LETTERATURA: I MAESTRI: Fogli di diario3 Dicembre 2016 di Diego Valeri Io non parlo volentieri di me, neppure con me stesso. (Non sembri un vanto: è la mia verità). Ciò vuoi dire che non amo guardarmi allo spec chio: e sta bene. Ma vuole an che dire che rifuggo per na tura dagli esami di coscienza, nonché dalle discese agli inferi del subconscio e dell’inconscio. Le délactations moroses dell’auto-psicanalisi proprio non fanno per me. Dovessi qualificare con un aggettivo o con un avverbio il mio modo di vivere, di essere, direi che vivo distratta mente; che il continuo appa rire e sparire e mutar forme ed essenze della vita universale mi distrae dalla contemplazio ne della mia propria vita. Ciò non toglie che, quando mi avviene di scrivere una poe sia (chiamiamola così, tanto per intenderci), io, anch’io, par lo tanto di me, non parlo che di me, senza più sentire quella repugnanza o quel pudore di cui sopra. Pare che il verso mi dia franchigia al passo sull’infido terreno della confessione personale. Non sono mai arrivato peraltro al punto di scrivere, in forma di sonetto, un ritrat to di me medesimo; come han fatto certi nostri grandi de] passato: grandi, non c’è dub bio, ma affetti da quella malattia che oggi si direbbe di vismo. Vero è che oggi come oggi sonetti non ne scrive più nessuno. * Da alcuni giorni, quindici venti diciamo, ho in mente un gran paesaggio solare: paesaggio di pianura immensa, immensamente uguale. Sulla distesa verde dei campi si levano alti gli argini di un fiume regale; che potrebbe essere il Po. E su uno degli argini, quello più vicino a me, splendida e sola sta una giovane donna dai lunghi capelli disciolti… Una donna sul fiume, una bella donna che si pettina, mirando la capigliatura scorrente del fiume, l’ho immaginata o forse sognata altre volte; né ho mai potuto indovinare che cosa il sogno mi voglia dire. Ma il paesaggio e la figura che ora mi son davanti agi occhi han qualcosa di particolarmente grave e solenne. La bella donna, infatti, non pettina il fiume dei suoi capelli, ma leva le braccia, lunghe e bianche come ramoscelli di gladiolo, al cielo, al sole: è una sacerdotessa, una druidessa, una maga. Appunto una maga: come dice il verso che, nato insieme con la visione e inseparabile da essa, mi suona dentro come una musica, più che di accompagnamento, di espressione profonda. Questo verso, questo endecasillabo, unico superstite nella memoria, di un contesto irrimediabilmente perduto, dice precisamente così: « …dove la bella maga ferma il sole ». Dove? Certamente al centro di quel paesaggio solare su quell’argine alto di fiume. Per me infine non c’è dubbio: la maga è una creatura padana, un fantasma prestigioso della pianura e della poesia ferrarese. E allora, naturalmente, ho pensato all’Ariosto. Allora ho pensato: sarà un verso del grande Ludovico (mago la sua parte), sarà un ritratto ideale della sua cara Alessandra, contemplata in fantasia, in un tempo di assenza, di lontananza da Ferrara. Benissimo. Senonché, compulsato il rimario ariostesco, non risulta affatto che quel verso, nell’Ariosto, ci sia. Scrivo a Cesare Segre, che, come tutti sanno, dell’Ariosto sa tutto. Risposta: « No, non c’è. Ma sei proprio sicuro di non averlo inventato tu quel verso? ». Magari, controbatto tra me e me, e… E la cosa, per ora, è ferma a questo punto. * Incontro Aldo (Palazzeschi) ai piedi del ponte dì Rialto. Torna dal mercato, dall’avere fatto la piccola spesa per la sua piccola cena. Porta infatti, appesa a un braccio la borsa di rete delle provvigioni, se mivuota e floscia. – Oh Aldo, come va? – Come vuoi che vada? Qui non si mangia più, non si be ve, non si fuma più. Non si fa più niente. Forse non moriremo neanche più… (Già: se il morire fosse un fare). Giunto a casa, cerco nel Doge, una breve meditazione sul tempo, sul nostro tempo umano, che a prima lettura mi fece l’impressione di cosa nuovissima, benché antica come l’uomo. Eccola qua, a pagina 13. « II tempo, che durante l’accidia ci si presenta nel passare intollerabilmente lungo, da parere eterno, diviene poi tutto il contrario una volta passato, tanto che sul finire di un’intera esistenza per lunga e turbata che sia o sganghe rata a tutta possa, ci appare un sogno, un sogno vago, fugacissimo e leggero, che possiamo definire un lampo, un soffio come quando si spegne la candela: pfu! ». Che c’è dunque di nuovo in queste righe, dove manifestamente è ripreso il ritornello sempiterno del tempo che fug ge, e che, nell’attimo stesso in cui è, già fu, anzi pfu? Pensieri del genere si legge vano una volta dipinti sotto le meridiane (dies nostri quasi umbra) o scolpiti sulla pie tra delle fontane (velut aqua dilabimur). Eppure il nuovo in Palazze schi c’è; e mi pare che sia nell’accento d’ingenuo stupore, di subitaneo smarrimento, del vecchio fanciullo che ha urta to d’improvviso contro una durissima verità, da sempre sa puta ma sempre dimenticata. Letto 1492 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||