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LETTERATURA: I MAESTRI: Il giro di vite

6 Gennaio 2013

di Maurice Blanchot
(da “Il libro a venire”, Einaudi)

Leggendo i Taccuini di Henry James, ci stupisce vedere come egli pre ­pari i suoi romanzi attraverso piani minuziosissimi, che certamente subi ­ranno modifiche durante la stesura del libro, ma che a volte egli seguirà fedelmente.

Se paragoniamo i Taccuini a quelli in cui Kafka dava il primo avvio ai suoi racconti, la differenza è notevole: nei Quaderni di Kafka, non c’è traccia di piano, di analisi preliminare; molti abbozzi, ma quegli abbozzi sono l’opera stessa; qualche volta una pagina o un’unica frase, ma già quella frase è annodata nella profondità del racconto, e se questa è una ricerca, si tratta del racconto che cerca se stesso, una via che soltanto dall’imprevedibile movimento della scrittura romanzesca può venire aperta. Tali frammenti non sono materiali destinati a essere utilizzati in seguito. Proust si serve di forbici e colla; « appunta con uno spillo, qua e là, un foglietto supplementare », le paperoles con cui edifica il suo libro: « non osa dire, minuziosamente come una cattedrale, ma semplicemente come un abito ». Per altri scrittori, il racconto non può essere composto dall’esterno: se non dispone del movimento progressivo che gli fa scoprire lo spazio del suo compimento, perde ogni forza e ogni realtà. E questo non significa necessariamente, per il libro, una coerenza oscura e irrazio ­nale: i libri di Kafka, nella loro struttura, sono più chiari di quelli di James, meno difficili e meno complessi di quelli di Proust.

« L’argomento è tutto ». L’esempio di James è tuttavia â— s’in ­tende â— meno semplice di quel che appaia. Nei suoi Taccuini accumula gli aneddoti, qualche volta interessanti, ma a volte mediocri, che racco ­glie nei salotti. Ha bisogno di argomenti. « L’argomento è tutto – l’ar ­gomento è tutto », scrive con spaventata sicurezza. « Più vado avanti, più intensamente mi avvedo che, ormai, solo sulla saldezza dell’argomento, l’importanza, la capacità emozionale dell’argomento mi converrà appog ­giarmi. Tutto il resto crolla, sprofonda, gira a vuoto, o a stento, o male – vi tradisce miserabilmente ». Anche questo ci stupisce. Che cos’è l’« argomento »? Uno scrittore raffinato come Borges sostiene che la lettera ­tura romanzesca moderna è superiore, non per lo studio dei caratteri e per l’approfondimento delle diversità psicologiche, ma nell’inventare le sue favole e i suoi argomenti. Così replica a Stevenson, il quale triste ­mente osservava, contro se stesso â— verso il 1882 â— come i lettori inglesi sdegnassero le peripezie romanzesche, preferendo l’abilità degli scrittori capaci di scrivere un romanzo senza trama, o « con una trama minima, atrofica ». Ortega y Gasset, cinquantanni dopo, dichiara che « oggi è dif-ficilissimo inventare un’avventura degna d’interessare la nostra superiore sensibilità ». A sentire Borges, la nostra superiore sensibilità è oggi più che mai felicemente soddisfatta. « Io mi ritengo libero da qualsiasi su ­perstizione modernistica, da qualsiasi illusione che ieri sia profondamen ­te diverso da oggi o sarà diverso da domani, ma trovo che nessun’altra epoca abbia posseduto romanzi con una storia così meravigliosa come Il Giro di Vite, Il Processo o Il Viaggio sulla Terra; o come quella del ro ­manzo che ha inventato, a Buenos-Ayres, A. B. Casares » (L’invenzione di Morel). Per amore di verità Borges, nel segreto della sua memoria, avrebbe potuto nominare anche Le Rovine circolari o La Biblioteca di Babele.

Ma che cos’è un argomento? Dire che un romanzo vale per il rigore dell’intreccio, per la potenza seducente dei motivi, non è un’affermazio ­ne così rassicurante, per la tradizione, quanto questa vorrebbe credere; è infatti come dire che il suo valore non sta nella verità dei personaggi o nel realismo, psicologico o esterno, e che, per avvincere il lettore, non deve contare sull’imitazione del mondo, della natura, o della società. Un racconto centrato su un argomento è perciò un’opera misteriosa e com ­pletamente smaterializzata: un racconto senza personaggi, una storia in cui la quotidianità senza storia e l’intimità senza evento, questo fondo così comodamente disponibile, cessano di essere utilizzabili, e in più una storia dove quello che accade, non si accontenta di accadere nel gioco di una successione superficiale o capricciosa, di episodi che seguono a epi ­sodi come nei romanzi picareschi; ma forma una compatta unità, rigoro ­samente ordinata secondo una legge tanto più importante quanto più ce ­lata, centro segreto di tutto.

« L’argomento è tutto â— l’argomento è tutto », questo grido di James è patetico, e l’aiuto che Borges generosamente gli porge non è di facile uso. Quando egli cita II Processo fra le opere moderne più mirabili per il loro argomento, ci costringe a riflettere. L’argomento di quel romanzo è un’invenzione così sorprendente? Vigny l’aveva già formulato in poche righe piene di gravita, e anche Pascal, e forse ciascuno di noi. La storia di un uomo alle prese con se stesso come con un’oscura giustizia davanti alla quale non può giustificarsi perché non la incontra, è certamente de ­gna d’interesse, ma è appena una storia, ancor meno una finzione e, per Kafka, era il dato della sua vita: una colpevolezza tanto più pesante per ­ché era l’ombra della sua stessa innocenza.

Ma l’argomento del Processo è davvero questo tema astratto e vuoto, questa frase arida con cui lo riassumiamo? Certamente no. Allora, che cos’è un argomento? Borges cita II Giro di Vite, racconto che infatti ci sembra irradiare da una storia impressionante e bella che ne sarebbe l’ar ­gomento. Sappiamo che, tre anni prima, James riferisce nei Taccuini l’a ­neddoto che gliene ha fornito l’idea. Chi lo racconta, è l’arcivescovo di Canterbury : « traccia vaga, confusa, senza particolari », che il vescovo ha ricevuto da una dama incapace di esprimersi e di essere chiara. « Storia di certi ragazzi (numero e età indeterminati) affidati ai servi in un vecchio castello di campagna, certamente alla morte dei loro genitori. I servitori, malvagi e depravati, corrompono e depravano i fanciulli; questi sono malvagi, pieni di una sinistra perversità. I servitori muoiono (la storia è sommaria riguardo al genere di morte) e i loro fantasmi, le loro figure ritornano a ossessionare la casa e i ragazzi, a cui sembrano ammiccare, invitandoli e sollecitandoli, dal fondo di nascondigli pericolosi – dall’alto fossato di un muro crollato ecc., per spingerli a distruggersi, a perdersi obbedendo ai loro ordini, mettendosi sotto il loro giogo. Finché i ragazzi sono tenuti lontano, non si perdono; ma le presenze malefiche lavorano instancabilmente per impadronirsene e attirarli nei loro recessi ». James aggiunge questa osservazione: « Tutto ciò è oscuro e impreciso – il qua ­dro, la storia – ma c’è qui l’idea di un effetto, un arcano brivido d’orrore. La storia dev’essere raccontata – con sufficiente credibilità – da uno spettatore, da un osservatore esterno ».

È questo l’argomento del Giro di Vite? C’è dentro tutto, e anzitutto l’essenziale: dei ragazzi, asserviti da un rapporto di soggezione a certe figure che li ossessionano, li attirano, col ricordo del male, verso il luogo dove si perderanno. C’è tutto, e anche il peggio della storia: che quei ra ­gazzi sono pervertiti e innocenti a un tempo (« finché i ragazzi sono te ­nuti lontano, non si perdono »). Da questo motivo, James ricaverà uno dei suoi effetti più crudeli: l’ambiguità di quell’innocenza, innocenza che è, in loro, la purezza del male, il segreto della menzogna nella sua perfe ­zione, che sa tener coperto il male alle persone oneste della famiglia, ma che, forse, è il male divenuto purezza toccandoli, l’ingenuità incorrutti ­bile che essi oppongono al male vero, quello degli adulti, o ancora l’e ­nigma stesso di quelle apparizioni, l’incertezza che grava sulla storia e fa dubitare che sia tutta una proiezione, sui ragazzi, della mente allucinata della loro governante – che con le sue ossessioni li tormenta fino alla morte.

Gide, scoprendo che II Giro di Vite non è una storia di fantasmi, ma probabilmente un racconto freudiano dove la narratrice – la governante con le sue passioni e le sue visioni – accecata e terribile nella sua inco ­scienza, finisce per far vivere dei ragazzi innocenti a contatto d’immagini spaventevoli che, senza di lei, ignorerebbero tranquillamente, ne fu me ­ravigliato e incantato. (Ma gli restava, naturalmente, un dubbio che gli sarebbe piaciuto veder dissipato).

Sarebbe dunque questo l’argomento del racconto, su cui l’arcivescovo non avrebbe più nessun diritto d’autore? Ma è proprio questo? è lo stes ­so che James si è proposto coscientemente di trattare? Gli editori dei Taccuini si rifanno all’aneddoto per affermare che l’interpretazione mo ­derna non è affatto sicura, e che James ha voluto scrivere proprio una storia di fantasmi, partendo dal postulato della corruzione dei ragazzi e della realtà delle apparizioni. Innegabilmente, l’arcano viene evocato sempre in modo indiretto, e ciò che vi è di spaventoso in quella storia, il brivido di disagio che suscita in noi, non è tanto dovuto alla presenza degli spettri, ma al segreto disordine che ne emana; in ciò sta anzi la re ­gola di cui James stesso ha fornito la formula nella prefazione ai suoi rac ­conti fantastici, quando sottolinea « l’importanza di presentare il mera ­viglioso e lo strano limitandosi a mostrare quasi esclusivamente come si ripercuotono in una sensibilità e riconoscendo che il loro principale ele ­mento d’interesse consiste nell’intensa impressione che possono pro ­durre ».

Il cuore maligno di ogni racconto. Si può dunque supporre che James non avrebbe potuto rispondere a Gide né confermarlo nel pia ­cere della sua scoperta. Quasi sicuramente, la sua risposta sarebbe stata acuta, evasiva e deludente. Se l’interpretazione freudiana s’imponesse con l’evidenza di una soluzione, il racconto non ne acquisterebbe che un interesse psicologico momentaneo e rischierebbe di perdere tutto quel che ne fa un racconto, affascinante, indubitabile, inafferrabile, dove la verità ha la certezza sfuggente di un’immagine, al pari di essa vicina e inaccessibile. I lettori moderni, scaltriti, hanno capito tutti che l’ambi ­guità della storia non dipende solo dalla sensibilità anormale della governante, ma dal fatto che la governante è anche la « narratrice ». Costei non s’accontenta di vederli, i fantasmi che forse ossessionano i ragazzi, è lei che ne parla, che li attira nello spazio indeciso della narrazione, in quell’al di là irreale in cui tutto diventa fantasma, tutto si fa sfuggente, pre ­cario, presente e assente, simbolo del Male, sotto la cui ombra Graham Greene vede James quando scrive, e che, forse, è semplicemente il cuore maligno di ogni racconto.

Dopo aver trascritto l’aneddoto, James aggiungeva: « La storia deve essere raccontata – con sufficiente credibilità – da uno spettatore, da un osservatore esterno ». Gli mancava allora, si può dire, l’essenziale, l’ar ­gomento: quella narratrice, che è l’intimità stessa del racconto, sia pure un’intimità estranea, presenza che cerca di penetrare fino al centro della storia rimanendo tuttavia un’intrusa, un testimone escluso, che s’impone con la violenza, che tradisce il segreto, lo inventa forse, lo scopre forse, in tutti i modi lo forza, lo distrugge, non rivelandoci altro che l’ambi ­guità che lo avvolge.

È come dire che l’argomento del Giro di Vite è – semplicemente â— l’arte di James, quell’arte di muoversi sempre attorno a un segreto che l’aneddoto, in tanti suoi libri, mette in azione, e che soltanto non è un vero segreto – qualche fatto, qualche pensiero o verità che potrebbe es ­sere rivelata – e neppure una implicazione della mente, ma sfugge a qual-siasi rivelazione, perché appartiene ad una regione che non è quella della luce (1). James, di quest’arte, ha la più viva consapevolezza, sebbene si mo ­stri stranamente reticente a questo proposito, nei Taccuini, se togliamo rare espressioni, come questa: «Vedo che i miei salti e scorci, i miei ponti volanti e i miei grandi anelli comprensivi (in una o due frasi mira ­bilmente vive) dovranno essere di un’arditezza impeccabile, magistra ­le… »

Ci possiamo allora domandare perché mai quest’arte in cui tutto è movimento, sforzo di scoperta e d’indagine, pieghe, spire, sinuosità, ri ­serbo, arte che non decifra, ma è cifra dell’indecifrabile, invece di par ­tire da se stessa, prenda le mosse da uno schema spesso molto grossolano, di linee risolute, con sezioni numerate; e perché debba sempre partire da una storia da raccontare, che esiste prima di essere raccontata.

A questa singolarità si possono dare diverse spiegazioni. E anzitutto questa, che lo scrittore americano appartiene a un’epoca in cui il romanzo non è scritto da Mallarmé, ma da Flaubert e da Maupassant; che egli si preoccupa di dare alla sua opera un contenuto importante; e hanno im ­portanza per lui i conflitti morali. Ma c’è dell’altro. James, manifestamente, ha paura della sua arte; lotta contro la « dispersione » a cui quel ­l’arte lo espone, respingendo il bisogno di dire tutto, di « dire e descrivere troppo », che rischia di trascinarlo in prodigiose lungaggini, men ­tre ammira soprattutto la perfezione di una forma netta. (James ha sem ­pre sognato un successo popolare. Ha anche sperato di trovare quel suc ­cesso nel teatro, un teatro di cui cerca i modelli nel peggior teatro fran ­cese. Ma è vero che, come Proust, ha il gusto delle scene, della struttura drammatica di un’opera: contraddizione che lo mantiene in equilibrio). C’è, nella forma che gli è propria, un eccesso, forse un grano di follia contro il quale tenta di premunirsi, perché ogni artista ha spavento di sé. « Ah! potersi semplicemente lasciare andare… » « II risultato di tutte le mie riflessioni è che non dovrei fare altro che lasciarmi andare a ruota libera. Me lo sono detto tutta la vita… Eppure, non l’ho mai fatto vera ­mente! » (2).

James ha paura di cominciare: l’opera che incomincia è ignoranza per ­fetta di se stessa, è la debolezza di ciò che non ha peso, non ha realtà, non ha verità, e tuttavia è già necessario, di una necessità ineluttabile e vuota. Di questo inizio, ha paura. Gli occorre, prima di abbandonarsi alla forza del racconto, la garanzia di un canovaccio, il lavoro chiarificatore che vagli bene l’argomento. « Dio mi salvi! – del resto non ho questa incli ­nazione! il cielo m’è testimonio! – dal deflettere dall’osservanza inflessi ­bile di questo forte e salutare metodo, consistente nell’avere un’armatura solidamente costruita, fortemente strutturata e articolata ». Tanto è il ti ­more di cominciare, che si perde in uno sviluppo sempre più largo dei preliminari, con una minuzia e delle finezze in cui l’arte sua già traluce: « Comincia, comincia, non indugiare a parlarne, a girarci attorno ». « Non ho che da aggrapparmi e infilare una parola dopo l’altra. Aggrapparsi e infilar parole, l’eterna ricetta ».

La « divina pressione ». Ma questo non spiega tutto. Col pas ­sare degli anni, andando più deliberatamente verso se stesso, James fini ­sce per scoprire il vero significato di quel lavoro preliminare che, per l’ap ­punto, non è un lavoro. Parla senza fine di quelle ore di ricerca come di « ore benedette », d’istanti « meravigliosi, ineffabili, segreti, patetici, tra ­gici », o come di un tempo « sacro », in cui la sua penna esercita una « pressione stregata », diventa una penna « decifratrice », il magico ago in movimento, il cui incessante correre e rincorrersi gli prefigura le innu ­merevoli rotte non ancora tracciate. Il principio dello scenario è da lui definito « divino », « divina luce che illumina le antiche sante piccole virtualità », « divina antica gioia dello scenario che fa battere le mie arterie, con le sue piccole emozioni sacre, insopprimibili ». Perché questa gioia, questa passione, questo sentimento d’una vita meravigliosa, che non può evocare senza lacrime, al punto che il suo quaderno di appunti, il « pa ­ziente, appassionato quadernetto diventa… l’essenziale della vita? » Per ­ché in quelle ore di confidenza con se stesso, è alle prese con la pienezza del racconto ancora non cominciato, quando l’opera tutta indeterminata e pura da ogni azione e da ogni limite, è unicamente possibile e nient’al-tro, è la benedetta ebbrezza della pura possibilità, e si sa quanto il possi ­bile – questa vita fantomatica e irreale di quel che non siamo stati, fatta di ombre con le quali abbiamo appuntamento in perpetuo – abbia eser ­citato su James una pericolosa attrattiva, a volte quasi delirante, che l’ar ­te sola, forse, gli consenti di esplorare e di esorcizzare. « Più vado avanti, più trovo che il solo balsamo, il solo rifugio, la genuina soluzione del for ­midabile problema della vita, consiste in questa lotta frequente, feconda, intima con l’idea particolare, l’argomento, il possibile, il luogo ».

Il momento del lavoro preliminare è così necessario a James, così me ­raviglioso nel suo ricordo, perché rappresenta il momento in cui l’opera, accostata, ma non toccata, è il centro segreto attorno al quale, con pia ­cere quasi perverso, egli si da tutto a certe investigazioni che tanto più può allargare in quanto servono a fare emergere il racconto, ma non lo impegnano ancora. Spesso, le precisazioni aneddotiche sviluppate in quei piani, non solo spariranno tutte dall’opera, ma vi si ritroveranno come valori negativi, incidenti a cui si allude come a cosa precisamente non avvenuta. In tal modo James sperimenta, invece del racconto da scrive ­re, il suo rovescio, l’altra faccia dell’opera, quella che nasconde necessa ­riamente il movimento di scrivere e di cui si mostra preoccupato, come se avesse l’angoscia e la curiosità – ingenua e commovente – di quel che c’è dietro il suo racconto mentre lo va scrivendo.

Questo che in James si potrebbe definire il paradosso appassionato del piano consiste nel fatto che il piano rappresenta per lui la garanzia di una composizione determinata in anticipo, ma anche il contrario: la felicità della creazione, che coincide con la pura indeterminazione dell’o ­pera, che la mette alla prova senza però ridurla, senza privarla di tutti i possibili che contiene (e tale è, forse, l’essenza dell’arte in James: in cia-scun istante rendere presente l’opera intera e, dietro l’opera bene ordi ­nata e limitata a cui egli da forma, fare intuire altre forme, lo spazio infi ­nito e leggero del racconto quale avrebbe potuto essere, qual è prima di essere incominciato). E quella pressione a cui sottopone l’opera, non per limitarla, anzi per farla più perfettamente parlare, senza riserve nel suo segreto tuttavia rispettato, quella ferma e dolce pressione, quella sollecitazione incalzante, con che nome la chiama? Con lo stesso nome che ha scelto per titolo della sua storia di fantasmi: Giro di Vite. « Che cosa può venire dal mio caso di K. B. [un romanzo che non finirà] una volta sotto ­posto alla pressione e al giro di vite? » Allusione rivelatrice. Essa ci con ­ferma che James non ignora affatto quale sia l’« argomento » del suo rac ­conto: la pressione che la governante fa subire ai ragazzi per strappargli il loro segreto e che essi subiscono, forse, anche da parte dell’invisibile, ma che è essenzialmente la pressione della narrazione stessa, il movimen ­to meraviglioso e terribile che lo scrivere esercita sulla verità, tormento, tortura, violenza che infine conducono a morte, dove tutto sembra che si riveli, e tutto ripiomba nel dubbio e nel vuoto delle tenebre. « Noi lavo ­riamo nelle tenebre – facciamo quel che possiamo – diamo quello che abbiamo. Il nostro dubbio è la nostra passione e la nostra passione, il nostro lavoro. Il resto è la follia dell’arte »(3).

(1) Si è tentati di credere che sia questo il suo modo di alludere costantemente all’incidente di cui fu vittima verso il diciottesimo anno, di cui parlò di rado e in termini oscuri: come se quanto gli era accaduto l’avesse posto in prossimità di un’impossibilità misteriosa ed esaltante. Naturalmen ­te, si è pensato che quella lesione dorsale l’avesse reso incapace di una vita normale (rimase scapolo, e non si ha notizia di alcuna relazione certa nella sua vita, benché mostrasse di sentirsi molto a suo agio nel mondo delle amicizie femminili). Si disse anche che fu lui stesso a provocare più o meno volontariamente l’incidente (mentre aiutava a spegnere un incendio a Newport) per sottrarsi alle lot ­te della guerra civile. Se si dice «autolesione psichica », si può allora esser certi d’aver detto tutto, senza beneficio per nessuno.

 

(2) Altrove, James parla d’un timore nervoso di lasciarsi andare, che sempre l’ha paralizzato.

 

(3) Cosi parla, confessione orgogliosa e patetica, il vecchio scrittore dell’Età matura, quando sco ­pre che muore senza aver fatto niente, ma anche che ha meravigliosamente compiuto tutto ciò di cui era capace.

 

 

 

 


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