LETTERATURA: I MAESTRI: Gli ordini sono ordini22 Febbraio 2018 di Alberto Moravia E’ cominciato così. Rientra ta dall’ufficio nel quale lavoro da segretaria, ho passato un’ora a riordinare le due stanze del mio appartamento. Sono ordinata, mi piace la pulizia, non mi sento tranquilla se so che nella mia casa, in qualche luogo, c’è un portace nere sporco o un asciugamani fuori posto. Ho, dunque, scru polosamente spazzato, spolve rato e lustrato ogni cosa, ben ché sapessi che la mattina era già venuta la cameriera a fare esattamente quello che adesso stavo facendo. Quando sono stata sicura che tutto era dav vero al suo posto, mi sono seduta e mi sono dedicata a quello che tra me e me chia mo: lavaggio del cervello. Non si creda a qualche cosa di po litico, però; si tratta in realtà di un esercizio strettissimamen te privato. Ecco in che cosa consiste: cerco di pensare sen za oggetto, vale a dire cerco di pensare il pensiero. In altri ter mini, tendo il mio pensiero come si potrebbe tendere i muscoli di un braccio; ma non penso niente, mi limito a con statare che c’è la tensione. Perché faccio questo? Non lo so, forse perché se penso qual che cosa, inevitabilmente pen so qualche cosa di futile, di meschino, di scoraggiante; op pure, più probabilmente, lo faccio per passatempo. * Ed ecco, d’improvviso, fuo ri da questo formicolio del mio pensare a vuoto, ecco, co me un pesce fuori dal muli nello di un vortice marino, è emersa una voce che diceva: « Esci di casa ». Era un ordi ne; ma più che dalle parole, l’ho capito dal fatto che ho sentito che a questa voce non potevo né avrei mai potuto disubbidire. Così mi sono al zata, ho preso la borsa e le chiavi della macchina e sono uscita. Una volta nella strada la voce ha ordinato: « Sali sulla tua automobile e guida in direzione di Ponte Milvio ». Abito sulla via Flaminia, Pon te Milvio è poco lontano. Ho preso a guidare con una tran quillità distesa e fiduciosa nuova per me: sono di solito molto nervosa e apprensiva. Erano le sei del pomeriggio, faceva caldo, ogni tanto ab bassavo gli occhi verso le mie gambe distese con una quale certa mollezza compiaciuta nell’abitacolo dell’automobile. Ho quarant’anni, le mie gambe sono la mia cosa migliore, lo so e le espongo più che posso. Ma quel giorno questa bellez za delle gambe non aveva niente di provocante. Era qualche cosa di tranquillo, di vero, di reale. C’era e tanto bastava. A Piazzale di Ponte Milvio la voce mi ha ingiunto di girare per Viale Tor di Quinto e, naturalmente, ho ubbidito. Non senza però protestare: « Ma è un postaccio, malissi mo frequentato ». La voce mi ha risposto in maniera sibil lina: « E’ quello che ci vuole per te »; e ho preso a guidare docilmente sotto i grandi pla tani fronzuti. Tra i tronchi dei platani si vedevano le solite passeggiatrici, a gruppi di tre o quattro; macchine con uomi ni soli si fermavano, indugia vano, ripartivano. Poco più lontano tra due platani ho vi sto un banco di cocomeri. La voce mi ha detto: « Ferma, scendi, va a mangiare una fet ta di cocomero ». * I cocomeri stavano in fila su una tavola, sfere di un ver de quasi azzurro, polverose e tuttavia invitanti. La venditri ce dei cocomeri era una don nona enorme, con una piccola faccia rossa e un seno volu minoso: pareva avere due cocomeri sotto la blusa. Non ha fatto caso al mio aspetto di donna sofisticata, per lei ero una cliente come tutte le altre. Ha detto: « Ora te ne do una fetta proprio bella », con ghiottoneria, come se fosse stata lei a doverla mangiare; e spo standosi a fatica dietro il ban co è andata a scegliere la fetta già tagliata tra alcune altre che stavano allineate sopra una colonna di ghiaccio. Ho preso la fetta con una mano e ho messo le dita dell’altra nella tasca per cercarvi il denaro. In quello stesso momento una mano mi ha stretto il braccio. Mi sono voltata a guardarlo. Era un giovane con un ciuffo biondo sulla faccia arrossata di sole e gli occhi azzurri crudelmente scintillanti. La voce è stata molto particolareggiata questa volta: « Mangia pure con calma la tua fetta di cocomero. Poi seguilo verso il Te vere. Ma fa’ attenzione, una volta che siete sulla sponda, nella macchia, a non stracciarti la gonna tra i rovi ». Quante cose! Ho fatto come mi era ordinato. La voce è stata zitta per qualche giorno e poi uno di quei pomeriggi mi ha coman dato di uscire di casa. Questa volta, però, niente Viale Tor di Quinto; dovevo andare a Piazza di Spagna. Ho guida to docilmente fino a Piazza Spagna, ho parcheggiato la macchina e quindi, sempre ubbidendo alla voce, mi sono incamminata verso via del Babuino. Non sapevo che ci andavo a fare, aspettavo l’ordi ne. E’ venuto in questa forma a dir poco sconcertante: « En tra nel primo negozio di anti quariato nel quale ti imbatti, chiedi di vedere un oggetto qualsiasi. Mentre si provvede a cercartelo, afferra una sca toletta d’argento e mettila nel la borsa ». Ho subito obbiet tato, con buon senso: « Ma questo si chiama rubare ». La voce è stata zitta un momen to, poi ha detto: « Fa’ quello che ti dico, cretina ». Che po tevo fare? Mi dava anche del la cretina, adesso. Così ho ub bidito. Sono entrata nel ne gozio e, puntando il dito verso uno scaffale lontano, ho chie sto: « Potrei vedere quel gatto di ceramica?, ». Il negoziante, un vecchio podagroso, mi ha voltato le spalle e si è incam minato verso lo scaffale. Le sta, ho afferrato su un tavolo una tabacchiera d’argento e l’ho chiusa nella mia borsa. Poi ho detto che il gatto di ceramica non mi piaceva e so no uscita. Ma non si deve credere che la voce mi ordinasse soltanto trasgressioni e minimi delitti del genere dei due che ho già raccontato. Il più delle volte, suoi ordini erano sopratutto capricciosi e assurdi. Come quel giorno che mi ha coman dato in maniera perentoria: « Resta a casa ». Ho risposto: « Ci sto già a casa ». La voce ha detto: « Restaci tre gior ni ». « E l’ufficio? ». « Telefo na che non ti senti bene ». Così ho ubbidito e sono re stata a casa tre giorni, girel lando per le mie due stanze, passando dal letto al divano e dal divano alla poltrona. Per fortuna avevo qualche provvi sta e così non sono morta di fame. Ma volete sapere che cosa ha detto la voce alla fine della mia clausura? « Brava. La prossima volta resterai in casa un anno ». * In attesa di quest’ordine, ne ho eseguito degli altri, tutti molto capricciosi. Come quel lo che la voce mi ha dato una notte, verso le tre: « Alzati, esci in camicia come sei, va’ a suonare alla porta del tuo vi cino e digli che hai paura ». Ho avuto un bel rispondere che non avevo affatto paura; la voce mi ha dato della cre tina e ho dovuto ubbidire. II mio vicino di casa, sullo stes so pianerottolo, è un vecchio pensionato che vive solo; e forse, chissà, non gli è stato del tutto spiacevole vedere una donna in camicia bussare alla sua porta a quell’ora. Ho bal bettato che avevo paura e lui, subito, gentilmente, mi ha fat to entrare nel suo studio. Era professore di qualche cosa, lo studio era pieno di libri, lui si è seduto tutto spettinato e in vestaglia dietro la scriva nia; e io mi sono rannicchiata in una poltrona davanti a lui. Mi ha fatto molte domande, in maniera paterna; ma la vo ce mi ha sussurrato: « Se parli di me, ti ammazzo »; e così ho taciuto la cosa più impor tante. Quel buon uomo del mio vicino alla fine è andato in cucina a prepararmi una camomilla; allora la voce mi ha ingiunto: « Scappa a ca sa »; e così ho fatto: a piedi nudi sono scappata in casa mia, ho chiuso la porta e mi sono rimessa a letto. Altri ordini della voce, tutti eseguiti a puntino: « Va’ dal tuo principale, fagli una di chiarazione d’amore ». « Va’ a Fregene, dormi la notte sulla spiaggia, all’alba cammina lun go il mare ». « Va’ a comprare una bottiglia di cognac, bevine la metà (perché la metà?) e poi mettiti a letto ». « Forma un numero a caso sul telefo no; a chi ti risponde, di’ que ste precise parole: ‘Quest’an no il mare è cinese, la terra è boliviana e l’aria è turca’ ». « Comprati una tartaruga, por tala al guinzaglio ». Ecc. ecc. Qualcuno vorrà sapere forse come il principale ha preso la mia dichiarazione d’amore. Eb bene, l’ha presa male, mi ha licenziata. Ma mi sono conso lata pensando che d’ora in poi avrei avuto più tempo da de dicare agli ordini della voce. In certi giorni la voce giun geva ad un massimo di ca pricciosità. Diceva per esem pio: « Fa’ quello che vuoi ». Una parola, far quello che si vuole. Una mattina, la voce mi ha detto: « Esci, va’ da una agenzia di viaggi, compra un biglietto d’aereo per Istambul. Va’ a Istambul, restaci un me se ». Ho fatto osservare con educazione che non ho molti soldi, e che questo viaggio in Turchia era una vera pazzia. Ma la voce mi ha risposto con brutalità: « Non far l’avara, ubbidisci ». Così sono partita, ho volato fino a Istambul: era la prima volta che andavo in aeroplano, la prima volta che uscivo dall’Italia. Com’è bella Istambul! Che meraviglia, San ta Sofia! Quanto mi piaceva no le moschee! Che poesia la vista del Bosforo dall’alto di una collina! Peccato che dopo appena tre giorni, la voce mi abbia ordinato di tornare a Roma. Nonché il mese previ sto, ci sarei rimasta tutta la vita. Ma ho dovuto ubbidire, e così eccomi di nuovo a Roma, ad aspettare gli ordini. Adesso la voce da qualche tempo tace. Ne sono contenta? Sì e no. In certo modo era una distrazione per una donna come me, che vive sola e ha pochissimi amici. Ma, d’altra parte, specie da ultimo, bisogna dire che la voce si era fatta eccessivamente bizzarra, c’era da aspettarsi di tutto; persino che mi ordinasse di gettarmi dalla finestra. Ma senza andare fino al suicidio, sono convinta, non so perché, di ricevere quanto prima l’ordine già minacciato: « Chiuditi in casa e restaci un anno senza uscire ». Lo sento, finirà così. A questo scopo accumu lo provviste: scatolame, vini e acque minerali, biscotti. Non si sa mai.
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