LETTERATURA: I MAESTRI: Basta con le stroncature?12 Dicembre 2015 di Enrico Falqui Ci è già capitato di non consentire con altri al rimpianto della « stroncatura » come testimo nianza d’impegno e d’intransigenza, come pro va di franchezza e di indipendenza, e ci siamo ben guardati dall’auspicarne il ritorno nella pubblici stica come segno di una ripresa di passionalità quanto mai opportuna per ravvivare la discussione delle fac cende letterarie. (Cfr. Novec. letter., VII, 182-186). Uguale dissenso dobbiamo perciò manifestare, a distanza di an ni, nei confronti della speranza manifestata, pur con la sorriden te grinta che gli è naturale, da Alfredo Todisco (Corriere della Sera, 12 novembre 1966) a favo re di una energica e sollecita ri presa della « stroncatura » come rimedio per ristabilire un po’ di equilibrio, da parte della critica, tra la benevolenza scritta e la malevolenza orale, cui troppo spesso, per opportunismo o per leggerezza, son fatti segno gli scrittori, a riguardo, s’intende, di una stessa loro opera. Se que sta è oggi la sorte degli scrittori italiani, in bilico tra l’elogio per scritto e la denigrazione a paro le (scripta manent, verba volant) ogni qualvolta tirano fuori un li bro nuovo, è sorte ben misere vole. Ma non meno per coloro che la subiscono, che per coloro che la infliggono; perché rivela trice di un’ingiustizia e di una scostumatezza. Contro le quali, tuttavia, non riteniamo che po trebbe riuscire di giovamento il ripristino della « stroncatura » in quanto tale, perché resterebbe sempre da precisare chi dovrebbe meritarla e chi firmarla. Ope razione strettamente critica, che una volta prestabilita non ha quasi più bisogno d’essere ese guita poiché sia lì mittente sia il destinatario saprebbero già co me comportarsi reciprocamente. Segno quindi che il malcostume letterario sarebbe in diminuzio ne. Ma, per arrivare a questo ri sultato, la migliore strada da seguire sarebbe quella della «stron catura »? Esasperare anzi che persuadere? Eccedere anzi che graduare? Demolire anzi che cor reggere? Effetto discutibile Eppoi la « stroncatura » come tipo di critica ci riporterebbe a un’usanza papiniana di così sgra ziata memoria e discutibile effet to che l’affidarle una qualunque funzione moralizzatrice sarebbe del tutto contraddittorio. Nella « stroncatura » lo stroncatore si sporge, si spinge più avanti dello stroncato: si mette in mostra, fa il bravone, dà spettacolo, e se ne compiace dichiaratamente. Al critico spetta di comportarsi diversamente, anche quando si tro va in obbligo di esercitare tutta la sua severità, e se ne dispia ce come di una mancata buona occasione. E domandiamoci an che se l’usanza sia caduta in ab bandono per rinunzia a far sul serio oppure a dare scandalo: e se dunque ci si debba dolere op pure rallegrare della sua spari zione. Noi siamo per il parce sepulto: e la conferma d’essere nel giusto ci viene proprio dalla cat tiva impressione ricevuta, in questi giorni, dalla inopportuna ristampa e dalla illusoria riabili tazione della più famosa tra le stroncature. Che fu quella, astio sissima, scritta e stampata da Papini a danno di Emilio Cecchi, nella Voce del 28 febbraio 1915, col titolo: La sor’ Emilia. A Renato Serra sembrò cosa ammirevole in una lettera del 4 marzo 1915 a Giuseppe De Robertis, allora direttore della Vo ce (Epistolario, 546), e questi glie ne diede atto in un paragra fo dei Consigli del libraio, intito lato Veleno e chiuso con l’assicu razione che, « tra dieci anni, pas sato il rumore di questa farsa, si rifaranno i conti… » (Voce, 15 aprile 1915). Tra i gruppi lette rari più intraprendenti della Ro ma e della Firenze letteraria di allora non correvano buoni rap porti di vicinato. Al contrario, serpeggiava la polemica. Ma le ragioni dell’ingegno finiscono sempre col farsi valere. De Robertis divenne uno dei più amati sostenitori di Cecchi. E il giudi zio di Papini risultò così sbaglia to di fronte al progredire e all’affermarsi del lavoro critico e saggistico di Cecchi, che al re sponsabile tornò conveniente to gliere la « stroncatura » dalla raccolta dove l’aveva ristampa ta. Sicché le Stroncature (Libre ria della Voce, Firenze, 1916) dopo la terza edizione, non han no più recato quel prototipo di critica; né si sono date cura di andarlo a ricercare e riproporre come bell’esempio le pur larghe antologie vociane dello Scalìa e del Ferrata, a cinquant’anni di distanza, in sede ormai storica. « La migliore stroncatura è il si lenzio »: commentò Panzini, nel suo Dizionario moderno, in cal ce alla spiegazione della parola « stroncatura » nel senso lettera rio di scritto critico mordace. E col silenzio fu ripagata quind’innanzi la mancata profezia sul fallimento critico e artistico di Emilio Cecchi; tanto, a smentir la e irriderla, parlavano chiaro i fatti. Delle opere di Papini, a parte le innumerevoli ristampe particolari, si sono avute due ri stampe generali, coi tipi del Vallecchi e del Mondadori; e in nes suna si è più rinvenuta traccia di quella « stroncatura »; se mai, nell’Avvertenza a Scrittori e ar tisti (Opere, IV, 11: Mondadori, Milano, 1959), una specie di di scolpa e giustificazione, laddove si vuol far presente che, « se è vero che talvolta poté apparire, tanto nella lode che nel biasimo, eccessivo e perfino ingiusto, come, in particolare, in talune celebri « stroncature », è anche vero che altre volte la passione, ostile o amorosa che fosse, gli fece scoprire negli uomini e nelle opere qualità e caratteri che sa rebbero rimasti nascosti a critici più distaccati, più obiettivi ». Non fu il caso della « stroncatu ra » di Emilio Cecchi. Il proce dimento iconoclastico dell’intera serie delle Stroncature risultò « arbitrario », salvo a riconoscer gli il merito di aver contribuito a toglier di mezzo il panegirico. « Uno dei primi esempi di quel l’impegno totale che noi oggi chiediamo all’esegeta »: sostenne Mario Apollonio. (Papini: Cedam, Padova, 1944). Ma altro fu ed è in vero l’impegno richiesto e conseguito: non come fatto per sonale: quando si voglia pren derlo a guida. Un episodio da non ricordare Al chiasso, dunque, fu con trapposto il silenzio; sempre più compatto e impenetrabile via via che, con gli anni, l’esempio an dava, con la carica polemica, per dendo ogni valore pittoresco e sbiadiva, svaniva, fino a non tro vare riscontro che nelle biblio grafie. (Cfr. Papini: Politica e ci viltà, 12: Mondadori, Milano, 1963; Falqui: Papini e la censu ra: Tempo, 29 luglio 1965). Un titolo e nulla più: specialmente per tutti coloro nati e cresciuti sotto altra costellazione. E il si lenzio avrebbe continuato a vi gere se, nel settembre scorso, in morte di Cecchi, non fosse stato interrotto (Tempo di Milano, 21 settembre 1966) da un richiamo di Giancarlo Vigorelli. Per un buon tratto del necrologio, egli si richiamò a quella « stroncatu ra » come ad « una tra le più ba lorde » per i motivi che non gli fu difficile illustrare, ricavando li dalla biografia e dalla critica. A noi non parve che, in quella triste occasione, fosse necessario, e forse nemmeno opportuno, ri cordare e far ricordare un simi le episodio delle trascorse crona che letterarie, dappoi che gli stessi protagonisti l’avevano tol to di mezzo ed avevano prose guito ciascuno per la propria strada, come se nulla fosse mai accaduto. Andarselo a ricordare proprio quando sarebbe stato ca ritatevole dimenticarselo per sempre, non poteva risultare incitoso, provocante? Ma di lì a poco dovemmo ricrederci e qua si giustificare, apprezzare il ri chiamo di quella « stroncatura » fatto dal Vigorelli, in considera zione dell’apprezzamento rivendicativo che ne venne tentato da Giorgio Savioli in Totalità (25 settembre 1966), « quindicinale libero » di varia polemica diretto da C. L. Occhini, appartenente a famiglia strettamente imparen tata con Papini. L’articolo voleva essere riven dicativo della menomata compiutezza della raccolta Scrittori e maestri, dove la « stroncatura » avrebbe dovuto ritrovare la sua giusta collocazione, se non vi si fosse opposto recisamente l’edi tore Mondadori, « arrivando, pa re, a minacciare la sospensione della stampa delle Opere com plete [di Papini] se si fosse in sistito per riesumare la stronca tura ». E nella menomata com piutezza della raccolta si rim piangeva la sottrazione di una tesi e di una caratterizzazione critica « tuttora valevole, a tan ta distanza di anni e dopo tanti articoli e volumi pubblicati da allora dall’autore dei Pesci ros si: questi inclusi ». Ma il rim pianto â— come si deduceva dal resto dell’articolo â— era anche dovuto alla considerazione che il rapporto fra i due scrittori non tornò mai a pacificarsi e rasse renarsi del tutto. Papini poté fa re a meno di occuparsi di Cec chi; ma Cecchi, dato il suo me stiere di critico letterario, non poté fare altrettanto con Papini, e la produzione di Papini non sempre riscosse la sua lode, de rivandone â— da parte del Sa violi â— che « quel che Papini gli aveva somministrato in una vol ta sola in dose massiccia, e sen za mascherature, lui [Cecchi] cercò di restituirgli via via in piccole dosi, senza troppo sco prirsi. Ma la differenza era incol mabile » e â— ad esaltato parere di Mario Graziano Parri, che nel numero successivo di Totalità (10 ottobre 1966) è intervenuto sullo stesso argomento, a fine ugualmente rivendicativo â— non fu pareggiata nemmeno con il necrologio, « apparente mente obiettivo, ma in realtà sot tilmente velenoso », dedicato dal Cecchi al Papini (Corriere della Sera, 10 luglio 1956) « per tenta re, come poteva, di rifarsi » del l’antica stroncatura. Papini cattivo profeta Da ciò â— dato e non concesso che corrisponda al vero e non piuttosto ad una presunzione â— l’opportunità â— malignamente condivisa dal quindicinale â— di riprodurre lunghissimi tratti del la Sor’ Emilia (quelli che « pos sono esser letti con interesse e curiosità »), salvo a trovarsi infi ne nella necessità di dover con cludere, dopo tante assurde con danne e mancate profezie, che « Papini non è stato buon pro feta. Emilio Cecchi ha molto la vorato, ed è divenuto uno del maggiori critici italiani » ; do mandandosi, non senza incor rere nel ridicolo, se a tanto ri scatto « non abbia influito anche quella stroncatura ». Alla stregua dell’opportuni tà di simile ristampa, il richia mo di Vigorelli si è rivelato tem pestivo. Né noi, registrando l’epi sodio nei suoi particolari, abbia mo voluto consentire allo sterile piacere del pettegolezzo. Ci sono fatti di costume letterario che sa rebbe sbagliato non registrare. Nel caso particolare abbiamo in teso contribuire alla documenta zione di quanto il tipo di criti ca che prende nome dalle Stron cature â— nonostante ne sia sta to riportato qualche campione tra le Pagine scelte di Papini ad uso delle scuole (Mondadori, 1962) â— non risulti propriamen te il più adatto per restituire prestigio alla critica letteraria. Chi abbia curiosità per l’aneddo tica può mettere a riscontro il diverso spirito e modo con il quale Papini nella Sor’ Emilia (Stroncature, 127-129: Libreria della Voce, Firenze, 1916) e Sof fici in Fine di un mondo (Auto- ritratto d’artista italiano nel qua dro del suo tempo, IV, 105-115: Vallecchi, Firenze, 1955) raccon tarono uno stesso episodio ri guardante l’intervento di Cecchi presso Prezzolini acciocché la Vo ce non modificasse troppo la pro pria natura culturale. (Al ri guardo cfr. anche le lettere di Slataper a Soffici del 23 ottobre 1909 [Epistolario, 255-259: Mon dadori, 1950] è di Prezzolini a Papini del 24 ottobre 1909 [Papini-Prezzolini: Storia di un’ami cizia, I, 244-246: Vallecchi, Firen ze, 1966]). Non diremmo che il racconto e il giudizio dello stroncatore siano, nell’intento e nel risultato, più veri e più indipendenti di quelli del memorialista. La differenza è soprattutto di umanità.
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