LETTERATURA: I MAESTRI: Fogli di diario #11/11
1 Settembre 2008
di Carlo Cassola
[da “Corriere della Sera”, domenica 10 marzo 1968] Â
Ho letto una biografia di D. H. Lawrence: autore uno scrittore belga, Daniel Gillès. Anni fa avevo letto quel Âla di Piero Nardi. I partico Âlari biografici mi hanno con Âfermato nel mio giudizio sul Âlo scrittore.
Lawrence non si pose pro Âblemi di rinnovamento for Âmale: egli adottò la forma romanzesca trasmessagli dal Âla tradizione. A prima vista i suoi romanzi non si disco Âstano dal romanzo vittoria Âno: sono lenti, prolissi, sen Âtenziosi. Manca tuttavia un elemento tipico del romanzo vittoriano: l’intrigo, la su Âspense romanzesca.
Lawrence fu dunque un contenutista. Finché il con Âtenuto fu rappresentato dai sentimenti, fu un grande scrittore; quando il contenu Âto fu rappresentato da un messaggio – il puerile mes Âsaggio di salvezza per l’uma Ânità – diventò un cattivo scrittore. È vero che anche quando predica non manca di una certa grandezza: ma questo fa solo rimpiangere che abbia lasciato la letteratura per la predicazione.
In Figli e amanti espresse sentimenti particolari, con una verità e purezza straor Âdinarie; ma attraverso essi espresse anche il sentimen Âto generale dell’esistenza. Figli e amanti dà il senso dell’esistenza. È stato il pri Âmo grande romanzo che ab Âbia letto da giovane e per me è rimasto sempre « il ro Âmanzo ». Ma credo che pos Âsa davvero essere annovera Âto tra i grandi romanzi di ogni tempo.
Come Joyce, Lawrence non sapeva inventare. I suoi personaggi hanno avuto tut Âti un modello nella realtà . Il limite autobiografico era in lui fortissimo, e questo spie Âga il suo esaurimento dopo Figli e amanti. A sua volta questo esaurimento spiega la sua involuzione.
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Nel fondo io sono uno scrittore (e un lettore) esi Âstenziale, perciò non può piacermi una letteratura che si ostina a dare un giudizio della realtà (e continua quindi la tradizione dell’Ottocento, anche quando si spaccia per avanguardia). La realtà , l’esistenza, va ac Âcettata com’è, e non soppor Âta giudizi di valore, perché è essa stessa un valore, anzi l’unico valore.
Del resto questo giudizio sappiamo bene a che cosa si riduce: a pura negatività , a nichilismo. È ormai mezzo secolo che la letteratura sfor Âna con monotonia esaspe Ârante i suoi temi negativi. Nove volte su dieci, prima ancora di aprire un roman Âzo, sappiamo già che ci tro Âveremo qualcuno dei temi negativi di moda, la noia, la nausea, l’incomunicabilità , la alienazione eccetera. La gal Âleria degli eroi del nostro tempo è una sfilata di perso Ânaggi negativi: gli aridi, gli indifferenti, gli stranieri, i voyeurs eccetera. Quasi sen Âza volerlo, ho detto i titoli di alcuni tra i romanzi più noti di questa letteratura: Gli indifferenti di Moravia, La nausea di Sartre, L’étranger di Camus, Le voyeur di Robbe-Grillet, La noia di Moravia.
Ora  secondo  me  Moravia è uno  scrittore autentico; forse anche  Robbe-Grillett  è uno scrittore autentico; mentre  non  ho  mai creduto in Sartre e Camus (in Camus ancora meno che in Sartre). Comunque nella stragrande maggioranza dei casi il nichilismo è una rappresentazione convenzionale, a cui si appigliano tutti coloro che mancano di una visione personale della realtà . La retorica dei cattivi sentimenti, dell’assenza di sentimenti, fa evidentemente il paio con la retorica dei buoni sentimenti cara all’Ottocento; il pessimismo programmatico, con l’ottimismo programmatico; la catastrofe finale d’obbligo nel romanzo novecentesco con il lieto fine d’obbligo nel romanzo ottocentesco. Si può esser sicuri che il lettore del Duemila sorriderà di questa retorica «nera », così come noi sorridiamo della retorica «rosa » del secolo passato. Â
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