficiale potrebbe apparire identica alla precedente, portava in sé tali elementi di novità e varietà rispetto a quella da non avere più nulla in comune, nessuna parentela riconoscibile, diversa nella base e in pro fondità oltre che nella forma e nelle fallaci apparenze, fino ad appa rire agli occhi di tutti il suo contrario esattamente; e facendo diventare l’altra, come succede sempre alle vicende del passato, e alle robe vec chie, priva di una reale consistenza e d’interesse, vuota, aggiungevano senza un attimo di perplessità quelli che vivono con lo sguardo sempre rivolto all’avvenire; un tessuto di bricciche, di inezie, di fanfaluche, una raccolta di cose insulse e immaginabili troppo facilmente, sfuggenti alla osservazione più minuziosa che chiunque vi potesse praticare, un vec chiume da relegare nel solaio delle memorie o nel museo delle mummie, e le era lontana appena di ventiquattrore” 2. D’altro canto, l’altra correlativa poetica, della « varietà delle cose », o della imprevedibilità della vita, è così fissata da Palazzeschi: “[…] dovendo noi considerare a cuor pacato non essere l’uomo opera di un geometra e tanto meno di un ragioniere, ma in maniera esclusiva attraverso un maschio ed una femmina del Signore, il quale ama la varietà delle cose e l’originalità delle sorprese, tanto da non esistere una sua legge che non abbia l’eccezione…”3 Non stupisce che questa poetica del Presente e della « varietà delle cose » conduca a una sorta di gaio godimento dell’attimo che passa, quasi a una visione etereamente epicurea della vita, nella quale la felicità e il piacere dei sensi si spiritualizzano, si rarefanno, mentre si conferma l’ineffabile disponibilità dello scrittore alla felicità stessa e all’armonia con le cose. Si attende infatti l’uscita del doge per le ore dodici, non c’è casa in cui questa attesa non incomba, persona che non trasferisca in essa tutto il suo essere : eppure si veda la legge rezza, vorremmo dire la trasparenza, dell’animo di coloro – gli ottimi sti, evidentemente – che dalla vita sono stati meglio preparati ad apprezzarla. “E visto che le dodici erano ancora lontane, nei morbidissimi letti si voltavano da un’altra parte per uno di quei sonnellini complementari galleggianti che si usano fare sul far del dì e magari col sole alto da parecchie ore, e oramai di una dolcezza eterea, che lasciano raggiungere la perfezione alla felicità del dormire ed assurgono, non di rado, per la loro raffinatezza ad un’ eleva tura direttamente spirituale preparando l’in dividuo a una giornata felice da inaugurarsi con una ghiotta, abbondan tissima colazione composta di caffelatte, cioccolata, miele, marmellata banane mele cotte; con l’ausilio, magari, di due uova fritte, qualche fet tina di prosciutto e salame, burro salmone o caviale” 4. * * * La critica, nell’accogliere Il doge, ha molto insistito, e con quasi generale consenso, sulla sua veste stilistica. Si tratta, né più né meno, che della nativa e nota disponibilità di Palazzeschi alla libertà sin tattica, protratta però quasi al limite della logicità e della leggibi lità. Si vorrebbe dire, insomma, che si assiste qui a una specie di celebrazione dell’anacoluto ottenuta attraverso una sorta di anar chica espressione o esposizione dei fatti, o meglio della psicologia dei veneziani (perché va osservato che tale veste stilistica si fa più vistosa nella descrizione delle voci, degli umori, delle congetture, delle speranze e delle paure dei veneziani), secondo un ritmo interno e una successione di annotazioni e osservazioni che assorbono il dia logo e hanno del monologo interiore senza esserlo affatto: a meno di non sovrapporre questa veste alla folla stessa dei veneziani come monologo collettivo o come voce monologante di un’intera popo lazione. Un esempio solo, tra i più brevi e discreti, dove tuttavia risul terebbe assolutamente impossibile, a chi volesse, applicare l’antica e insostituibile analisi sintattica del periodo, cominciando dall’iso lamento della proposizione principale e seguitando, secondo la logi ca, a smontarlo per coordinate e subordinate. “Altri invece, poco dotati di fantasia o in proporzioni eccessivamente limitate, esistono esemplari che hanno la specialità di ridurre anche le cose immense al minimo comune denominatore, conformandole al loro sentire e alle loro vedute, alle proporzioni del loro cervello di galline, riducendo il blocco del Montebianco un sassolino da mettere in una tasca del gilet, e i quali assicuravano non essersi affacciato perché l’ore fice non aveva fatto in tempo a consegnargli il rituale anello col quale per l’ennesima volta si sarebbe sposato col mare” 5. Tale veste stilistica fornisce la spia esterna, e nello stesso tempo il mezzo, del divertimento fantastico di Palazzeschi: il risultato for male, insomma, del giuoco rovesciato sullo specchio della pagina. Ma a noi sembra, nonostante il fervido consenso dei più, che talora questo stile ecceda in libertà sfiorando, con l’oscurità totale, il vuoto, che in questo caso coincide con l’impossibilità da parte del lettore di comprendere. Concessa a Palazzeschi una singolare e per-sonalissima virtù di giuoco stilistico, unica certamente nel panorama delle lettere italiane contemporanee (di ben diversa natura, in tutto linguistica e lessicale, il giuoco di un Gadda – se giuoco è lecito chiamarlo – o, al polo più remoto, di un Pizzuto), va subito osser vato che esso vale, e aggiunge in levità inventiva, in ironia, in umo rismo solo se non dimentico degli ancoraggi tradizionali della sin tassi: in una sorta di esercitazione fantastica condotta all’estremo limite di un filo di cui si conosce la resistenza a tutta prova, una re sistenza che si può ben definire vitale 6. L’osservazione vale anche in parte per Il buffo integrale, in cui si assiste all’affiorare qua e là di questo giuoco, e che si lega al Doge non solo per la stretta vicinanza cronologica (la quale sembra celebrare, e all’insegna della più spericolata libertà d’invenzione, gli ottanta anni e passa dello scrittore) ma per lo stesso motivo del « buffo », che non è affatto illecito scoprire nella vicenda del Doge, nella stramba situazione in cui è caduta un’intera città e soprat tutto in certi particolari di vita collettiva o addirittura in personaggi marginali, pochissimi del resto, come quello della straniera segreta mente innamorata dell’invisibile e forse inesistente doge 7. Il buffo integrale, richiamandosi al titolo fortunato ed emble matico del lontano Palio dei buffi (’38), ricondusse i lettori, dopo la pur felice parentesi del Piacere della memoria – del Palazzeschi cioè più « ottocentesco » – al suo filone fantastico e mostrò lo scrit tore al centro della sua stravagante umanità, occhio ilare, ironico, pietoso, attento a coglierne singolarità e rarità, il senso del buffo in-somma. Dice Palazzeschi: “Alla terrazza del caffè dove solo o con un amico sono uso sostare talvolta, avevo notato da tempo la presenza di un signore dall’età inde finibile, piccoletto, mingherlino e bruttarello per intera la sua dose. Uno di quei soggetti che sembrano tagliati alle misure mie, insignificanti ap parentemente, ma che una volta fissata l’attenzione su loro non è difficile scoprirci dentro con la più grata delle sorprese qualche cosa di eccezio nale e corroborante che attira, una presina di sale e magari un granel lino di pepe, molto meglio di altri che colpiscono l’occhio da non vederci più per essere appariscenti chi lo sa come, e lasciandoti poi galleggiare inutilmente sulla loro insipida superficie” 8. Palazzeschi appare come dal brano citato: un osservatore che sta in mezzo alla folla, che guarda e si lascia attrarre dalle « sorprese », da ciò che è « eccezionale » e rivela quella che lui chiama « una presina di sale » o « un granello di pepe ». Del resto, vale la pena di leggere la definizione che egli ha dato del buffo. “Buffi sono tutti coloro che per qualche caratteristica, naturale diver genza e di varia natura, si dibattono in un disagio fra la generale comu nità umana; disagio che assume ad un tempo aspetti di accesa comicità e di cupa tristezza” 9. I diciotto racconti del Buffo integrale non potrebbero infatti pre sentare un’umanità più eccentrica. Si vorrebbe anzi aggiungere che l’eccentricità diventa anormalità in taluni casi, quando cioè non solo si esce dal « centro » morale ed esistenziale dell’umanità comunemente intesa ma addirittura da essa si prescinde e sembra manifestarsi l’intenzione di crearne un’altra con tutt’altri connotati… Si pensi, per esempio, a quella che a noi pare la novella più stra vagante – e pertanto assai indicativa – intitolata La piccola Maria. Da un matrimonio bislacco, ma tuttavia non uscente dalla pur variopinta e non prevedibile normalità dei casi umani, esce fuori una figliolina – la piccola Maria – che pesa centocinquanta gram mi, misura quindici centimetri di altezza, cresce in media mezzo centimetro all’anno e, giunta a maturità, e addirittura trovato ma rito, risulta grande e grossa tanto da stare in una sua tasca, da cui comodamente si affaccia come da un balconcino ambulante. Colmo dei colmi, la piccola Maria partorirà un pargolo che cre scerà invece fino a far concorrenza al padre, che è un marcanto nio alto quasi due metri. La morale della novella, se di morale è lecito parlare, si ricava dalle angosce del babbo di Maria : « II po vero signor Leone aveva fatto come i fiori sullo stelo che dopo avere piegata la testa per eccesso della siccità, la rialzano per l’effetto benefico della pioggia ». Che è come dire che alla fine la vita compensa una bizzarria con un’altra contraria e ristabilisce la con tinuità dell’eterno suo corso. Il fatto è, invece, nel caso presente come in qualche altro, che il buffo non risulta plausibile (la piccola Maria nessuno riesce né a vederla né ad accettarla). Si ha infatti la sensazione come di un salto verso un’altra umanità, un’umanità che con la nostra non ha più niente a che fare: per cui diventa pressoché inutile curare la compensazione dei casi, partecipando essi a un ordine ormai diverso, 0 meglio impossibile. Si apre così tra il mondo dello scrittore e la realtà di ogni giorno, tra certi suoi personaggi e certe sue vicende, e i normali casi della vita, una spaccatura in cui il lettore rischia di naufragare. Noi uniremmo, alla Piccola Maria, altre novelle come Non am mazzare, II nonno, L’uomo più bello del mondo… Senonché par di capire, da novelle più misurate, o meno stravaganti, quello che del resto il precedente filone fantastico di Palazzeschi – e infine lo stesso Doge – sembra aver suggerito: che cioè il suo meglio proviene non da una rottura o da un radicalismo così drastico, ma da una sem plice forzatura della realtà; e che in definitiva egli non smenti sce mai una sua base di saggezza come per lo più, malgrado certe scivolate, non abbandona una sintassi nel fondo talora persine au lica, ma tutt’al più la sforza, ci scherza su, come giuocando, ma giuocando soltanto (e si pensi di nuovo ai rischi del Doge)10. Si torna così al noto Palazzeschi del bozzetto toscano, ma rive duto, come caricato d’esplosivo, rinnovato se vogliamo: quale an che qui appare nella novella dell’Amico Galletti o nell’altra bellissima dell’Uomo del campanello, o nell’inizio stupendamente scritto de I quattro cavalieri della Tazza d’oro. Dove si ammira la virtù prima di Palazzeschi, e cioè, come si diceva, la bravura a muoversi come un equilibrista sull’orlo di un precipizio. Il realismo infatti m questi casi è di gustosissima marca piccolo borghese, plausibile, convincente e la stravaganza tutt’al più sfiora il suo limite ma sen za varcarlo: come dire che la realtà può smentirsi e contraddirsi fino a un punto preciso restando tale, mentre al di là precipita nel nulla o nell’inconoscibile. Si prenda L’uomo del campanello. Un quartiere, diciamo pure una città, si agita e si inquieta per la muta presenza di un ometto che scuote di continuo un campanello ricavandone, ovviamente, un suono. Curiosità, domande, inchiesta: interviene la legge. Final mente l’alta autorità dei poteri costituiti mette alle strette l’ometto e gli pone l’inevitabile domanda del perché di quella specie di giuoco. E l’ometto non altro risponde che agitando di nuovo il cam panello. Tutto qui: dove si vedono, con vigore quasi simbolico, una società, i suoi poteri, la forza delle convenzioni, o se vogliamo del conformismo, da una parte; e dall’altra la stravaganza o il buffo, e cioè un principio di disordine o meglio, se vogliamo usare la parola grossa, di individuale e supremamente anarchica libertà. Con finale vittoria di questa libertà, certo; ma senza però che la società debba subire più che un passeggero fastidio e l’ometto debba andare oltre l’innocuo suono del minuscolo campanello: che non fa danno, ma soltanto, come Palazzeschi annota con l’abituale e personalissimo gusto grafico, dindilindilindilindilin. È questa la formula del miglior Palazzeschi? È certo del Pa lazzeschi del fantastico « divertimento », del gusto di ribadire il proprio estro e il proprio senso della vita in barba a ogni conven zione, e non importa se al di fuori di ogni logico proposito o pro gramma: del Palazzeschi insomma che fanciullo di due anni ap pena – ricordiamo – dopo aver rischiato di cadere giù da una fine stra da cui si spenzolava, s’arrampicò in cima a una vertiginosa scala a pioli correndo di nuovo il rischio di fiaccarsi il collo. « Perché salire? E lo so io perché? salire… […] come non sale nessuno, per salire… senza sapere perché. » 11 * * * Il buffo integrale parve così allargare la tela dell’artista con an nessioni non indegne di alcune fra le migliori pagine del passato. Fu una conferma, per i più, e un lieto ritorno ai racconti più sin golari e « siglati » dopo i più vasti romanzi, in particolare i più recenti Fratelli Cuccoli (’48) e Roma (’53). Solo quella parte della critica che addita il meglio di Palazzeschi nel Codice di Perelà, nei Due imperi… mancati e nella Piramide, li accolse a denti stretti co me un compromesso col versante ottocentesco e borghese tipico del le Stampe dell’Ottocento e delle Sorelle Materassi: un compro messo che continuava dal momento che lo scrittore aveva avuto il torto di appisolarsi sulle memorie di casa – pur con un suo folle brio inconfondibile – e di allinearsi coi molti altri che percorrevano la stessa strada domestica, dando l’impressione di aver dimenticato ogni spirito di rivolta e d’avanguardia a favore di alcuni « interni » o di alcuni personaggi (vecchiette, zie o nonne) oculatamente scelti in una fauna particolarmente folta e attraente per chi conservava pur sempre un pizzico d’animo crepuscolare. Ma Il doge no : Il doge trova tutti concordi. E se è sempre diffi cile distinguere nei favori della critica militante quanto è dovuto ad autentico convincimento, quanto ai rispetti umani e quanto a una inveterata e – pare – invincibile cedevolezza all’autorità costituita (e Palazzeschi ha tutti i titoli per apparire tale, e non solo per l’età), in questo caso almeno il convincimento pare autentico e persuade. E lo si spiega, a noi pare, al di fuori dell’opera stessa, e cioè nel clima d’avanguardismo che permea la nostra cultura da qualche tempo (o ancora la permeava quando Il doge vide la luce). Lasciamo da parte, per un momento, il valore intrinseco del Do ge. Vediamolo come un oggetto letterario piovuto non solo nel mer cato librario ma nel clima delle velleità, delle speranze, delle inquie tudini, spesso sacrosante e sofferte, della nostra cultura e della no stra letteratura. Pur non producendo opere di rilievo e non lascian doci pietre di paragone, l’avanguardia attuale ha agito e lasciato un certo segno. Polemiche, contrasti anche vivaci: ma si dovrebbe es sere ciechi per non vedere quanto di vecchi valori e di tradizione abbia corroso, e soprattutto quanto abbia seminato in ansia di ri cerca e di attesa, fumosa quanto si vuole, orecchiante e provincialissima, ma pur sempre all’erta e, bene o male, cercante. In questa atmosfera piove un romanzo che innanzi tutto è e non è tale. In tempo di crisi di vecchi valori e vecchie forme, la cosa è stimolante. A nessuno – forse – passa per la mente che Il doge sia qualcosa come una novella dei « buffi » tirata più per il lungo e dila tata sulla folla; e neppure ci si ricorda – a quanto ci consta – che esisteva una novella dal titolo Il doge di Venezia (ora in Tutte le no velle, Mondadori, ’57), di una decina di pagine, in cui ugualmente il doge non appare, o appare soltanto sotto forma di un gatto… In real tà Il doge può assumere varie etichette : da quella di antiromanzo, in quanto non ha un protagonista in azione o lo nasconde dietro un pa lazzo (come se ciò non bastasse a renderlo tale e centro coesivo di tutto), e si presenta capovolto sull’esterno e sulla folla con un invitante giuoco di abilità; a quella, ancor più stuzzichevole in periodo di fre gola linguistica e strutturalistica, di un prodotto dell’antilingua, o dell’antisintassi, o del parlato, o del dialogo assorbito indirettamente nel monologo, eccetera 12. Ma c’è, oltre l’etichetta formale, l’evidente disponibilità fanta stica dello scrittore, vale a dire la sua appartenenza a uno dei miti più seducenti in tempo di conformismo imperante: il mito della libertà o del rinnovamento di sé, riconfermato nell’antica formula del « divertimento » o del « saltimbanco », attiva sino dai tempi del futurismo. Etichetta ambivalente perché se da un lato provoca il consenso dell’avanguardia, per definizione innovatrice di sé e delle cose, dall’altro capta la maliziosa benevolenza, o addirittura l’entu siasmo, degli anziani (e diciamo pure, in genere, dei « borghesi »), che riconfermano nelle loro file un avanguardista non solo auten tico per il lungo e probante curriculum ma dei loro senza alcun dubbio, vale a dire un incendiario, ma in doppio petto, un rivolu zionario che, come l’omino della novella citata, minaccia sì di suo nare di continuo un suo campanellino ma infastidendo tutt’al più l’orecchio e scomodando un vigile… La critica, sottolineando e superando addirittura la più civile cortesia, ripaga il vecchio maestro con la generosa e convinta patente di giovane. « II più giovane dei giovani » lo definisce Montale; « Palazzeschi sempre giovane » suona un titolo di Bocelli; « contempora neo anche ai più giovani » aveva scritto Piovene…13 È un sim patico e del tutto tollerabile motivo corrente. Ma a questo punto è necessario distinguere: perché nulla è più ambiguo di certo successo plaudente e monocorde, frettoloso e per buona parte giornalistico, e per quel che riguarda il passato assai spesso approssimativo e nutrito di luoghi comuni. In effetti sembra certo che allo stesso Palazzeschi non dispiaccia l’etichetta avanguar-distica. La « premessa » al volume mondadoriano delle Opere gio vanili (’58) è in fondo ancora una aperta professione di avanguar dia; se ciò non bastasse, vi si legge a chiare lettere la predilezione, nella vasta opera, per Perelà : « Perelà è la mia favola aerea, il pun to più elevato della mia fantasia ». Che collima con la predilezione di coloro che oggi affidano a Palazzeschi una funzione di indicatore di nuove « direzioni » – da Baldacci, a Pampaloni, a Piovene – vale a dire con la scelta, nel folto dell’opera, di quella che appare, dopo qualcosa come una sessantina d’anni, la punta di diamante 14. In realtà è necessaria una ben precisa separazione. E a noi pare che in proposito parole molto giuste e definitive le abbia dette Car lo Bo nel non lontano ’58 in una pagina dedicata all’avanguardia, quando scrisse che « la storia di Palazzeschi ci fa capire come la migliore avanguardia sia quella legata a una necessità interiore e condotta in sordina » e che « la libertà non era per Palazzeschi un atteggiamento o, peggio, merce di scambio, occasione di patteggia menti ma il suo elemento naturale ». E seguitava, Bo, approfon dendo la separazione, col sottolineare « la sostanziale differenza di una letteratura libera come questa [di Palazzeschi] e una lettera tura troppo preoccupata di essere irreggimentata e classificata come è la nostra ultima ». « Forse Palazzeschi » aggiungeva Bo « potrà apparire ingenuo, indifeso, ma, se si guarda bene, non risulterà mai cal colato, abile: insomma è il contrario dello scrittore nuovo che pun ta tutto il suo piccolo capitale sulle luci della presentazione, insom ma sulle formule. » E concludeva : « C’è ancora una differenza, uno scrittore come Palazzeschi aveva tutto il tempo davanti a sé, non aveva fretta, soprattutto non voleva impressionare: il sospiro famoso del “lasciatemi divertire” è stato perfettamente soddisfatto dal la sua lunga vita e da un’opera ragguardevole. Gli scrittori che cominciano oggi non hanno più nulla di quella disponibilità, sono preoccupati di far presto e di vendere nel miglior modo possibile la loro mercé e forse per questo non si curano di lasciarla maturare al punto giusto. È una letteratura fin ‘troppo abile che cerca di nascondere la sua fondamentale sfiducia, la sua mancanza di fede »15. Quanto agli anziani e a quel settore della critica militante che plaude al Doge, s’è detto come questo successo criticamente sia mo tivato per i più sulla linea di Perelà e della Piramide: che è una linea la quale accantona, o lascia in sottordine, il Palazzeschi delle Stampe e delle Sorelle Materassi; o almeno quella parte di questo Palazzeschi più legata al gusto prezioso della pittura, della rievoca zione d’ambienti e di tipi umani. Ma si ha l’impressione che non si esca, in questa scelta, da una vaga aspirazione, legittima ma an che velleitaria, a nuovi approdi e a generiche rotture, aspirazione estremamente disponibile ai significati allegorici e nascosti, individuabili dove il minimo appiglio sembri giustificarli e dove il più sot tile spiraglio accenni ad aprirsi. Valgano, per tutti, le parole di Guido Piovene, scritte, si badi bene, nel ’65, in occasione degli ottant’anni dello scrittore, quando non erano usciti né Il buffo integrale né Il doge. Piovene scrisse che Il codice di Perelà « non solo è un’opera la cui grande qualità let teraria cinquantacinque anni non hanno nemmeno appannato, ma è un esempio di libro che si riaccende d’improvviso per noi e, abbandonando la sua data, nasce un’altra volta nel giro degli inte ressi d’oggi. Il protagonista fantastico, un uomo fatto di fumo e ca duto chissà di dove (“di lassù”) in una capitale di uomini in carne ed ossa che in principio lo venera, poi lo condanna a morte (senza riuscirvi), è un simbolo e un mito attuale, del quale uno scrittore d’oggi potrebbe servirsi; il libro nel suo insieme è uno dei casi più cospicui di quel “romanzo aperto” di cui tanto si parla. Nel suo svolgimento geniale si snodano dialoghi strabilianti, trascorrono ve loci ritratti di uomini e di donne (specialmente di donne) i più icastici, maliziosi e scarnificanti della letteratura italiana moderna; e, veduto con gli occhi d’oggi, Il codice di Perelà ha preso una vastità, una rarefazione astrale che ci è consanguinea » 16. Sono parole estremamente significative, dettate da quella parte cipazione critica, ma soprattutto istintiva, alle ricerche e alle ansie del proprio tempo, viva e reattiva in Piovene come in pochi altri. Ed ecco Perelà assurgere a « simbolo », a « mito attuale »; ecco emer gere l’altro feticcio del « romanzo aperto »; ecco i « dialoghi stra bilianti », in cui è forse lecito scorgere golosi esperimenti lingui stici e balugini! di arrischiate rotture ; ecco la « vastità » e la « rare fazione astrale », una sorta di vuoto, di grande cassa armonica in cui calare le immagini e i suoni vagheggiati, incerti, fumosi, non più forse che larve informi, ma segni del nostro vivere attuale e del no stro cercare. Che cosa più del Doge capace di incontrare queste ansie, di dar corpo alla nostra disponibilità allegorica? Come Perelà scendeva dall’alto, anzi da un suo sopramondo inconoscibile e denso di mistero, così il doge resta confinato nel suo ermetico palazzo, addirit tura invisibile, così misterioso che sembra lecito attribuirgli, in ugua le misura, propositi di innovazioni rivoluzionarie o semplici e vigo rose esercitazioni erotiche. Come Perelà aveva sotto di sé un regno (e si vorrebbe proprio intendere in prospettiva aerea, presa dall’al to), così accade nel Doge: Venezia e i veneziani sono anch’essi una specie di regno chiuso, un’area inquadrata dall’alta prospettiva del la vuota loggia del palazzo ducale (e anche La piramide, non si di mentichi, si apriva con una prospettiva da una balconata: questo a ribadire un gusto allegorico-moralistico, di indagine e riflessione glo bale sull’esistenza e sull’umanità, tipica degli anni in cui Perelà e Pi ramide vennero concepiti, e rinnovato nel Doge). Nell’uno e nel l’altro infatti il protagonista sfiora gli attributi del demiurgo e l’umanità ne attende l’enigmatico e forse inesistente messaggio. In Perelà il linciaggio, nel Doge la trepidante venerazione: ma in tutt’e due l’attesa come di una grande parola, di un « novus ordo » : e in Pe relà infatti avrebbe dovuto nascere il nuovo codice, che avrebbe rin novato e sistemato definitivamente la vita della collettività. Senza dire di alcune analogie capovolte: Perelà personaggio visibile sulla scena sino dal primo momento (pur di leggerissimo fumo), il doge sempre invisibile: in Perelà la gran parte del racconto risolta in puro dialogo, nel Doge l’eliminazione totale di questo. L’una opera, insom ma, quasi il risvolto dell’altra. È proprio questo mistero del personaggio e questo sentimento dell’attesa a stimolare la sete d’allegoria. Chi è il doge? Che cosa nasconde? E Perelà? Esiste un messaggio? Il doge è in realtà nulla e vuoto; e Perelà semplicemente « leggerezza »: Palazzeschi non è mai andato oltre questo arido e povero concetto di materia (« Io acquisterò laggiù tante belle qualità ma perderò la mia qualità migliore, la sola, la vera, la mia, questa leggerezza che m’inebria, m’innalza e mi fa felice »). Ma il doge sembra essere sul punto di annunciare una rivoluzione; o forse prepara un festino, o una co lossale guerra: e il popolo, a naso in su, e con ansia, aspetta… C’è di che trovare riscontro con la situazione politica attuale, tra ansie mai sopite, guerre e guerricciole, e minacce di sconvolgimenti, e pro positi di rinnovamento da parte di remoti e inconoscibili potenti ! Pa lazzeschi ha dunque inteso dire tutto questo? Ecco il «mito »; e nella « vastità » del personaggio del doge, o della coscienza della folla che lo attende (e gli fa da spalla), trovano ricetto le speranze. Ma a noi non sembra, come dicevamo, che la letteratura di Palaz zeschi possa sopportare una lettura allegorica; alla stessa maniera che non ci sembra possa assumere un significato storico-politico, o in qualche modo di documento strettamente legato a un certo periodo. Un critico avveduto come Baldacci parlò di un’Italia di Perelà (« La verità è che Palazzeschi ha colto quell’aria nella quale navigano in sospensione le cellule che produrranno il Duce di domani » 17). Ed è certamente vero che anche la letteratura più fantastica o « disimpe gnata » rivela sempre qualche aggancio col proprio tempo storico ; e del resto Palazzeschi ha scritto pagine non dimenticate sulla guerra e sullo stesso fascismo. Ma per quanto riguarda la sua letteratura di più libera creazione noi staremmo ancora con Carlo Bo, quando afferma che i suoi libri sono i meno « documentabili con le date » e che è inutile « volerlo giudicare e pesare sulle pagine di rievocazione moralistica del fascismo… » 18. Attrae invece, in Palazzeschi, un altro tipo di lettura, e in Perelà come nel Doge in modo particolare, e come in tanti dei suoi rac conti « buffi », e sempre nei più stravaganti: l’osservazione dello scatto iniziale dell’invenzione e del suo svilupparsi all’insù, in una specie di spirale, che ha qualcosa di meccanico o meglio del fuoco d’arti ficio quando i razzi scoppiano uscendo uno dall’altro. Vogliamo dire che la pagina di Palazzeschi sollecita a una lettura per così dire di struttura o architettonica, nel senso di una verifica, maliziosa quanto si vuole, della tenuta dell’edificio e del succedersi e conca tenarsi delle forze portanti: lettura, ovviamente, stimolata da un senso di insicurezza generale, diciamo pure di sempre imminente precipizio, che essa suggerisce (ciò che accade con stretta analogia per uno scrittore molto più giovane, per alcuni versi opposto, per altri molto simile: Italo Calvino). Insomma: il funzionamento in terno del giuoco, il procedere del meccanismo del divertimento, lo sfruttamento che lo scrittore riesce a praticare della trovata iniziale, quella specie di illuminazione fantastica che spesso si presenta come una folgorazione (e tale è l’uomo di fumo uscito dall’« utero nero » del camino, e il doge che non si vedrà mai), e che, di caso in caso, può reggere racconto o romanzo, poche o molte pagine, col sussidio delle successive trovate le quali, una dopo l’altra, gli si accodano as sorbendone l’intensità e la novità, e la capacità di tensione. Certo, il funzionamento di una macchina narrativa non esclude i suoi significati, morali o allegorici. Ma nel caso dell’uomo di fumo Perelà, sulla base della forza principale – la trovata anarchica dell’uomo fatto di « leggerezza » e pertanto diverso da tutti (un « sal timbanco » dell’umanità? Un « ultimo figlio » posto « fuori della natura », secondo il finale della celebre poesia I fiori 19), un per sonaggio che d’acchito si pone sull’altra sponda rispetto la società e l’umanità intera – si sono a nostro avviso innestate due forze latenti della letteratura palazzeschiana : la prima molto intensa – come s’è detto – in quegli anni, e via via poi sminuita, dovuta allo stimolo dell’esplorazione moralistica della vita e della società (Dio, l’amore, la morte, la giustizia, il potere eccetera: sorta di casellario sociale ed esistenziale che consenta un giudizio, più o meno esplicito, sul mondo) ; la seconda inesauribile in Palazzeschi, vero cordone om belicale della sua umanità, dovuta al gusto dei tipi, dei personaggi, dei soliti « buffi » insomma: tutto il contorno di Perelà e in particola re le molte dame. Perciò, stando a Perelà, noi non chiederemmo a Palazzeschi nul la più del divertito funzionamento di questi elementi o forze. Po tremmo aggiungere (ma usciremmo dai limiti che ci siamo posti) che si tratta di un funzionamento assai precario e soprattutto gra tuito, di una gratuità male mascherata dai giuochi formali e tipo grafici : poco riesce a dirci Perelà, il suo messaggio svanisce in « leg gerezza », l’allegoria non prende corpo e la satira non riesce a ba luginare che a tratti. Perelà è una « silhouette » amorfa, una spe cie di « passepartout » della società, in tutto espresso dal vuoto, sciocco e ignaro « perché » pronunciato quando la folla l’insulta, quando cioè l’umanità gli si rivolta contro e dopo averne fatto un idolo lo distrugge: in questo senso, sì, mostrando una eloquente se parazione, che vale una disperata dichiarazione di solitudine e di pessimismo, e riprende il motivo più valido delle poesie, matrice stessa dei « buffi » in quanto uomini separati dal consorzio umano (anche se liberi). In chiave morale (sia detto di passaggio) è assai meglio e più si gnificativa La piramide, dove la macchina narrativa è accantonata in favore della riflessione e dove tutto, alla fine, si riscatta in autobio grafia: quasi un esame di coscienza, o una dichiarazione etico-lirica, che attraverso inutili lungaggini e bozzetti macchiettistici giun ge tuttavia a esprimere il valore della solitudine, l’amarezza della vita e la bruttezza della realtà, e, tra alti e bassi di pessimismo e di allegria, il fascino del sogno goduto al vertice della vita solitaria. “Se ci fosse per tutti una città sulla terra, come quella di quel buon vecchio, come Venezia, anche più originale, anche più strana, anche più bella di una città che faccia tanto sognare, ma una vera città, nella quale gli uomini respirano camminano e amano, con le loro case e i loro al berghi, le osterie, il cui nome è su tutte le carte geografiche e sugli orari delle strade ferrate con le relative tariffe; dalla quale si spediscono let tere e cartoline illustrate ad amici e parenti, ma alla cui stazione, giun gendo, il fischio della locomotiva fondesse l’ultimo respiro del petto” 20. Che è tutto ciò che non si vede e si desidera, tutto ciò che è na scosto o resta confinato in una remota lontananza – qui una Ve nezia vagheggiata, altrove un doge, forse Perelà stesso – e può coincidere con la morte. Ma Il doge nasce da un motivo a doppia faccia: l’attesa dell’in visibile personaggio principale e i contraccolpi di questa attesa sui veneziani; con in più un elemento collaterale – quanto a economia dinamica – ma trasformato man mano in elemento fondamentale: il fascino di Venezia, il gusto della pittura del suo volto e della sua gente, con tipi, calli, piazzette, voci, incontri, risonanze eccetera (si veda in particolare – pp. 71-75 – la scenetta deliziosa del chiacchie riccio nella calle con l’interrogatorio del « pupo », un fantolino che risponde facendo il verso di certi animali!…). Sul primo motivo s’innesta la catena, per la verità potenzial mente infinita (e in più punti gratuita), della vociferazione, aggra vata dalla eccessiva libertà sintattica; e s’innesta il fuoco d’artificio delle trovate, legate alla mancata apparizione, al suono delle ore, al misterioso cannocchiale che ha inquadrato il doge dall’isola di San Giorgio, alle due donne che si dice lo affiancassero, al muro di va ligie, alla voce della partenza della basilica, eccetera. L’impressione globale è quella – ferma restando la legittimità del giuoco fantastico protratto sino al limite del territorio della realtà – di un soprappiù di questo giuoco (per esempio: la pur divertita, ma lunga, disquisizione sulla bigamia), come a protrarre una storia che in effetti avrebbe potuto risolversi molto più rapidamente; sen za dire che l’eccesso di ardimento nel giuoco – come nella finale tro vata delle valigie dei turisti – trascina fuori la storia dai suoi natu rali confini allontanandola da quel giusto rapporto – o distanza -con la realtà quotidiana, che è condizione necessaria alla vitalità della narrativa di Palazzeschi e sigla inconfondibile della sua origi nalità. Anche la voce della partenza della basilica di San Marco, col rombo pauroso, di primo acchito scuote la storia, lasciando presagire grandi cose; e invece nulla è accaduto: e anche questo ridimensionamento in se stesso è accettabile, in un contesto di casi così straordinari e di colpi di scena a getto ormai continuo. Ma resta alla fine la sensazione di qualcosa di troppo in una storia nata in realtà per toni lievi, ironici, mordenti ma controllati, e per i colori, i suoni, le voci lagunari di una città in cui ogni dramma è destinato ad atte nuarsi in commedia. Bello piuttosto il finale: e lì la storia ritrova il suo tono e il suo ritmo, con l’affetto rinnovato dei veneziani per il misterioso doge, con la sottile ambiguità ribadita sulla sua esistenza (esistenza o ricordo?), col mistero del grande palazzo reintegrato nella sua impe netrabile enigmaticità, nel quale – non dimentichiamolo – già era morto un gatto che alla vecchia custode, così steso sullo scranne re gale, era parso una reincarnazione del doge… Ed ecco che, proprio a questo livello, cioè a contatto con la real tà, sembra persine possibile parlare di significati e anche, in senso lato, di allegoria: perché la realtà ne fornisce il conforto e il nu trimento stimolando la nostra ansia, e si esce da quel vuoto che mi naccia Palazzeschi quando, come in Perelà, traccia un puro ara besco. E allora il doge sembra essere la poesia, il sogno, tutto ciò che non abbiamo, la felicità forse, inafferrabile e anche crudele, che nessuno ha mai visto ma tutti sanno esistere, sanno essere là, forse per divertirsi alle nostre spalle e tradirci, forse a tramare la nostra rovina: al vertice della piramide dei nostri soliloqui, dove l’uomo si è arroccato come l’infelice eroe della stessa Piramide. Ma se un simile significato può essere confortato da tutta, o quasi, la letteratura di Palazzeschi, noi tuttavia sappiamo che non dobbiamo chiedere allo scrittore nulla più di quello che può e deve darci, e ci ha dato nei momenti migliori. C’è un godimento, un’al legria, in cui la remota disperazione è sublimata in frizzante effer vescenza, che è sua soltanto. In questo clima noi sentiamo di avere per un momento lasciato il dolore dietro di noi, il dolore che sem pre è ricordo, senso del Passato e del Tempo. Dicemmo di Palazze schi come del poeta del Presente. Ci conforta un brano dell’Anti dolore : “Hai cinquant’anni e senti che la tua giovinezza è passata? Non ritrarti da questa pena […]. Corri liberamente fino al sessanta e al set tanta, all’ottanta meglio ancora, procura di convincerne te stesso e gli altri, il passato non conta…” 21 Allegria come atto d’amore? Amore al male, a ciò che la vita ci riserva di brutto? Amore all’abnorme, al « buffo »? Premunirsi con tro il dolore per vivere allegri in questo slancio? Cristianesimo infine, e carità? Questo il messaggio – messaggio autentico, documento di riflessione autobiografica – dall’Antidolore. Il giuoco, l’allegria, il sentimento del Presente nascono da questo retroterra; e spingono lo scrittore a staccarsi dal quotidiano quel tanto per cui il giuoco sia concesso. Il suo « quotidiano », il suo reali smo è come allontanato, infatti, o stilizzato, come annotava Falqui, che è la stessa cosa. La sua letteratura « ottocentesca », le sue « stam pe », rivelano invariabilmente questo; e il suo naturalismo ha questo timbro, essendo e non essendo tale o essendolo solo sino al punto in cui la fantasia non impone il suo giuoco 22; la tradizione del suo fiorentinismo, presente secondo Pancrazi lungo l’antico solco della no vella del « buffo », s’arresta a questo stesso punto. Da lì in avanti Palazzeschi è lui soltanto, e lo è nelle Sorelle Materassi come nei capitoli del Piacere della memoria, nel Buffo integrale come nel Doge. Inutile, a nostro avviso, schierarsi per l’uno o l’altro Palazze schi. Palazzeschi è per noi rintracciabile in un trasparente filo che passa zigzagando da un’opera all’altra, tra realtà e vuoto, talora spen zolandosi di là: come nel Doge, dove più e dove meno. Ha anco ra una volta ragione Montale quando scrive che la sua « traietto ria » non è mutata e che « l’unico fatto nuovo è che qualche gio vane critico rimpiange il Palazzeschi della prima maniera… »; e in particolare quando aggiunge : « I suoi eroi grotteschi sono perso naggi che amano la vita e la vivono diversamente da noi uomini normali, l’assurdo è per lui uno dei modi più positivi di sperimen tare la vita. Donde, per questo autore che se ne infischia della sto ria, della società e di ogni sottile problematica, la necessità di non allontanarsi troppo dai margini del verosimile e il bisogno di ficcare lo sguardo nelle piccole vicende quotidiane che formano il tessuto della nostra vita » 23. In questo « margine del verosimile » sappiamo di poterlo sempre ritrovare, e come un maestro: di letteratura e di vita morale. Poco male se oggi un successo ambiguo sembra spingerlo verso il vuoto che sta al di là del verosimile. È un segno eloquente dei tempi. Ed è anche un segno di quella crisi che lo stesso Palazzeschi esprime nel suo allontanamento dagli schemi del naturalismo 24. È il destino di molti, che ciascuno a suo modo tenta di risolvere: cercando un approdo al di fuori di una contrada che sempre più si va allontanando. Quello di Palazzeschi, instabile ma ben individuato, sta in quel « margine » estremo. Altri gli sono al fianco; ma è di lui soltanto riderne e divertirsi a quel modo, per un momento dimenti cando la pena di vivere e riconciliando anche noi lettori alla vita. * * * II quadro dell’ultimo Palazzeschi si completa con Cuor mio (Mondadori ’68), il volume di poesie con cui lo scrittore è tornato alla lirica dopo circa un trentennio. Ritorno sorprendente, che solo nella valutazione complessiva del volume può essere apprezzato appieno, dopo le sporadiche apparizioni di alcuni di questi componimenti in fa scicoletti o in riviste; e che consente di completare il discorso avviato sul prosatore. Il Palazzeschi poeta, a tutti noto, sta racchiuso tra il 1904 e il 1914 e si compendia in un’esperienza che, svoltasi parzialmente sotto il segno futurista, si affermò poi in modi così decisamente originali da costituire, nel panorama del tempo, un’area ben definita. Palaz zeschi fu futurista senza esserlo sino in fondo; fu crepuscolare – bi sogna pure sottolinearlo – senza cedere alla maniera dei crepuscolari; fu cultore del verso libero senza esserne un teorico. Fu soprattutto se stesso: il Palazzeschi che conosciamo sino dalle antologie scola stiche, il quale univa alla malinconia nascostamente disperata della Fontana il gusto dell’allegria e della piroetta scanzonata; un Palaz zeschi lieve, scoperto, libero da ogni schema, beffardo e aggraziato talora sino all’eccesso, trasparente e aereo, eppure sempre attento alle domande estreme della vita, che dietro a un volto d’allegria sembra stare in agguato con immutabile gravita 25. Palazzeschi poeta s’era rifatto vivo in riviste e con fascicoletti (Viaggio sentimentale, ’55, e Schizzi italo-francesi, ’66); ma assai più assiduamente aveva curato la prosa. Aveva dato i suoi ben noti libri migliori, approdando alle ultime opere, salutate con favore così aperto, di cui s’è trattato, e varcando lunghi decenni, fedele a se stesso e alla poetica di sintesi tra realtà e fantasia, saggezza e follia, normale senso delle cose e buffa deformazione di esse; talora, certo, compiacendosi della follia e del buffo (lo si è visto anche nel Doge) ma spesso attin gendo a quei momenti di grazia, usciti da condizione di felice equili brio, che danno la misura della sua vera personalità. Cuor mio è preceduto da una divertente prefazione, che vale anche come dichiarazione di poetica. Non sono molte queste di chiarazioni, in un autore come Palazzeschi così scarsamente teo rizzante e così abbandonato all’estro. Sono noti i brani, tratti dalle poesie giovanili, del « saltimbanco dell’anima mia », del « lascia temi divertire », o del passato che «non conta » (dall’Antidolore); ma sono brani che in realtà valgono più come filosofia della vita o come ideologia26. Qui, invece, Palazzeschi afferma che « due sono le vie che con ducono all’arte: il puro istinto e la conoscenza ». E sceglie la prima strada, che è quella di coloro che restano sempre giovani e possono ritrovare intatta la vena anche dopo lunghi periodi di distrazione e di silenzio. Gli altri sono quelli che possono sembrare « freschi » ma che non risultano in effetti mai giovani; e soprattutto possono mutare sino al punto di diventare altre persone 27. La prefazione prosegue poi riprendendo dichiarazioni conosciute (si veda la nota che accompagnava i precedenti fascicoletti o la « premessa » al folto volume mondadoriano delle Opere giovanili) sull’antico, e sempre vivo, spirito d’avanguardia, sul verso libero che ruppe, all’inizio del Novecento, un’invecchiata tradizione e su Marinetti teorico e attivista instancabile di una nuova esperienza lette raria. Ma quel che più conta è l’indicazione dell’istinto come natu rale sorgente d’arte, retaggio romantico, anche se nitrato e proiettato in un territorio così diverso e lontano. E infatti, la prima osservazione che queste poesie suggeriscono è globale e investe l’animo. I modi di Palazzeschi non sono mutati col tempo. Se pensiamo a un Moretti o a un Valeri, per ricordare alcuni coetanei, un mutamento sostanziale si riscontra. In Palazzeschi no. Si deve scendere ai contenuti, magari a un inventario dei temi, per indicare – per esempio – nel nucleo delle poesie ispirate a Roma, a Venezia o ad altre città (anche Rimini e Ravenna) qual cosa di nuovo; o nell’ultima sezione, dei Quadretti parigini, che raccoglie le composizioni in lingua francese. Ma l’animo è rimasto lo stesso, ed è rimasto lo stesso il « cuore » (anche se il « cuor mio » con ogni probabilità va inteso come espres sione d’affetto ai luoghi cari della patria intesa in senso ottocentesco e persino patriottico, conosciuti e amati in tanti anni). Sono gli stessi modi che distinsero Palazzeschi giovane, la stessa levità, la grazia, la libertà capricciosa, il gusto « saltimbanco » della piroetta e del volo, persino del ghiribizzo grafico, della pura esclamazione, anche del giuoco fine a se stesso, che in certi casi muore inerte in un mucchietto di cenere 28. Basta aprire il libro, ed ecco la vita come teatro, lo stesso in cui il « saltimbanco » di un tempo poteva sfogare la sua allegria, lo stesso della celebre Passeggiata. Il poeta incontra la sua musa (In contro con la musa), che è una creatura femminile molto « naïve », candida, forse ingenua, né bambina né donna del tutto, si direbbe una sorta di divinità enigmatica. Che fare? Ecco la proposta del poeta: « Vieni ti dissi / seguimi / e mi seguisti / anderemo fino in città / a vedere quello che capita / quello che si fa nel mondo ». Il mondo dunque si spalanca davanti al poeta e alla sua musa: ed è, di nuovo, una dichiarazione di poetica, che si allaccia alla pre fazione, e che acquista particolare valore dall’essere posta ad aper tura di volume (come del resto la lirica Chi sono? nel volume delle opere giovanili). Si veda Rue de Buoi, con la sua fantasmagorica mostra di og getti; e si veda Dove sono?, tra le più lunghe e complesse, pur nella consueta linearità espositiva e plastica, che si può avvicinare, nello spirito, oltre che a Chi sono? (tipico interrogativo di quel tempo, di tutta una sensibilità e una filosofia dell’uomo) alle prose allegorico-fantastiche sul genere di Perelà o della Piramide. Dove sono? riassume la filosofia della vita di Palazzeschi. Mostra un uomo che, piovuto quaggiù, non si rivolge nessuna delle domande essenziali e comuni a tutti gli uomini : né da dove è venuto, né dove andrà, né perché fa certe cose. Si guarda solo intorno ammirato. Ed è colpito improvvisamente da un suono di campane, sicché pensa di trovarsi in una chiesa. Lo spettacolo della vita è dunque incomin ciato. Nasce invece uno strano brusio; e ora gli sembra d’essere in una scuola… Ma via via, mutando i suoni e lo spettacolo, la scuola pare trasformarsi in un tribunale. Quindi la scena vieppiù s’allarga; ed ecco la calura della stagione, poi il gelo, e tutt’insieme un caos da manicomio, e tanti uomini, tutti diversi: e chi ama solo il pas sato, chi il futuro, chi il presente, chi la violenza, chi il perdono, e chi è bianco, chi è nero… Ecco la vita: lo spettacolo! E decidere allora di godersi la rappresentazione ! Ma l’autore si accorge d’essere anche lui, per gli altri, oggetto di spettacolo : anche lui ha una parte nella rappresentazione! Allora? S’approda a una sorta di spetta colo simultaneo, in cui è bello accorgersi (si ponga attenzione alla situazione pirandelliana) che gli altri ti « aggiungono » cose, cioè ti fanno diverso da quello che sei. Da qui il divertimento e il gusto di «esibirsi ». Un buttafuori chiama l’autore: «Aldo in scena / tocca a lei ». È la vita. « Col gesto del grande attore / divellerò / le tenui mie radici / come dalla terra un fiore. » E può anche essere l’uscita estrema, quella della morte. In Rue de Buci si ripete la stessa situazione. Il poeta è « caduto in un ignoto / punto di questa terra » ; ha perduto « la provenienza / la direzione / l’orientamento » ; non si chiede « donde venni e perché vado » ; non sente nemmeno il tempo : « né passato né fu turo / liberato / dalle catene del tempo / quasi volando… »; non si rende conto di esistere, vive anzi in una specie di dolce nebbia ; e ha perduto, con la memoria, il senso del peccato: tutto mi sembra bello tutto mi sembra puro come nel giorno che sono nato29. Intanto la strada giunge al termine; ed è la strada della vita. L’allegoria si scopre con naturalezza, si apre anzi come un frutto maturo. È uno di quei felici momenti in cui l’architettura fantastica si piega a un significato morale e filosofico, che qui ha valore di estetica. « Facesti qualche cosa? » è la domanda che il poeta si sente rivolgere. E la risposta è quella della poesia. Sperduta in quella baraonda lasciai qualche parola come fa l’acqua nel mare col movimento dell’onda30. Tutto ciò mentre intorno, ai due lati della strada, seguita la baraonda-teatro, intatta, eterna, che la scansione francese, come un « refrain », accentua proprio in quello che ha di estraneo, di autonomo rispetto al vivere dell’uomo, che ne è sempre separato e mai potrà integrarsi in essa : ed è questa, infatti, pur con l’« allegria » e il « di vertimento », la sorte dell’uomo di Palazzeschi, la sua angoscia se greta 31. Torna, dalle vecchie poesie, il rintocco dell’allegria, come tauto logico motivo di conoscenza in polemica col « noiosissimo » prin cipe Amleto. Essere o non essere è il titolo. E il poeta sente di essere solo quando è contento. Oggi è giornata bella per me tutto color di rosa intorno : il trionfo dell’allegria 32. Ma torna ugualmente il rintocco severo dell’angoscia e della disperazione, misurato ma sempre presente dietro la facciata e la recitazione instancabile del saltimbanco. Esso sottende all’allegria delle poesie giovanili, richiama lo stato di malinconia adolescente da cui nacque il poeta, ci rammenta la dolorosa « separazione » di Perelà, il pessimismo e la solitudine della Piramide, talora estrinse cata in moralismo di tono leopardiano (« Tu nasci, vieni al mondo, e non appena vedi la luce ti dai a piangere e a strillare… » 33). E si esprime, come in Monte Ceceri, in un doloroso sentimento esisten ziale (« mentre incalza l’impervia salita / più leggero si fa sopra le spalle / il peso del vivere… ») e in un conclusivo grido di felicità e di dolore: vita: orrenda cosa che mi piaci tanto 34. Ricompare anche l’antico tema-spia della città ideale che ognuno serba nella fantasia, sorta di paradiso a cui pervenire al di là della scena del mondo: Per le vie di Calem. Si devono ricordare Le carovane (« Non lo sapete / che in quella città / non posso an darci che io? / Perdio! »), La città del sole mio (« La città voi non la potete vedere / ci vuole il mio cannocchiale. / Venite a sentire »), anche il brano citato della Piramide (« […] se ci fosse per tutti una città sulla terra… »)35. E si tratta non tanto di una vana e decaden tistica meta d’evasione e di sogno quanto di un’abbastanza preciso richiamo a un metafisico mondo di perfezione che dall’alto fa scendere la sua luce sul pazzo teatro di quaggiù, su questa « orrenda cosa » che è in fondo la vita, sogno e poesia in sostanza (il luogo arcano, probabilmente, in cui si cela l’invisibile doge di Venezia…). Lo volete sapere quello che dentro la mia testa vive e si muove da sempre? Ve lo do a indovinare in mille: una città. . . . . . . . . . . . . . . . Non vi posso assicurare intendiamoci bene che tutti nella testa abbiate una città Dio me ne guardi né voi me lo sapreste perdonare ma un minuscolo villaggio certamente… . . . . . . . . . . . . . . . . . . . qualcosa ci dovete avere non mi venite a dire che non avete nulla per carità o mi vedrete morire 38. Si incontrano anche i consueti scherzi e ghiribizzi, i « calembours » tipici, le cadenze prosastiche che fecero parlare la critica, sin dai tempi di Serra, di Borgese e di Gargiulo, di prosa-poesia e di natu rale vocazione e sbocco alla narrativa; ma la maggiore novità e va rietà di contenuti la si deve – come dicevamo – agli scorci di città, e ai tipi umani, come a certi marinai veneziani o all’Adamo bellis simo che si tuffa nel Tevere, e che ricordano vagamente l’Habel Nasshab (« … sei bello tu / con quegli enormi calzoncini blu ») dell’omonima lirica giovanile. E si sente più accentuato, pur nella continuità dei modi, il gusto dei luoghi, come si diceva. Mentre è del tutto scomparso l’antico poemetto, nella sua ampia e articolata misura, spesso dialogato. Sono restati « quadretti » e tipi come quelli parigini: le flic, le clochard, l’ouvreuse, la dame du café, madame la concierge… Si diceva dell’animo del poeta rimasto intatto, dei modi classici della sua poesia. Due esempi soltanto, i più limpidi secondo noi, che si potrebbero definire puramente descrittivi rispetto ad altri, discorsivi o scherzosi, più frequenti, o rispetto alla vena allegorica che s’è vista più sopra. Si tratta dei momenti di pura espansione lirica, goduti con la felicità visiva tipica di Palazzeschi, quando certa luminosità e trasparenza dell’immagine si rapprende in segni lumi nosi e l’immagine sembra frantumarsi, moltiplicarsi e dare origine come a una cascata, una frana, quasi una danza di luce, la quale, nel suo dinamismo, esprime vita e gioia, gusto della natura e della sua inesauribile varietà37. scendono undopolaltra tante gocciole ed ognuna scendendo rapida si gonfia di luce e di colore. Pervenuta al limitare in ebbrezza e vertigine tutti i colori risplende e cade. Con egual ritmo e gioia uguale dietro di lei l’altra la segue e cade rapidamente 38. E ancora: Le acque han bisbigli d’infanzia nel silenzio imponente e tacciono impaurite per l’urlare dei venti. Sul tappeto delle selve voluttuoso col piede i tronchi dei castagni si contorcono vetusti aprendo ventagli di smeraldo al sole e lasciando cadere in filamenti d’oro l’inesauribile dolcezza delle loro anime. Una freccia infuocata li attraversa…39 L’istinto rinnova così al poeta il suo dono. « L’istinto amò l’arte quando nulla sapeva, l’amò come si può amare una persona… » E l’amore è restato immutato. Non c’è pagina riuscita di Palazzeschi che non rechi il senso di questo amore e quindi della giovinezza. E non c’è stato critico il quale, salvi certi rilievi, non abbia salutato Cuor mio come testimonianza di giovinezza e implicitamente come conferma di antiche note virtù. Vorremmo dire che questo ritorno di Palazzeschi ha suggellato il profilo critico del poeta al di sopra dei lunghi decenni e delle correnti letterarie. Come un’eredità, o un messaggio, che venga riproposto e raccolto intatto molto tempo dopo, nonostante i mutamenti degli uomini40. NOTE 1Il doge, p. 13. 2 Il doge, pp. 50-51. 3 Il doge, pp. 34-35. 4 Il doge, p. 45. 5 II doge, p. 35. 6 Tolte alcune perplessità di Arnaldo Bocelli (« Sennonché, una proposizione via l’altra, i periodi […] si allungano talmente […] che se ne perde spesso il ban dolo. Senso di confusione certo voluto, ma che forse va oltre i calcoli, ombrando a tratti la luminosità del quadro », nella « Stampa », 14-6-’67, II doge di Palaz zeschi), critici come Luigi Baldacci (vedi in «Epoca », 18-6-’67: Palazzeschi ha gettato un ponte tra le due avanguardie), Carlo Bo (vedi in « Europeo », 22-6-’67 : La somma di tutti i dogi di Venezia), Enzo Fabiani (vedi in « Gente », 21-6-’67: Un capolavoro scritto a 82 anni). Eugenio Montale (vedi in « Corriere della Se ra », 4-6-’67: 77 doge) e Geno Pampaloni (vedi nota successiva) – per non ricor dare che alcuni critici – hanno accettato questa veste stilistica, esplicitamente o implicitamente al riconoscimento della straordinaria riuscita dell’opera. Così ana lizza Montale questo stile : « Dir che mai Palazzeschi s’era infischiato a tal segno della consecutio temporum e delle subordinate e coordinate è dir poco. Bisogna pensare a un’antigrammatica del pensiero sempre in via di formazione. Se si vo lesse ricordare il solito cliché del monologo interiore bisognerebbe aggiungere che il monologante non è un uomo e nemmeno l’autore del libro ma il conglomerato, il torrone di infiniti verbiages raccattati da ogni parte ». E aggiunge, umoristi camente, che il modo migliore di penetrarlo è quello di « entrarvi furtivamente, cacciandovi dentro alla bell’e meglio la testa e il collo… » : come i veneziani nella Maginot delle valigie lasciate dai turisti nella piazza!… 7 Non infelice, e accettabile infine, la definizione di Geno Pampaloni del Doge come « buffo di massa » : « il vero protagonista de Il doge (insieme con Ve nezia) potremmo chiamarlo “il buffo di massa” » (vedi nella « Fiera letteraria », 29-6-’67, p. 19). 8II buffo integrale, p. 87. 9Nella Premessa a Tutte le novelle (Mondadori, ’57) p. 5. 10 In chiave di falsetto, esprime bene questo equilibrio nel giuoco Arnaldo Boccelli (nella « Stampa », 9-7-’66, L’ultimo Palazzeschi tra “opera buffa e ma gia”) quando scrive : « […] è in registro di falsetto che avviene l’incontro o fu sione fra il verosimile e l’inverosimile, fra il gioco funambolesco dell’immagina zione […] e la morale della favola. […] Perché, fuori di quel falsetto, frutto di un giusto dosaggio fra componenti e toni diversi, può accadere che Palazzeschi si abbandoni al divertimento per il divertimento […]. Ma quando quel dosaggio è, anzitutto, misura inferiore, e nel tono dell’opera buffa convergono tutti gli altri, dal lirico allo scherzoso, dal trepido all’ironico al satirico, stimolandosi a vicenda, allora l’arte di Palazzeschi acquista un potere di levitazione per cui, mentre quella morale si volatilizza in gioco, questo,, aereo e caprioleggiante, racchiude nelle sue volute un richiamo, una nostalgia terrena ». 11 Si veda, nel Piacere della memoria, il primo capitolo, Una casa per me, già delle Stampe dell’Ottocento, e molto indicativo del fondo realistico palazzeschiano, qui ottimamente impiegato nella pittura dell’ambiente familiare, e della spinta al « divertimento » o all’evasione, o all’illusione se vogliamo, colta nella istintiva natura del bambino che ha appena aperto gli occhi sul mondo e non si sa se mediti imprese acrobatiche per staccarsene o per immergersi di più in esso… 12 Alberto Arbasino cita Sklovski e la Compton-Burnett. Si veda nel « Gior no », 28-6-’67, Doge immateriale nella cantata su Venezia eccentrica. « Oggi è così evidente che la sua scrittura “à la diable” è semmai misteriosamente affine alle avventure spericolate di Sklovski… Ora questo Doge è un punto d’arrivo anche più misterioso. Come la Compton-Burnett ha abolito ogni didascalia narrativa, come la Sarraute dissolve ogni presenza fisica, così Palazzeschi ha raggiunto di colpo l’abolizione del dialogo, e anche del personaggio. Questo antiromanzo su ima Venezia […]. » 13 Per Eugenio Montale vedi articolo citato in « Corriere della Sera », 4-6-’67. Per Arnaldo Boccili, nel « Mondo », 16-2-’65. Per Guido Piovene vedi « La Stam pa », 21-2-’65, Poesia e attualità di Aldo Palazzeschi, dove tra l’altro Palazzeschi è definito « scrittore libero », « sicuro maestro », « attuale », « classico » e dove si insiste sulla validità della sua letteratura nell’indicare la « direzione alle ricerche più importanti di fresca data ». 14 Si veda anche nel Mestiere di poeta, a cura di Ferdinando Camon (ed. Lerici, ’65), nel capitolo dedicato a Palazzeschi, p. 41: «L’avanguardia: il cuore del suo cuore. Parla con entusiasmo di Sanguineti e del Marcatré ». 15 Carlo Bo, La religione di Serra, Vallecchi, ’67, pp. 380-381. 16 Vedi articolo citato sulla «Stampa », 21-2-’65. 17 Vedi il saggio su Aldo Palazzeschi di Luigi Baldacci, in Letteratura e ve rità, Ricciardi, ’63. Scrive ancora Baldacci: « Non crediamo di spingere troppo in là la nostra lettura “ultraletterale” dicendo che il regno in cui Perelà discende miracolosamente è, in cifre di bilancio allegorico, quello di un’Italia che si pre parava all’avventura della prima guerra mondiale » (pp. 147-148). Più avanti: « Perelà, uomo di fumo, è lo sfocio nell’irrazionale per una società di parassiti e di dame di corte aduggiate dalla piattezza della vita. Perelà è il termine di una aspettazione messianica che può risolvere la situazione impossibile… » (p. 148). 18 Vedi il saggio su Aldo Palazzeschi, datato ’58, contenuto nell’Eredità di Leopardi, Vallecchi, ’64, in particolare a p. 191 e a p. 199. Vedi anche Sergio Solmi, Scrittori negli anni, II Saggiatore, ’63, al saggio Palazzeschi poeta e romanziere, in particolare a p. 157, dove a proposito di Perelà il critico scrive : « Certo, è opportuno guardarsi dal dar troppo peso ai toni iro nici e parodistici che venano qua e là il libro. In quegli incredibili e pur veridici personaggi […] potrebbe infatti ravvisarsi qualcosa come una parodia del mondo dannunziano al suo crepuscolo. Ma la parodia è involontaria, come involontaria del tutto è la morale che qualche amico di buona volontà si provò a trarre dalla favola ». Su questa stessa linea è Eugenio Montale : recensendo II buffo integrale nel «Corriere della Sera », 22-7-’66, Palazzeschi e il buffo integrale il poeta scrive: « Creatore di personaggi grotteschi a getto continuo Palazzeschi non è un critico della nostra società; i problemi lo lasciano indifferente… ». 19 A proposito di Perelà, richiama acutamente questo stesso componimento poetico Giorgio Pullini nel suo Aldo Palazzeschi (Mursia, ’65), rilevando il con clusivo e analogo « fuori della natura ». Per Pullini, « il superomismo dannun ziano e il dinamismo futurista hanno conservato in lui [Palazzeschi] solo la scorza di strumenti figurativi ed espressivi per toccare prode di un solipsismo rinuncia tario » (p. 60 e p. 64). 20 Dalla Piramide, a p. 852 delle Opere giovanili (Mondadori, ’58). Singolare che un critico come Pietro Pancrazi, che poi diresse sempre il suo favore alla letteratura meno surreale di Palazzeschi, salutasse nel ’26, e in termini schiettamente ammirativi, La piramide (ma era un Pancrazi giovane…) come « quanto di meglio Palazzeschi abbia scritto in prosa dopo Perelà » (si veda Ita liani e stranieri, Mondadori, ’57, p. 235). È anche da notare la predilezione di un critico assai attento alle cose palazzeschiane come Enrico Falqui – almeno sino al rilievo dei « rampolli » avanguardistici, o « novissimi », del poeta della Fontana malata – il quale nel ’37 scriveva che La piramide contava nell’opera dello scrittore «più delle stilizzate Stampe dell’Ottocento », concludendo: «La vera faccia di Palazzeschi non andremo a scoprirla lì, se vorremo intendere certe smorfie e certi ghigni? » (si veda Novecento letterario, «Serie prima », p. 111). 21 Dal volume citato delle Opere giovanili, p. 947. 22 Questa separazione di Palazzeschi dal naturalismo, o in genere dal mondo ottocentesco, è efficacemente toccata, nel « Corriere della Sera », 7-6-’64, in una recensione al Piacere della memoria (I vivi piaceri della memoria) da Renato Barilli – che pure stranamente ignorava lo scrittore nel suo La barriera del natura lismo, Mursia, ’64 – in un suggestivo parallelo con Gadda e Celine. Scrive Barilli : « [Palazzeschi] nato sulle soglie del secolo nuovo, non può non vedere dal l’alto quasi a distanza di cannocchiale, quel “mondo antico” […]. È contempora neamente un esserci dentro e un esserne fuori, un prendervi parte, ma solo at traverso un filtro ironico e divertito ». 23 Vedi l’articolo citato di Eugenio Montale, nel « Corriere della Sera », 22-7-’66. 24 Delinea questa crisi Giorgio Bárberi Squarotti, in termini forse eccessiva mente rigidi nella classica suddivisione di forma e contenuto, ma accettabili, in Poesia e narrativa del secondo Novecento, Mursia, ’61, nel saggio « Le novelle di Palazzeschi » (pp. 181-182) individuando «le forme tradizionali ottocentesche » nella « parte stilistica e strutturale », e l’« inquietudine contemporanea » nella « parte dei contenuti, come ingresso dell’anormale, dell’irregolare, di un filo ora accentuato ora lievissimo di follia, da cui l’antico ordine viene corroso e a poco ti poro, dall’interno, intimamente sconvolto, ma in un modo sottile e allusivo ». 25 Si ricordi in «Pègaso », giugno ’31, l’articolo Vent’anni (pp. 725-731), che prende spunto da due libri: Si sbarca a New York di Fausto Maria Martini e Via Laura di Marino Moretti. Scrive tra l’altro Palazzeschi (p. 727) : « […] es sendo il mio destino complicatissimo, io mi trovo sovente a figurare in due posti, come Sant’Antonio, coi futuristi e coi crepuscolari. Mi pare di sentirvi doman dare in quale dei due io preferisca trovarmi, e per soddisfare la vostra legittima curiosità vi dirò subito che in questa materia non ho preferenze né disgusto, e mi trovo benissimo in tutte e due le parti […]. E ad onore della giustizia debbo aggiungere che v’è taluno anche che mi mette solo… Penserete certo che amando tanto la compagnia io mi trovo malissimo, solo e deserto, muto e contrito; mac ché, anche solo mi trovo benissimo lo stesso ». 26 Si veda nel volume mondadoriano delle Opere giovanili : « il saltimbanco » in Chi sono? (p. 11), che apre il volume; la canzonetta Lasciatemi divertire, nello stesso (p. 179); il passato che «non conta », dall’Antidolore (citato). 27 Parole come le seguenti, si avvertono ovviamente dirette alla propria per sona e alla propria opera : « L’artista istintivo, riuscito a crearsi una forma, e senza grande difficoltà, quando vi sia riuscito, con naturalezza, la sua esistenza è tutta lì, rimanendo in certo modo prigioniero della propria personalità senza che nemmeno se ne accorga, di se medesimo: non può fare quello che vuole, fa quello che può… » (Cuor mio, p. 19). 28 Recensendo il volume sul « Resto del Carlino » (Palazzeschi poeta, 5-6-’68), Giuseppe Prezzolini ha scritto: « E come nei temi (non nelle trovate) la sua poesia resuscitata a ottant’anni non si distacca da quella dei vent’anni, così anche le tecniche della sua arte son sempre le medesime ». Carlo Bo insiste invece (L’in nocenza di Palazzeschi, nel «Corriere della Sera », 12-6-’68) sulla diversità tra un Palazzeschi autentico rivoluzionario e oppositore della società organizzata, in gioventù, e un Palazzeschi attuale, che « scopre che non ci sono rivoluzioni da tentare con eccessive speranze ». Per Bo è mutata la « disposizione del cuore ». Ma a noi pare che, come l’« incendiario » non credeva in fondo nell’effetto ever sore delle fiamme, così il poeta di Cuor mio non ha abbandonato la sovrana libertà di staccarsi dalla società (vedi anche II doge) e muoversi nel suo mondo oggi come ieri. 29 Cuor mio, p. 136. 30 Op. cit., p. 137. 31 Nella Passeggiata, citata (vedi in Opere giovanili, p. 237), si sciorina davanti al lettore lo spettacolo fantasmagorico delle strade cittadine in un guaz zabuglio di insegne, manifesti, scritte, voci, targhe, numeri e chi più ne ha più ne metta, di cui Rue de Buci ripete lo schema prospettico, senza però lo sbocco verso un compendio della vita, il quale funge anche da punto di fuga. In Passeggiata sussiste soltanto lo spettacolo dei muri e della vita brulicante intorno: il teatro insomma, ma senza la sua funzione ultima, la domanda risolutiva. « Torniamo indietro? » è la semplice domanda della Passeggiata. E la risposta: «Torniamo pure ». (Non a caso La passeggiata è assunta a modello di una poetica crepuscolare tendente al futurismo da Walter Binni – La poetica del decadentismo, Sansoni, ’61, p. 143 – proprio per la «disgregazione della costruzione ».) 32 Cuor mio, pp. 116-117. 33 Dalle Opere giovanili citate, p. 751. 34 Cuor mio, p. 98. 35 Dalle Opere giovanili: Le carovane, p. 95; La città del sole mio, p. 98. 36 Cuor mio, pp. 122-132. 37 Viene naturale ricordare l’acuta « lettura » che di Palazzeschi seppe dare Giuseppe De Robertis, diretta al magistero della parola, allo stile, al ritmo della poesia (e anche della prosa). « E proprio quello che sempre era stato il dono di Palazzeschi, era l’aria e il moto » (in Scrittori del Novecento, Le Monnier, ’58, p. 25, in una prosa datata 1930, intorno a una nuova edizione delle poesie). Si può allineare a questa, un’acuta osservazione di Luciano Anceschi (Le poetiche del Novecento in Italia, Marzorati, ’62, p. 178) secondo la quale c’è in Palazzeschi « una invenzione sempre desta e fertile, un tendere verso forme di fantasia leg gera e mossa d’una intimità ironica spesso riflessa sugli oggetti… ». 38 Da Gocciole (Cuor mio, p. 31). 39 Da Gavinana (Cuor mio, p. 86-87). 40 Vogliamo ancora ricordare l’ultima « plaquette » di Aldo Palazzeschi, uscita presso le « Nuove Edizioni Enrico Vallecchi », Ieri oggi e… non domani, una gu stosa raccolta di dieci prosette, comparse già in quotidiani o periodici, impron tata a un bozzettismo moralistico echeggiante le « maggiori » Stampe dell’Otto cento. In un malizioso raffronto tra vecchia memoria e attualità (i paggetti del ‘900 e… uno spogliarello, per esempio), si distilla la nota ironia dello scrittore, tale da scaricare la vena moralistica e critica d’ogni mutria sussiegosa e vegliarda. Una citazione sola, dal capitolo Dolore, dopo un raffronto tra il modo di por tare il lutto, per morte d’un congiunto, ieri e oggi : « Né si pensi ch’io dica ciò per tirar conclusioni, stabilire confronti esercitando in qualche modo l’ufficio del censore o del critico, non sono qui per questo giacché il mio ufficio è solamente quello di un notaio attento ed onesto, allegro… » (p. 29-30). Che sarebbe come concludere: avanti coi tempi, malgrado tutto, e ancora una volta: allegria. Letto 2872 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||