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LETTERATURA: I MAESTRI: Fogli di diario #9/11

19 Agosto 2008

di Carlo Cassola
[dal “Corriere della sera”, martedì 6 ottobre 1970]  

«Tu m’hai detto primo – che il piccino fermento – del mio cuore non era che un momento – del tuo; che mi era in fondo – la tua legge rischio ­sa: esser vasto e diverso – e insieme fisso »: così Montale rivolgendosi al mare. Non ho riportato questi versi per riba ­dire la superiorità della vita sulla poesia (il mare, nella poesia di Montale, è il massi ­mo simbolo della vita. La poe ­sia non è che un « piccino » fermento rispetto al grande fermento della vita). Ho ri ­portato quei versi perché met ­tono in luce una difficoltà di fondo davanti a cui si trova chiunque si sia accinto all’im ­presa quasi disperata di scri ­vere.
Non ci si trova subito. Un giovane che voglia scrivere deve solo dare un’immagine di se stesso. Le prime prove sono in genere insoddisfacen ­ti: non si è espresso sincera ­mente, ha imitato questo o quel poeta, questo o quel nar ­ratore. Se finalmente riesce a esprimere qualcosa di perso ­nale, il primo e più importan ­te passo è fatto. Ma il cam ­mino di uno scrittore, lo dice la parola, esigerà che egli sia in grado di fare altri passi. In quale direzione?
Uno scrittore deve essere « fìsso », cioè fedele a se stes ­so. La fedeltà è il contrario della disponibilità. Uno scrit ­tore che sia disponibile per ogni avventura letteraria che gli venga suggerita dalla moda o dal gusto o dalla sugge ­stione del momento, va inevitabilmente in malora.
D’altra parte, se uno scrit ­tore non si rinnova, corre il rischio di ripetersi. E di ripe ­tersi sempre più stancamente. La fedeltà in questo caso di ­venta un alibi, dietro cui si nasconde l’esaurimento della vena o la pigrizia o la paura di mettere a repentaglio il po ­sticino conquistato nelle pa ­trie lettere. E’ soprattutto que ­sta paura, credo, a rendere guardingo lo scrittore affer ­mato. C’è in lui la tendenza a chiudersi nel proprio bozzo ­lo, a stare fermo nella propria nicchia, a campare di rendita. Ripetendosi, lo scrittore sca ­de a letterato: non è più con la vita che si cimenta, ma con la letteratura (con la propria letteratura). Diventa il mag ­giore imitatore di se stesso. In un’intervista Pasternak ebbe a dire che Ulysses sareb ­be un capolavoro se vi fosse conservata la freschezza di Dubliners. Era, mi pare, un miracolo impossibile. La fre ­schezza dì Dubliners deriva dai fatto che Joyce scopriva allora la sua materia, il suo mondo; probabilmente non era nemmeno troppo consape ­vole della scoperta.
Lo stesso Pasternak ha del resto condannato lo sperimen ­talismo, che fu il tarlo della sua generazione. Riferendosi alle ricerche espressive dei coetanei, dice: « Non ho mai capito queste ricerche. Secon ­do me, le scoperte più stupe ­facenti si sono prodotte quan ­do l’artista, sopraffatto da tut ­to quello che portava in sé, non aveva il tempo di riflette ­re e doveva pronunciare la pa ­rola nuova in un linguaggio vecchio, senza aver potuto chiarire se questo linguaggio era vecchio o nuovo ».
Le ricerche degli sperimentalisti sono naturalmente una cosa seria: vengono compiute in vista di un contenuto nuo ­vo da esprimere. Mentre non sono una cosa seria le ricerche dell’avanguardia, che non ha niente da esprimere, è mossa solo dal proposito di dissolve ­re il vecchio linguaggio.
Resta comunque vero che lo sperimentalismo dà il senso dello sforzo, se non della for ­zatura. Questo è il suo limite.
 

*

Lo scrittore deve evitare il pericolo di ripetersi. Ma non bisogna dimenticare che lo scrivere è sempre in bilico tra due opposti pericoli. Per evi ­tare di cristallizzarsi, lo scrit ­tore non deve correre il ri ­schio di uscire da se stesso.
Abbiamo tutti la tendenza ad autolimitarci, in modo an ­che abbastanza arbitrario. Gli altri contribuiscono a raffor ­zarci nell’idea che siamo fatti in un certo modo, e che di conseguenza dobbiamo com ­portarci in un certo modo. « Questa non me la sarei mai aspettata da te »: ecco la fra ­se con la quale veniamo bol ­lati se tanto tanto usciamo dai binari.
Fortunatamente abbiamo anche la tendenza a ribellar ­ci alla tirannia nostra e al ­trui. Specialmente, s’intende, a quella altrui. In genere ogni tentativo di definirci, sia pure in modo positivo, ci irrita, ci indispettisce. Se qualcuno per esempio mi dice: « Lei che è una persona comprensiva… », mi viene voglia di trattarlo male. Per dimostrargli appun ­to che non sono comprensivo.
Un critico può irritare uno scrittore in due modi opposti: 1) chiedendogli di uscire da se stesso; 2) chiedendogli di non uscire da se stesso, o me ­glio, da un certo cliché col quale è stato definitivamente etichettato.
In altre parole, lo scrittore si irrita quando lo si invita a una mobilità che non gli è congeniale; o quando invece lo si condanna a una immobi ­lità perpetua, quando gli si nega a priori la possibilità di svolgersi e di rinnovarsi. La critica militante, quella che si illude di promuovere il corso della letteratura, adotta il primo atteggiamento; la critica accademica, il secondo. La cri ­tica accademica è imbalsamatrice. Si trova a suo agio solo con gli scrittori morti, che co ­me tali non possono più riservare sorprese.
Si usa dire che uno scritto ­re riscrive sempre lo stesso li ­bro. E’ un’affermazione che può essere vera per alcuni scrittori; per altri non lo è.
Lo scrivere nasce da un’esi ­genza di rappresentazione e da un bisogno di sfogo. Non dirò che siano due spinte contraddittorie; ma non sono nemmeno complementari, o è difficile che lo siano. La con ­templazione dell’esistenza e la partecipazione alla vita, se non si escludono a vicenda, nemmeno si fondono. L’ideale sarebbe che si fondessero in un’unica sollecitazione a scri ­vere.
In altre parole, è difficile che uno riesca a esprimersi globalmente. In genere espri ­me solo questo o quel lato della sua indole. La « vastità » è un ambìto traguardo: ma può essere una trappola. Quanti scrittori sono stati tra ­diti dall’ambizione di esser vasti!
I politici sono « genii dell’autolimitazione », come dice Pasternak. Chissà che la stes ­sa definizione non vada bene anche per gli scrittori.
La contemplazione dell’esi ­stenza è immutabile e perciò stesso inesauribile. E’ immu ­tabile perché il nostro senti ­mento esistenziale non cam ­bia più dopo l’infanzia e l’ado ­lescenza: è nelle età in cui si scopre il mondo che esso as ­sume la sua forma definitiva. E le età in cui si scopre il mondo sono le prime stagioni della vita.
Di questa verità, la coscien ­za estetica è fin troppo consa ­pevole. Il « poeta ut puer » è una mezza verità. E’ questa mezza verità che porta all’affermazione che uno scrittore riscrive sempre lo stesso libro. L’esigenza di rappresentare conduce indubbiamente a questo risultato: poiché il nostro modo di leggere la realtà non può più cambiare, non c’è che innovare il tentativo di ma ­nifestarlo, in modo da renderlo più evidente. In questo senso è vero che uno scrittore riscrive sempre lo stesso libro.
Se fosse vero in assoluto, allora la vita non c’insegnerebbe nulla. L’esperienza sa ­rebbe inutile. Oltre una certa età sarebbe addirittura inutile vivere. E in letteratura avreb ­be senso solo l’elegia.  


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3 Comments

  1. Pingback by Fontan Blog » LETTERATURA: I MAESTRI: Fogli di diario #9/11 - Il blog degli studenti. — 19 Agosto 2008 @ 08:11

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  2. Commento by Gian Gabriele Benedetti — 20 Agosto 2008 @ 00:04

    Spesso a noi, che ci cimentiamo nell’esercizio dell’espressione scritta (narrativa, poesia, ecc.), o almeno tentiamo di farlo, se ci vien chiesto se scriviamo, usiamo rispondere (a me è successo diverse volte): “Sì, mi diletto a buttar giù racconti e poesie”. Ma, in effetti, la nostra (o, meglio, la mia) è una risposta assai poco corrispondente al vero, perché scrivere non è “dilettarsi”. È più spesso sofferenza. Sofferenza nel creare argomenti, sofferenza nel costruire l’impianto narrativo o la struttura poetica, sofferenza nel cercare e trovare le parole esatte, sofferenza nel non essere ripetitivi, sofferenza per non risultare banali… Sofferenza comunque, accentuata, a mio avviso, quando si deve dar ali alla poesia. Caso mai, quando abbiamo scritto, quando abbiamo creato, quando abbiamo il prodotto letterario, si può provare, allora, una certa soddisfazione, per essere riusciti nell’ “impresa” di dar corpo a ciò che urgeva nel nostro animo.
    Ciò premesso, vorrei sottolineare che condivido pienamente l’articolo presentato. E mi trovo d’accordo con lo stesso autore, quando sostiene che lo scrittore o il poeta deve essere sempre se stesso. Se deve mutare, deve essere la vita, con la sua sostanza, vissuta intensamente, a portarlo a certi mutamenti, senza mai perdere di vista l’ intimo sentire. È anche vero che lo scrittore ed il poeta non devono fossilizzarsi, rischiando di ripetersi e di perdere originalità, ma, pur cercando di dar vita a nuove forme espressive deve essere ancora e sempre se stesso, non seguire la moda per la moda, non abbandonarsi tout court a sperimentalismi, a volte artificiosi e assolutamente lontani dalla creatività e da un lirico risultato. Si rischia di produrre senz’anima! Qualche rischio del genere, nel realizzare le mie oltre tremila composizioni, che con un po’ di presunzione chiamo poetiche, ho corso pure io
    Gian Gabriele Benedetti

  3. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 20 Agosto 2008 @ 07:58

    Le leggi di mercato hanno ormai invaso anche il campo dell’editoria, così che gli autori (non sempre, ma spesso) sono influenzati dalle mode. Rare le opere destinate a durare, perciò.

    Davvero attuali i temi propostici da Cassola.

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