LETTERATURA: I MAESTRI: Amata dalla massa3 Febbraio 2018 di Alberto Moravia Ragazzina, la civetteria mi è cresciuta dentro come una di quelle punte che si abbar bicano in una crepa su un cornicione e poi, dopo pochi mesi, sono diventate un arbu sto e se vai a tirarle fuori sco pri che hanno la radice più lunga di loro. Ero ancora una ragazzina seria, mettiamo, a novembre, all’inizio dell’anno scolastico; a giugno, per le vacanze, ero già così civetta che quasi mi stupivo io stessa di esserlo tanto. A novembre ero stata una di quelle sco lare fredde e sapute che sembrano delle vecchiette; a giugno dimenavo i fianchi, sporgevo il petto, lanciavo oc chiate a destra e a sinistra, ri devo senza motivo, posavo apposta la mano sul ginocchio per metterlo in mostra. Ma, soprattutto, pensavo agli uo mini. O meglio, sentivo che ci pensavo: il pensiero non c’era come riflessione, come calcolo, come giudizio; ma c’era il sentimento che, qual siasi cosa facessi, quel pen siero non mi abbandonava mai. Forse è giunto il momento di descrivermi, anche perché, descrivendomi com’ero allora, potrò far comprendere meglio il cambiamento che è soprav venuto in seguito. Ero, dun que, una ragazza di bellezza trionfale e risplendente, e al tempo stesso quieta, dolce, se rena. Una vitalità densa e vo gliosa mi gonfiava la persona come fa la linfa ad un frutto maturo. La sentivo, questa vi talità, nel lustro e nel movi mento dei capelli, nella dila tazione luminosa delle pupil le, nell’inutilità radiosa del sorriso, nel rigoglio prepoten te del seno, nell’ebbrezza che mi saliva al cervello ad ogni passo che muovevo. Natural mente sapevo di essere bella; ma non ero affatto consapevo le di far di tutto per mettere in mostra la mia bellezza. Cre devo, per esempio, in buona fede, di seguire la moda. In realtà la gonna più corta, la scollatura più profonda, la ve ste più aderente erano sem pre le mie. * Basta, pensavo agli uomini e se la moda l’avesse voluto, non avrei esitato ad andare in giro nuda; ma un bacio che è un bacio, a diciott’anni, non l’avevo ancora dato. Strano a dirsi, perché ero nata in una famiglia tradizionale ed ero stata allevata per il matrimonio, non desideravo sposarmi. La mia aspirazione, invece, era, o almeno così mi sembrava, il lavoro. Desideravo lavo rare; e questo desiderio di ren dermi utile socialmente si con fondeva con il desiderio tutto fisico che, secondo gli uomini, si esprimeva nelle forme del mio corpo. Il pensiero del la voro è diventato ben presto ossessivo, come si dice che sia il pensiero dell’amore. Ho pre so il diploma di stenodattilo grafa, ho studiato il francese e l’inglese, ho frequentato dei corsi per diventare interprete. Finalmente, sono riuscita ad ottenere un posto di segreta ria, in una agenzia di pubbli cità. Subito ho fatto, come si di ce, colpo. Il direttore mi ha detto un giorno; « Susanna, tu sei una pubblicità ambulan te ». Ho domandato ingenuamente: « Di quale prodotto? ». E lui: « Di te stessa ». Non ho capito troppo bene, ho cre duto che alludesse alla mia pur sempre fortissima civette ria e ho arrossito. Questo di rettore era un bell’uomo alto e robusto, con due soli difet ti: era completamente calvo e teneva le spalle curve, quasi avesse la gobba. Naturalmen te, si è innamorato di me, ma in maniera gentile e rispetto sa, secondo il suo carattere. Mi sono rifiutata alle sue in sistenze; e un giorno non sa pendo più cosa dirgli, mi è venuto fatto di dargli questa spiegazione: «Tu, Ettore, mi piaci, ma non più degli altri. Se amassi te, non avrei poi più nessun motivo di non ama re chiunque ». * Con l’idea di farmi piacere, di lì a qualche tempo il di rettore mi ha messo nel car tellone pubblicitario di un co stume da bagno di nuovo tipo. Fotografata a colori, me ne stavo semplicemente ritta, le braccia e le gambe leggermen te aperte, su uno sfondo bian co. Il petto e la pancia spor gevano; la testa era tirata in dietro. Il costume aveva la particolarità di essere insieme traforato sul seno e rinforza to sul ventre; così che quello che non si vedeva chiaramen te, in compenso era messo in forte rilievo. A dirla in breve, era un cartellone indecente; e infatti ha avuto un grandissi mo successo. Si vedeva dap pertutto; sullo sfondo bianco, ci scrivevano frasi oscene e parolacce oppure ci facevano disegni irriferibili. Mi dispia cevano l’indecenza del cartel lone e le volgarità che la gen te ci scriveva e ci disegnava? Sì e no. A ben guardare, quel lo che non mi era ancora av venuto nella vita, era avvenu to, invece, di colpo, in quel cartellone: mi ero, per così di re, offerta con decisa civette ria; e la mia offerta aveva tro vato una risposta altrettanto decisa. Quelle scritte e quei disegni stavano lì a dimostrare che un rapporto si era creato, che era stato felice e che era stato consumato fino in fondo. D’altra parte, sapevo che c’è una maniera di essere teneri con le parolacce e con le crudezze. Nelle scritte e nei disegni del mio cartellone c’e ra, appunto, questo genere di tenerezza. Ma il cartellone, stranamen te, ha ammazzato la mia ci vetteria. Ho spesso riflettuto sulla contemporaneità dei due avvenimenti: il successo del cartellone e la morte della ci vetteria. Non c’era dubbio che tra le due cose ci fosse un nesso: ma era difficile dire quale. Smaniosa, vogliosa, an siosa di piacere agli uomini, anzi a tutti gli uomini, non mi era mai venuto in mente che avrei potuto piacere non a quei pochi che mi accadeva di incontrare per strada o tra la gente che frequentavo; ma ai milioni di maschi di una intera città. Ora questo, ap punto, era avvenuto. Quel car tellone era una civetteria, per così dire, di massa; e aveva provocato un amore di mas sa. Ma, al contrario di quan to avviene nell’amore tra due individui, l’amore di massa non ha avuto sviluppi, si è fermato a quel solo cartellone e alla sola stagione che è du rato il successo del cartellone. Il mio direttore, sempre per conquistarmi, mi ha messo in due altri cartelloni ancor più procaci del primo, se era pos sibile, ma senza alcun succes so. Al tempo stesso mi sono accorta che trasferendosi dal mio corpo al cartellone, la civetteria aveva perduto il ca rattere inconscio che me l’aveva resa così disinteressata e inebriante, simile ad un gio co vertiginoso. Era diventata semplice, grossolana lusinga. Forse per questo ho cessato di essere civetta: mi vergognavo, cosa che, prima del cartello ne, non era mai avvenuto. Oppure, chissà, tutta la mia vitalità era defluita dal mio corpo reale al corpo fotografato; e adesso, anche se l’aves si voluto, non avrei più potuto essere civetta come un tempo. Vagamente spaventata da tanti cambiamenti, mi sono af frettata ad accettare finalmen te l’amore del direttore per il quale, del resto, nutrivo un sincero affetto. La prima vol ta non è stato un fiasco ma quasi; e ho letto nel suo viso la delusione di trovarmi così fredda, così impacciata, così distante. Tanto diversa, insom ma, da come apparivo. Ma mi voleva bene ed io gli volevo bene. Ho lasciato la mia fa miglia e sono andata a vivere in un quartierino di due stanze, nei pressi della sede dell’agenzia. Era un appartamen to vuoto; ma, stranamente, non sono riuscita ad arredarlo. Mi sono limitata a comprare una branda e una seggiola. Per i vestiti c’erano gli armadi a muro. In cucina, avrei voluto metterci una tavola e un paio di seggiole, ma non ce l’ho fatta. Quando mangiavo, me ne stavo in piedi, con il piatto in mano, presso la finestra; oppure, più raramente ci por tavo la seggiola che tenevo in camera da letto e poi, finito di mangiare, la rimettevo al suo posto. * Lavoravo molto, l’agenzia prosperava, i cartelloni con le belle ragazze si moltiplicava no. Il direttore, nonostante la mia assoluta freddezza, era più che mai innamorato e, fuorché abbandonare la mo glie, avrebbe fatto qualsiasi cosa per me. Quanto a me, co me ho già detto, provavo per lui affetto e forse anche tra sporto fisico; ma sentivo che i nostri rapporti diventavano ogni giorno più essenziali. Nel l’ufficio non gli parlavo più che a monosillabi; a casa, quando veniva a trovarmi, non gli parlavo affatto. Ma l’ascol tavo, magari gli sorridevo. Poi, però, veniva un momento in. cui prendevo la sua giacca, l’aiutavo a infilarla e, in un certo mio modo dolce e gen tile, lo mettevo fuori della porta. Questo momento è ve nuto sempre più presto. Alla fine le visite del direttore so no durate soltanto pochi mi nuti; e poi, di comune ac cordo, sono cessate del tutto. Una forza irresistibile, or mai, mi spingeva a recidere tutti i legami che mi tratte nevano all’esistenza. Oltre a ridurre l’amore a pochi minu ti, ho pian piano diminuito il cibo. Ritta in piedi presso la finestra, guardando con oc chio trasognato alla mia brut ta strada di moderno quartiere piccolo-borghese, mangiavo un paio di forchettate di spaghet ti oppure un po’ di riso bol lito, più raramente un pezzet to di carne. Ma non finivo quasi mai il pasto; giunta a metà del piatto, mi si strin geva lo stomaco e allora ro vesciavo quel che restava nel bidone delle immondizie. Non uscivo più che per andare al l’agenzia; la sera rifiutavo qualsiasi invito per la cena o per lo spettacolo e me ne stavo a casa, tutta sola, a guardare la televisione. La mia vita cambiava nel senso di ridursi sempre più; e così la mia persona. Ero stata quasi formosa; adesso ero magra, piatta, spianata. La mia faccia si era fatta triangolare, tirata, tesa, con grandi occhi dilatati senza languore e grande bocca come assetata, senza sensualità. Ero ancora bella: forse, secondo il gusto moderno, più bella di prima; ma mi sentivo mor ta. Il direttore si è presa un’altra amante, una ragazza che lavorava, all’agenzia, nel la mia stessa stanza. L’ho ap provato, gli ho chiesto se vo leva che mi cercassi un altro impiego. Buono e ancora in namorato, si è gettato ai miei piedi piangendo, dicendomi che mi amava e che avrebbe fatto qualsiasi cosa purché tornassi ad amare la vita. So no rimasta. * Un giorno sono andata sola, nella mia utilitaria, al mare. Ad un crocicchio, mi sono imbattuta nel famoso cartel lone con il costume da bagno e allora ho fermato la mac china e mi sono guardata. Ho pensato che guardavo il car tello con nostalgia e con ram marico come le donne anziane guardano alle fotografie di quando erano giovani. Ma io non ero vecchia, avevo appe na ventisei anni. Il cartellone era sbiadito, graffiato, strac ciato. In un angolo c’era scritta una di quelle parolacce che, come ho già detto, si possono anche dire per tenerezza; e mi sono sorpresa a mormorare: « Magari fosse vero ». Poi ho proseguito fino al mare, in un punto non tanto frequentato della spiaggia. Era una bella giornata, con il cielo azzurro, luminoso e senza una nube. Ma sotto questo cielo, per via dei rifiuti di non so quale fabbrica, il mare era giallo scuro con riflessi neri. Sono rimasta male perché, a dire il vero, ero andata al mare per morire. Sarei andata avanti nell’acqua fin dove non si toc cava e poi mi sarei lasciata annegare. Non era un suicidio, era un ritorno alla vita dalla quale mi ero, chissà come, di staccata. Ma in un mare così, il ritorno alla vita in forma di morte per acqua, non era pos sibile. Sono rimasta a lungo a guardare questo mare giallo e nero e poi me ne sono tornata in città.
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