LETTERATURA: I MAESTRI: Donna cavallo13 Febbraio 2018 di Alberto Moravia Mentre scendo dall’automobile, nell’afa accecante del mezzogiorno, qualcuno che non vedo, mi dice: « caval lona », passandomi accanto. Entro in casa; i miei genitori sono già a tavola, li ve do attraverso i vetri della porta; vado direttamente nel la mia camera e mi spoglio in fretta per la doccia. Nuda, salgo nella vecchia vasca in callita, afferro l’antiquata doccia a mano e ne dirigo il magro zampillo sul mio cor po. C’è uno specchio oblungo proprio di fronte alla vasca; e io mi vedo intera, in atto di annaffiarmi. Guardandomi, la parola « cavallona » mi torna in men te e non posso fare a meno di riconoscerne la verità. So no infatti molto alta con le spalle larghe e il bacino lar go; ma ho gambe lunghe, agili e magre; e, nell’insieme, la grande macchina femminile del mio corpo dà un’impressione di armonia e persino di eleganza. Appunto come i cavalli che sono i soli ani mali ad essere al tempo stes so grandi e graziosi. Purtrop po, anche la mia faccia os suta è cavallina, con la fronte molto bassa, il naso lungo e la bocca prominente. Ma so prattutto i miei occhi fanno pensare a quelli di un ca vallo. Rotondi, neri, limpidi, rivelano tuttavia una folle inquietudine in fondo alla loro limpidezza. Mi domando a questo pun to se lo sconosciuto passante dicendomi « cavallona », ab bia voluto farmi un compli mento. E decido che si è limi tato a definirmi, a descrivermi. Sì, è così, sono una « cavallona », una ragazza che se si fosse sposata, chis sà, forse sarebbe adesso sem plicemente una matrona; e che, invece, restando nubile, è diventata pian piano la ca ricatura di se stessa e ha fini to per rassomigliare ad un animale. L’idea del cavallo mi torna a tavola, poco dopo. Mio padre allunga una mano per farmi una carezza e io ho subito uno scarto violento con il capo, proprio come un ca vallo. Mia madre mi nomina d’improvviso: « Rossana », e io, al mio nome, faccio un salto, appunto come un ca vallo che si adombra. Mia madre allora domanda: « Ma si può sapere che hai? Che stai pensando? » Sto pensando che odio i miei genitori e che non ce la faccio più a vivere con loro. Ma sto pensando pure che non mi hanno mai fatto nien te di male e che io non sto bene con loro soltanto perché sono felici e la loro felicità mi esclude. Ma bisogna intendersi su questa felicità. Forse sarebbe più esatto dire che sono riu sciti a creare tra di loro un equilibrio, un rapporto come di parti che si completano. Davvero, ciascuno di loro po trebbe dire dell’altro, secondo il linguaggio borghese: « Que sta è la mia metà ». Purtrop po, però, l’intero che queste due metà vengono a formare non è dei più amabili. Così al sentimento dell’esclusione si aggiunge, in me, quello della rivolta. Ecco mio padre: faccia flo scia, gonfia, occhi celesti di espressione fatua, naso a bul bo, bocca ghiotta, capelli biondi ingrigiti ancora ricci e sempre spettinati. Tutta la sua persona esprime una sen sualità invereconda e assolu tamente ripugnante. Ed ecco mia madre. E’ più vecchia di mio padre, potrebbe essere una zia e una sorella mag giore. Nella sua magrezza angolosa, nella sua severità spiritata non c’è neppure una stilla di quella sensualità che mi dà tanto fastidio in mio padre. Anche questo mi ripu gna. Non è giusto né essere così sensuali come mio padre né così poco sensuali come mia madre. Poi, ecco, avviene qualche cosa che fa scattare il mec canismo della felicità dei miei genitori. Entra la domestica che mia madre ha assunto da una decina di giorni. Mi col pisce, una volta di più, la « sconvenienza » di questa donna, che, però, se la consi dero dal punto di vista di mio padre e di mia madre, si cambia subito, magicamente in « convenienza ». Matura e appariscente, ha i capelli tinti di un brutto rosso ramato, con una ciocca disfatta che le pende di continuo attraverso l’occhio immobile e fa tale. E’ piccola, quasi contraf fatta, con il seno e il sedere prominenti; cerca di correg gere questa indecenza natu rale con la ridicola e volgare superbia del portamento. Ci serve con l’aria di chi fa un mestiere non suo e che disprezza, offrendo il vassoio pericolosamente inclinato e girando il capo indietro come a dire: « Su, sbrigati, ché sto aspettando ». Gli occhi di mio padre la seguono in tutti i suoi gesti; e gli occhi di mia madre seguono gli sguardi di mio padre. Poi la donna por ge il vassoio a mio padre e lui, posando la mano sulla tavola, fa in modo di sfiorarle la mano. Mia madre dice tranquillamente: « Non si toc ca la mano alla cameriera ». Mio padre si serve e, come se niente fosse, prende a mangiare in silenzio. Perché dico che sono felici? Perché si sostengono a vicenda. La sensualità di mio padre giustifica il moralismo di mia madre allo stesso mo do che quest’ultimo giustifica la sensualità di mio padre. Qualche volta mi domando cosa c’era in principio, com’è nato questo infrangibile equi librio e non vengo a capo di nulla. Forse c’era la sensua lità, e il moralismo ne è nato come reazione; ma forse, in vece, c’era il moralismo e la sensualità non è stata che un effetto di questa causa. Co munque il connubio tra mia madre che reprime e mio pa dre che viene represso, fun ziona. Il fatto che, nonostan te i miei numerosi tentativi di intervenire e di parteci pare alla vita della famiglia, io mi sia sempre sentita, at traverso gli anni, costante mente esclusa. Penso queste cose a testa bassa, di fronte al piatto an cora pieno, senza mangiare. Poi ho ancora uno scatto da cavallo. Vedo la domestica camminare attraverso la stanza e mio padre seguirne i movimenti con sguardo furtivo. Mia madre dice con voce sommessa: « Occhio lungo ». Allora, poso il tovagliolo sul tavolo, farfuglio che non ho fame, mi alzo di colpo e me ne vado nella mia camera. Mi getto sul letto e aspetto con impazienza che i miei genitori si siano rinchiusi nel la loro camera per il riposo del pomeriggio. Mentre aspet to, non penso niente; assisto meravigliata al tumulto in coerente della mia fantasia. Finalmente, appena sono si cura che dormono, suono il campanello. Si bussa; dico: avanti; la domestica si affaccia senza entrare, appoggiandosi, fami liare e neghittosa, allo stipite della porta. Le dico: « Mar gherita, si rende conto che così non si può andare avanti? ». Stranamente, mi dà subito ragione: « Lo so, ma mi dica lei cosa posso farci ». « Si licenzi ». « Ho già provato quattro volte. Ma sua madre mi ha supplicato a mani giunte di non andarmene. E io allora sono rimasta ». « Dica la verità: mia ma dre l’ha persuasa a restare con un aumento molto forte dello stipendio ». « Beh, sì, ma cosa dovevo fare? Rifiutare? ». « Non dico questo ». « E allora torno a chie derlo: cosa debbo fare, tra suo padre che, appena può, mi mette le mani addosso, e sua madre che pur di farmi restare mi paga il doppio degli altri? ». Ecco, la mia follia caval lina insorge. Rispondo quasi senza riflettere: « Dica a mio padre che lei ci sta, a patto che pianti mia madre e vada a vivere con lei ». La vedo guardarmi, genui namente sorpresa. In fondo è una persona di buon senso e non comprende certe cose. Domanda lentamente: « Ed è proprio lei a farmi una si mile proposta? ». « In tutti i casi, chieda di mangiare a tavola con noi come membro di diritto della famiglia ». Margherita non apprezza la mia stravaganza. Mormora tra i denti: « Che razza di famiglia! »; e se ne va lenta mente, lasciando la porta se miaperta. Rimasta sola vado alla fine stra e guardo imbambolata, alla strada. Abitiamo a via Nazionale, al secondo piano di una vecchia casa. Quattro file di automobili, due per un verso e due per l’altro, avan zano lentamente in un’aria velata dall’afa e dai fumi del la benzina. Tra tutte queste macchine, ecco, incede una vecchia carrozza di piazza, col suo cavallo. Com’è strano il cavallo tra tutte quelle automobili! Com’è singolare il suo corpo grande e grosso sulle quattro gambe sottili! E come si vede che « morde il freno », inquieto, incapace di inserirsi nel traffico mec canizzato! Lo guardo affasci nata e fraterna. La parola « cavallona » evidentemente continua ad agire. Mi dico che sono « matta come un cavallo »; e pur guardando alla carrozza che si allontana pian piano tra le macchine, comincio a piangere, ritta in piedi contro il davanzale, sporgendo le labbra ad affer rare le lagrime, appunto co me un cavallo sporge la bocca ad afferrare la zolla di zuc chero.
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