LETTERATURA: I MAESTRI: Fogli di diario #2/11
1 Luglio 2008
di Carlo Cassola
[dal “Corriere della Sera”, sabato 28 giugno 1969] Â
Nei precedenti Fogli di dia Ârio ho detto che non soppor Âto i film storici: anche se poi ho dovuto correggermi, precisando che non sopporto i film ambientati in epoca anteriore all’invenzione della fotografìa. Resta comunque vero che non mi dispiace affatto se un film ha un forte sapore d’attualità . Mi fa addirittura piacere ritrovare in un film l’eco dei recenti fatti di cronaca o la sottolineatura dei nuovi fatti di costume.
In un romanzo è l’inverso: anche un lieve sentore di at Âtualità basta a infastidirmi. Vuol dire che ammetto solo i romanzi storici? Sarebbe una affermazione azzardata: gran Âdi scrittori e grandi romanzi sarebbero là a smentirmi. Cito i primi che mi vengono in mente: la Commedia umana si svolge in gran parte al tem Âpo in cui Balzac la scriveva; L’educazione sentimentale di Flaubert, uscita nel 1869, ha il suo epilogo nel 1867; nei racconti di Cechov non c’è indicazione di data, ma è fa Âcile avvertire che sono con Âtemporanei all’autore; Tess dei d’Urberville e Jude l’oscu Âro di Thomas Hardy si svol Âgono o si concludono intor Âno al 1890, cioè negli anni in cui furono scritti. Potrei continuare con Anna Karenina (ma è un romanzo che non mi piace) e con I demo Âni (che prende spunto da un fatto di cronaca: si sente e mi dà un certo fastidio). Potrei anche ricordare qualche bel   romanzo  del  Novecento, come Fiesta di Hemingway.
D’altra   parte   il   romanzo storico   che   ricostruisce   una epoca remota, defunta, non è fatto certo per piacermi. Tolstoj concepì l’idea di un ro Âmanzo ambientato all’epoca della grande Caterina; ma abbandonò il progetto, perché, disse, non riusciva a vedere come gestivano le persone. Mentre non gli era stato difficile immaginare i gesti del principe Andrea, anche se lo aveva fatto morire nel 1812, cioè sedici anni prima della propria nascita.
Credo di  poter concludere così :  un romanzo può essere storico o contemporaneo:  ma nel  primo  caso non si  deve trattare di una storia remota; mentre   nel   secondo   caso il romanzo non deve avere carattere di attualità . Intenden Âdo per attualità la configurazione del presente operata dagli specialisti in materia, cioè dai sociologhi, dagli psicologi, dai giornalisti, eccetera. In altre parole, un romanzo può benissimo svolgersi al giorno d’oggi: ma guai se tratta i temi di moda, guai se usa il linguaggio di moda. Se oggi è di moda la contestazione, un romanziere ne potrà parlare tra vent’anni; la parola «contestatario » la potrà adoperare fra vent’anni.
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Ho appena finito di leggere un romanzo contemporaneo. L’autore, è più anziano di me; pure, sembra il romanzo di un giovane, di un esordiente. Il tema, il procedimento nar Ârativo, il linguaggio, tutto è terribilmente à la page.
E’ un fenomeno purtroppo assai diffuso, quello dello scrit Âtore che si aggiorna; e per farlo non esita a sbarazzarsi di un lungo e laborioso tiro Âcinio letterario. In modo da ripartire da zero (come se fosse un vantaggio).
La paura di apparire supe Ârati fa compiere questi insen Âsati sacrifìci. Per rimanere nel Âla storia, uno si butta alle spalle la propria storia perso Ânale (che è la «sola che conti).
E’ già grave per un giovane scambiare   l’attualità   per la realtà : figuriamoci per un anziano. Se l’esperienza ci ha insegnato qualcosa, ci ha in Âsegnato proprio a diffidare dell’attualità . Ciò che è at Âtuale oggi, è dimenticato do Âmani. Anche di mode lettera Ârie, ne abbiamo viste passare! E abbiamo visto la miseran Âda fine di chi ha avuto la dabbenaggine di prenderle sul serio.
La realtà è in noi, nella nostra natura, nei nostri sen Âtimenti, nelle nostre esperien Âze di vita, nella nostra sto Âria personale. Chi butta via il passato, non si libera di un’inutile zavorra: butta via tutto.
Tornando al discorso inizia Âle: al cinema non mi dispiace vedere riprodotta la superfì Âcie delle cose, i mutamenti via via introdotti dalla tecni Âca, dalla trasformazione socia Âle, dal costume, dalla moda (che so, i telefoni ieri bian Âchi e oggi rossi); ma guai se uno scrittore vuol dare il sen Âso del presente servendosi di questi mezzucci.
Analogamente: guai se vuo Âle dare il senso del passato con notazioni del genere. Tolstoj, in Guerra e pace, descrive un mondo poco differente dal suo: cinquanta o sessanta anni avevano portato pochi cambiamenti nella sonnolenta Russia. »
Egli può quindi prestare tranquillamente ai personaggi gesti, parole, pensieri, sentimenti, stati d’animo propri del suo tempo, cioè di mezzo secolo dopo. A volte, si preoccupa di mettere in evidenza qualche piccola differenza: e regolarmente sbaglia. Per esempio insiste sul fatto che le scollature delle signore erano allora molto più abbondanti, al punto che il seno era quasi nudo: col risultato che il lettore si irrigidisce, avverte la finzione, smette di prestar fede a una ricostruzione storica che fino a quel momento lo aveva pienamente persuaso. Tolstoj non avrebbe dovuto avere una preoccupazione del gene Âre. Che la vicenda si svolga in un tempo ormai lontano,, che i suoi giovani protagoni Âsti siano ormai vecchi o mor Âti, lo abbiamo avvertito su Âbito. Tolstoj ce l’ha fatto sen Âtire nel solo modo consentito a un poeta, con la poesia, appunto.
Lo scrittore non può avere a che fare con la cronaca. Egli può essere anche tentato di rappresentare il presente, ma confrontandolo in qual Âche modo col passato (col proprio passato) . La memoria gioca un ruolo essenziale an Âche nel romanzo contempo Âraneo: e non potrebbe essere diversamente, senza memoria non c’è poesia.
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Uno scrittore della mia ge Ânerazione, quanto potrebbe spingersi lontano nello scrive Âre un romanzo storico? Temo anche meno di quanto potè spingersi Tolstoj. Se il Sette Âcento era estraneo a Tolstoj, a noi è estraneo l’Ottocento.
Nel volume di Luigi Baldacci «Le idee correnti », tro Âvo due brevi ma impegnativi saggi sulla poesia e la narra Âtiva italiana del Novecento. Ogni volta Baldacci si pone giustamente una domanda pre Âliminare: Quando comincia la poesia del Novecento? Quan Âdo comincia la narrativa del Novecento? Con quali autori, con quali opere? E in che consiste la nota nuova, il di Âverso rapporto con le cose, la mutata inflessione di voce, insomma quel quid che ci fa subito riconoscere uno scrit Âtore del Novecento?
Mi pare che Baldacci risolva   in   modo   convincente il quesito  (il Novecento letterario comincia dopo D’Annunzio, e anche dopo Gozzano).
Quanto a me, non sono un critico, né tanto meno uno storico della letteratura, può darsi quindi che certe domande non me le sia mai poste; ma è certo che ho sempre sentito in modo netto lo stac Âco tra la mentalità ottocente Âsca e la mia. Lo sentivo an Âche da ragazzo, benché igno Ârassi del tutto la letteratura del Novecento; e leggessi so Âprattutto Carducci, cioè un poeta tipicamente ottocentesco (ma lo leggevo a modo mio, trovandoci riflesse emozioni mie.
Ricordo come avvertivo questo stacco stando con un parente a cui pure ero grandemente affezionato. Questo mio parente amava molto la campagna; e mi portava con sé nelle sue passeggiate. Ogni tanto mi taceva notare (qual Âcosa; o anche non mi diceva nulla, ma io mi accorgevo ugualmente che la sua attenzione s’era posata su questo o quel particolare della cam Âpagna circostante. E ogni vol Âta, dovevo constatare che i nostri gusti divergevano.
Prendiamo il caso più sem Âplice, quello di una pianta. La mia attenzione poteva es Âsere attirata da qualsiasi pian Âta; ma poteva darsi anche il contrario, che nessuna mi ap Âparisse degna di nota. Egli invece sembrava consultare di continuo un’invisibile guida, alle cui avvertenze si attene Âva nel modo più scrupoloso. Come le bellezze artistiche, anche le bellezze naturali era Âno elencate in quella guida; e contrassegnate con uno o più asterischi, a seconda del grado di considerazione di cui dovevano essere fatte oggetto. Un cipresso esigeva sempre una sosta, come un albero la cui nobiltà ed eleganza non poteva esser messa in discus Âsione. Un viale di cipressi poi, era una veduta incomparabi Âle. Ugualmente fuori discus Âsione era la maestosità dei castagni e delle querce. Un olivo invece era degno di at Âtenzione solo se usciva dal Âl’ordinario: che so, se era gi Âgantesco, o se aveva una for Âma bizzarra. O se era centenario (tutto ciò che è antico merita venerazione). Insomma, a quel mio parente un albero non piaceva mai per se stesso, ma per qualche at Âtributo che gli si poteva ap Âpiccicare, per qualche significato che gli si poteva far as Âsumere, per qualche remini Âscenza letteraria che suscita Âva. Egli era sempre quindi in grado di spiegare le sue preferenze. Mentre io, non avrei mai potuto spiegare le mie. Non avrei mai potuto spiegare perché la mia atten Âzione era stata improvvisa Âmente attirata da una pianta che non aveva nulla di spe Âciale, di cui magari ignoravo anche il nome. Così, se ci fos Âsimo messi a discutere, sarei rimasto soccombente. Ma in cuor mio ero già deciso a ri Âfiutare quella bellezza codifi Âcata a cui il mio ottocentesco parente rendeva scrupoloso omaggio.
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