di Raffaele Carrieri
[dal “Corriere della Sera”, giovedì 29 maggio 1969]
Cirene. Mi ha svegliato Marinetti che abita con la moglie nel mio albergo. Con altri amici siamo ospiti di un pascià. Da queste parti i pascià dalla fine del diciot tesimo secolo sono piuttosto scalcagnati. Invece, il nostro, aveva requisito il migliore al bergo del luogo. Si comincia va a bere spumante dalla pri ma colazione del mattino. Non lo posso soffrire perché mi fa starnutire. A Marinetti piaceva, soltanto non lo poteva bere per non molestare l’ulcera.
« Son venuto a dirti, mio caro-carissimo, che è arrivata la vedova. E’ arrivata alle cinque del mattino e si è mes sa subito a lavorare… ».
Guardavo insonnolito Marinetti e non riuscivo a capire di quale vedova parlasse. Non attendevo nessuna vedova, non ne conoscevo una sola per un raggio di trentamila chilometri. Della notte prece dente ricordavo soltanto di averla trascorsa sotto la tenda, guardato da due somali. Non mi era mai toccato un ono re simile ed ero così sorpre so ed ammirato che rimasi sveglio, seguendoli con lo sguardo, andare avanti e in dietro come una coppia di struzzi-militari.
Marinetti aveva in testa la paglietta e si era fatto ser vire in camera mia un bic chiere di latte. Mi sembrava di essere a Napoli in un al bergo di via Caracciolo. Non pensavo alla vedova ma a una granita di caffè che avrei voluto avere sul letto insieme a una brioche.
Le cose si mettevano per le lunghe e Marinetti preferì scendere; era sempre smanio so. Credevo fossero le nove, invece era mezzogiorno. Ave vo dormito forse dieci ore. La luce premeva contro le tapparelle chiuse male; una burrasca silenziosa di scaglie di diamante che penetrava da per tutto. Stentavo a levarmi. Mi piace trattenermi fra le lenzuola col corpo nudo: do po tanta sabbia, caldo e mo sche. Mi piace fumare e ver sarmi il caffè. La luce è fuori mentre io ero in ombra, al fresco, un piede sull’altro. In due settimane d’Africa non avevo incontrato una sola araba attraente.
*
Sono appena uscito dal ba gno e mi vesto per raggiun gere Marinetti; non lo trovo nel vestibolo, né lui, né gli al tri amici. Nei saloni del risto rante le tavole sono apparec chiate ma non si vede ancora nessuno. Sono gli ultimi gior ni di inverno. Il caldo si fa sentire, la luce è intensa. Han no disteso le grandi tende bianche e blu e si può im maginare, all’ombra, a una introduzione luministica per un concertino di Mozart.
Domando del pascià; mi di cono che è partito per Zilten a visitare le rovine della Vil la romana.
« Anche sua eccellenza? ».
« No signore, sua eccellen za è fuori a passeggio ».
Infatti lo incontro sulla spianata davanti all’albergo; è sudato e si fa vento con la paglietta. Mi dice: « Hai fat to bene a prendertela con co modo, fa caldo e la vedova è appena in fermento… Sta ballando dalle cinque di sta mane ma è tutt’altro che pronta… ».
Il cielo era di un bianco gessoso e le palme sembra vano lunghissime scope di ra gnatela. Da quella parte do ve apparivano più fitte si scor gevano mucchi di colonne, frontoni di templi diroccati, statue senza testa. Un paesag gio archeologico abbastanza triste in quell’aria arroventa ta. Sentivo la nenia degli ara bi raccolti in cerchio dove la spianata era interrotta e inco minciavano le rovine. La ve dova in fermento, quando rag giungemmo il gruppo degli arabi era in mezzo al coro degli ululati come un fagotto di stracci: una apparizione luttuosa.
Marinetti si era rimesso la paglietta perché il controluce era forte. Faceva uno sforzo a parlare, ma lo spettacolo lo attraeva. Disse che in Ci renaica era difficile incontrare una ballerina simile. La ve dova era una nomade, proba bilmente di razza berbera, fuggita dal confine tunisino. Nessuno la inseguiva; da an ni fuggiva da una regione all’altra, e ogni tanto si ferma va e si metteva a ballare. Nessuno conosceva il suo no me, a Cirene né altrove.
Ora la vedevo meglio. Rico perta di spessi veli neri era a piedi nudi; dei piedi espres sivi piantati nella sabbia co me nodose radici di vigna. Al contatto dei piedi la terra ri bolliva sollevando nuvoli di polvere biancastra. La danza trice era piccolina e stringe va nelle mani una canna tenuta orizzontalmente, all’al tezza del petto. Ogni minima vibrazione passava dalle ma ni alla canna che oscillava tagliandola in due. A dare questa impressione era la luce abbagliante che si interrom peva dove la canna era tesa.
Senza il virgulto tenuto stret to la vedova forse si sarebbe dissolta. Era come un punto di appoggio, un limite. Il pic colo corpo rinsecchito si an dava svegliando con lentezza caparbia e studiata, e sebbe ne occultato nelle gramaglie ondeggianti, lasciava indovi nare angoli e prominenze. Una faina perseguitata. Ballava da tante ore per addestrarsi me glio in ogni fibra. Ad ogni più impercettibile movimento le ossa diventavano cedevoli. Vena dopo vena il sangue cor reva più fluido articolando le membra come i rami di una pianta oscura. Una pianta in crescita nelle diverse oscilla zioni che andava proiettando, nero su bianco. Nessuna fo glia si perdeva, tutte divise e tutte insieme formavano un corpo indemoniato. Il tanfo che si sprigionava dagli arabi accalcati intorno alla danza trice mi dava la nausea: ero ipnotizzato da quella esigua figura che faceva tremare la luce sulla sua ombra in mo vimento.
Non potevo allontanarmi. Lo stesso succedeva a Marinetti che continuava a met tere il fazzoletto alle narici, tanto quel fetore lo molesta va. Avevo percorso centinaia di chilometri in poco più di una settimana. Avevo visto beduini spingere a cavallo mandrie di pecore. Ero en trato negli accampamenti dei pastori nell’interno della Ci renaica. Avevo sentito tutti gli odori dei mercati. Ma ecco che all’improvviso, sulla ra dura squallida di una zona archeologica, a pochi passi da un albergo di lusso sen tivo per la prima volta l’odo re dell’Africa; il respiro pe sante e antichissimo, presen te e istantaneo di tutto un continente. Mi sembrava di essere rinchiuso in un vetu sto provolone pieno di caver ne; a me era toccato il loculo più stretto, con le pareti ca prine indurite da secoli di sic cità. La sabbia, la luce, le palme stecchite sullo sfondo biancastro, il cielo di latte cagliato, gli arabi che si agi tavano in un ossessionante ansimare, tutto si accordava al soverchiante fetore. Una peste: e nella peste una appa rizione demoniaca, la danza trice.
*
Quelle che avevo viste nei locali notturni erano delle poverette che sbattevano il ventre come se avessero in goiato un gatto. A Parigi die tro il Boulevard Saint Michel, nel dedalo di viuzze scalcina te, c’era un localetto gestito da un turco dove le ballerine â— quasi tutte armene â— erano piuttosto brave a far ro teare i seni. Due pifferi e un tamburo ripetevano una sner vante cantilena. I ventri bian chi sussultavano da sinistra a destra, e viceversa. Gocce di sudore imperlavano le guance delle ragazze; i seni uscivano dalle mezze coppe di specchi come mele molestate dal di dentro da un verme. Tutto alla fine, si concludeva col giro del piatto.
Quella che mi stava ora da vanti era una emanazione terrestre e il fetore che l’av volgeva risaliva dai millenni del deserto. Una peste anti chissima espressa in immagini conturbanti. Gli stracci della vedova mettevano il lutto al sole. Erano stracci più animati degli uccelli notturni. Nugoli di volatili trasparenti tenuti insieme da un filo invi sibile. Comunque fosse lo sbattimento non una sola pen na volava per conto suo. La faccia della vedova prendeva poco spazio; dal viluppo delle oscure garze si vedevano ri splendere le pupille come stel le tragiche. Il profilo nei mo vimenti bruschi spingeva il crespo in avanti: il becco di un avvoltoio che si dibatte dietro una griglia.
Quelle che mi rapivano era no le correnti visibili che at traversavano le braccia e si diffondevano dal petto ai fianchi. Allora la testa muta va posizione, si spostava da una spalla all’altra raggiun gendo l’estremo limite del suo percorso, poi come colta da una catalessi parziale si im mobilizzava in una specie di nodo sacro. A muoversi era soltanto il busto. Un serpente che si sveglia in un sacco chiuso e preme da ogni par te per trovare una via d’usci ta. E siccome il sacco è più resistente del serpente la pres sione della fuga si rovescia dalla parte opposta con vibra zione maggiore. E questa vi brazione aumenta sempre di più salendo dai fianchi ai seni fino a raggiungere la testa, che al contatto immediato, ri prende a oscillare. Il fermen to, diffuso in tutte le direzio ni, si trasforma rapidamente in sussulto. Il ventre è per corso da colpi concentrici: rientrando in se stesso lascia un vuoto; poi di un balzo, co me sospinto da una corrente impetuosa, il ventre riappare simile a una sfera roteante.
Marinetti avvicinandosi mi sussurra all’orecchio: « Stai attento, caro-carissimo: da un momento all’altro la vedova partorirà un nuovo sole! ».