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LETTERATURA: I MAESTRI: Fogli di diario

3 Dicembre 2016

di Diego Valeri
[da “Corriere della Sera”, giovedì 22 febbraio 1968]

Io non parlo volentieri di me, neppure con me stesso. (Non sembri un vanto: è la mia verità). Ciò vuoi dire che non amo guardarmi allo spec ­chio: e sta bene. Ma vuole an ­che dire che rifuggo per na ­tura dagli esami di coscienza, nonché dalle discese agli inferi del subconscio e dell’inconscio. Le délactations moroses dell’auto-psicanalisi proprio non fanno per me.

Dovessi qualificare con un aggettivo o con un avverbio il mio modo di vivere, di essere, direi che vivo distratta ­mente; che il continuo appa ­rire e sparire e mutar forme ed essenze della vita universale mi distrae dalla contemplazio ­ne della mia propria vita.

Ciò non toglie che, quando mi avviene di scrivere una poe ­sia (chiamiamola così, tanto per intenderci), io, anch’io, par ­lo tanto di me, non parlo che di me, senza più sentire quella repugnanza o quel pudore di cui sopra.

Pare che il verso mi dia franchigia al passo sull’infido terreno della confessione personale. Non sono mai arrivato peraltro al punto di scrivere, in forma di sonetto, un ritrat ­to di me medesimo; come han fatto certi nostri grandi de] passato: grandi, non c’è dub ­bio, ma affetti da quella malattia che oggi si direbbe di ­vismo. Vero è che oggi come oggi sonetti non ne scrive più nessuno.

*

Da alcuni giorni, quindici venti diciamo, ho in mente un gran paesaggio solare: paesaggio di pianura immensa, immensamente uguale.

Sulla distesa verde dei campi si levano alti gli argini di un fiume regale; che potrebbe essere il Po. E su uno degli argini, quello più vicino a me, splendida e sola sta una giovane donna dai lunghi capelli disciolti…

Una donna sul fiume, una bella donna che si pettina, mirando la capigliatura scorrente del fiume, l’ho immaginata o forse sognata altre volte; né ho mai potuto indovinare che cosa il sogno mi voglia dire. Ma il paesaggio e la figura che ora mi son davanti agi occhi han qualcosa di particolarmente grave e solenne.

La bella donna, infatti, non pettina il fiume dei suoi capelli, ma leva le braccia, lunghe e bianche come ramoscelli di gladiolo, al cielo, al sole: è una sacerdotessa, una druidessa, una maga. Appunto una maga: come dice il verso che, nato insieme con la visione e inseparabile da essa, mi suona dentro come una musica, più che di accompagnamento, di espressione profonda. Questo verso, questo endecasillabo, unico superstite nella memoria, di un contesto irrimediabilmente perduto, dice precisamente così:

« …dove la bella maga ferma il sole ».

Dove? Certamente al centro di quel paesaggio solare su quell’argine alto di fiume. Per me infine non c’è dubbio: la maga è una creatura padana, un fantasma prestigioso della pianura e della poesia ferrarese.

E     allora,     naturalmente,     ho pensato     all’Ariosto.     Allora     ho pensato:       sarà       un       verso       del  grande Ludovico (mago la sua parte),   sarà un ritratto ideale della sua cara Alessandra, contemplata     in     fantasia,     in     un tempo di assenza, di lontananza da Ferrara.

Benissimo. Senonché, compulsato il rimario ariostesco, non risulta affatto che quel verso, nell’Ariosto, ci sia. Scrivo a Cesare Segre, che, come tutti sanno, dell’Ariosto sa tutto. Risposta: « No, non c’è. Ma sei proprio sicuro di non averlo inventato tu quel verso? ».

Magari, controbatto tra me e me, e… E la cosa, per ora, è   ferma   a   questo   punto.

*

Incontro Aldo (Palazzeschi) ai piedi del ponte dì Rialto. Torna dal mercato, dall’avere fatto la piccola spesa per la sua piccola cena. Porta infatti, appesa a un braccio la borsa di rete delle provvigioni, se ­mivuota e floscia.

– Oh Aldo, come va?

– Come vuoi che vada? Qui non   si mangia più, non si be ­ve, non si fuma più. Non si fa più niente.   Forse   non   moriremo     neanche     più…

(Già:   se   il morire   fosse un fare).

Giunto a casa, cerco nel Doge, una breve meditazione sul tempo,     sul   nostro   tempo   umano, che   a   prima   lettura   mi     fece l’impressione di cosa nuovissima,   benché   antica   come   l’uomo.   Eccola qua,   a   pagina   13. « II tempo, che durante l’accidia    ci     si     presenta     nel     passare       intollerabilmente       lungo, da   parere     eterno,     diviene   poi tutto     il     contrario     una     volta passato, tanto che sul finire di un’intera     esistenza     per     lunga e     turbata     che     sia     o     sganghe ­rata     a     tutta   possa,     ci     appare un     sogno,   un   sogno   vago,   fugacissimo     e     leggero,     che     possiamo    definire     un     lampo,     un soffio     come   quando     si     spegne la   candela:   pfu! ».

Che c’è dunque di nuovo in queste     righe,     dove     manifestamente     è     ripreso     il     ritornello sempiterno del tempo che fug ­ge, e che, nell’attimo stesso in cui è, già fu, anzi pfu?

Pensieri del genere   si legge ­vano     una     volta     dipinti     sotto le meridiane   (dies nostri quasi umbra)   o scolpiti sulla pie ­tra     delle     fontane     (velut   aqua dilabimur).

Eppure il nuovo in Palazze ­schi c’è; e mi pare che sia nell’accento d’ingenuo stupore, di subitaneo smarrimento, del vecchio fanciullo che ha urta ­to d’improvviso contro una durissima verità, da sempre sa ­puta ma sempre dimenticata.


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