LETTERATURA: I MAESTRI: Chabod com’era nella vita10 Dicembre 2016 di Francesco Gabrieli Un’afosa notte estiva. Il son no leggero, già interrotto, sten ta a ripréndere, e nel dormive glia s’affacciano alla memoria, come a Turgenev errante per la foresta russa, immagini care di vivi e di morti, quasi can cellata la linea di separazione; più insistente fra tutte, un’al ta figura, un volto scarno e severo, di una severità pronta a sciogliersi in un buon sorri so. Mi accorgo guardandolo che pochi giorni fa si son com piuti dieci anni dalla sua scom parsa, e per me dalla fine di uno degli inconfessati e incor risposti amori della mia vita. Non posso qui ricordare Fe derico Chabod, come han fat to a suo tempo amici ben più qualificati di me, semplice di lettante di storia occidentale (eppure a una sua iniziativa si deve quella raccolta di Sto rici arabi delle Crociate che mi ha fatto mettere di sbieco un piede anche in quel campo). Vorrei solo rievocare, per me stesso e per chi potesse associarvisi, alcuni di quei foto grammi della memoria, quali mi si son riaffacciati tra il son no e la veglia in questa notte d’estate. I libri di Chabod, spe cie dopo la sua morte, han var cato largamente la cerchia de gli specialisti: l’opera è lì, se condo alcuni unica sopravvi venza dell’uomo. Ma l’uomo vi vo, quello che abbiamo ammi rato e amato, trascende anche da semplice èìdolon quella pre senza immanente nell’ opera, sollecita come persona il no stro personale ricordo e rim pianto. Ecco dunque lo Cha bod, gli Chabod che io rivedo risalendo il corso degli anni. Sulla fine degli anni Venti, nella redazione della delollisiana Cultura: tra gli amici riu niti attorno al maestro c’è un giovane lungo lungo, chiuso in un suo timido riserbo di mon tanaro. Apprendiamo che è l’autore del già noto e apprez zato saggio sul Principe, in par tenza per la Spagna, dove fa rà ricerche nel grande archivio di Simancas (ne nacquero in fatti i suoi luminosi studi sul ducato di Milano nel Cinque cento). Un suo predecessore in quelle ricerche ci aveva da po co lasciata la vita, e noi squa drammo il successore designa to con una certa apprensione… Ma Chabod andò, lavorò e tor nò, carico di schede ed appun ti; e poco dopo ce lo trovam mo a fianco nella redazione della Enciclopedia italiana, che attirava e utilizzava in ogni campo le migliori energie del la allora giovane generazione di studiosi. Giovanni Gentile, dispotico amante paterno, imperava su quelle giovani leve; ma per Chabod, come era fisicamente impossibile parlargli dall’alto in basso, così ci è sempre sem brato che lo fosse anche in sen so figurato, tanto la sua sta tura intellettuale e morale im poneva rispetto anche a soli 30 anni. Perciò, forse, non ar dimmo mai proferirgli esplici tamente e chiedergli amicizia: ma ogni occasione di intratte nersi con lui ci confermava quel desiderio e quel piacere. L’Enciclopedia, si sa, al riparo dell’Atto puro, era allora un centro di fronda, e più di una volta le nostre discussioni dal la critica del regime tendeva no a trapassare a quella del l’istituzione che quel regime avallava, contrapponendo l’an tifascista Chabod al fedele sud dito valdostano dei Savoia. « Forse hai ragione », mormorò egli una volta soprapensiero, a una mia mazziniana diatri ba sulla Repubblica come più alto ideale politico non contaminabile da incarnazioni inde gne; e di quell’approvazione del mio quasi coetaneo fui fiero come di quella d’un venerato maestro. Passano gli anni, e ci si ri trova alla facoltà di lettere della università romana, dove egli insegnò con quel prestigio e autorità internazionali cui era rapidamente salito. In questi anni di contestazione, mi sono più volte chiesto come se la sarebbe cavata, o piuttosto come se la sarebbero cavata i contestatori con lui. Ma ricor do bene una seduta di facoltà di anni lontani, ove egli parlò a lungo, in tema di riforme di dattiche e del rapporto coi gio vani, con un calore, una lungi miranza, una spregiudicatezza di idee, che strappò alla fine di quell’improvvisato discorso l’applauso dei colleghi soggio gati e commossi. Di come egli trattasse i suoi studenti, dirò un solo ricordo: una ragazzina di mia conoscenza, che aveva preparato al Record Office di Londra la tesi da lui proposta le, sull’Inghilterra e l’Italia ne gli anni cruciali del Risorgi mento, andò un po’ trepidante a sentirne il giudizio dopo la prima lettura. « Questa tesi è scritta coi piedi », fu la prima accoglienza borbottata dal gi gante alla novellina, che si sen tì sprofondare; ma poi si ri confortò quando il maestro le mostrò di aver apprezzato se non lo stile la sostanza del la voro, e quando lo difese, lodò e fece lodare in sede di discus sione. A quel tempo, cioè nell’ulti mo decennio della sua vita, Chabod era tornato interamen te agli studi, che aveva inter rotti per la Resistenza e poi la lotta per salvare all’Italia la sua diletta Val d’Aosta. In una stanzetta d’albergo qui in Ro ma, ancor nel corso di quegli anni fortunosi, egli mi raccon tò sommariamente le fatiche, le amarezze, i pericoli corsi per serbare alla Patria maggiore la sua piccola patria alpina (com preso il grido di una energumena, quando egli dové affron tare in Aosta, al rischio della vita, un tumulto di separati sti: « Livrez-le à la justice du peuple!… »). De Gasperi riceven dolo in quel periodo parlava scherzosamente dell’incontro di due Presidenti, e fuor di scher zo non so quale sarebbe stata la sorte della Val d’Aosta, in quegli anni ove l’Italia ex-im periale era taillable et corvéable à merci, senza la tenacia, l’abilità, il coraggio di Federi co Chabod; il quale, una volta compiuta l’opera conciliatrice dell’autonomia valdostana con l’unità, fu felice di dire addio alla politica, e tornare al suo Carlo V e alla politica estera dell’Italia dopo il ’70, per ricor dare appena due dei temi da lui prediletti, oggetto di talu ne fra le sue opere maggiori. E gli anni che dovevano essere i suoi ultimi, egli li passò in quei santuario napoletano de gli studi storici, accanto al gran Vecchio che lo volle a capo dell’istituto da lui fonda to. Discepolo ideale di Croce, Chabod era stato nei suoi gio vani anni anche alla scuola berlinese di Friedrich Meinecke, lo storico della ragion di Stato e dell’imperialismo tedesco; e quel grande tedesco ed euro peo, lo sentimmo alla sua scom parsa degnamente commemo rare da lui ai Lincei. Poi, dall’acme piena e fecon da al prematuro tramonto; le ultime immagini che ci restano di lui sono di stanze di clinica, fra timori e speranze inganne voli, tra sofferenze fortemente affrontate; fino a quella imma gine definitiva, con un malin conico sorriso sulle labbra sug gellate, accanto alla fida com pagna impietrita dal dolore. Luglio ’60, ad appena 60 anni. Cosa avrebbe potuto fare e da re in altri due decenni di vita, questo valdostano, italiano ed europeo di schiettissima tem pra, che dall’amore delle pa trie montagne assurgeva all’i deale e al concetto di un’Euro pa unita, nella libertà e nella pace, è il mistero di tutto ciò che non è stato. « Il mio sogno è rimasto un sogno », sono sue parole giunte a noi dal suo ul timo ricordo. Ma il suo nobile sogno è divenuto il sogno d’al tri, forse altrettanto irrealizza bile, eppure stimolo, conforto e giustificazione della vita.
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