LETTERATURA: I MAESTRI: I cipressi di Bolgheri13 Dicembre 2016 di Francesco Gabrieli Quante volte ci siamo sporti dal finestrino per riconoscerli e salutarli, traversando in tre no la Maremma toscana! Ap parivano e sparivano rapidamente, sembrando cosi dar ragione alla razionalistica do manda che ogni tanto ci si riaffacciava, dacché ci rendem mo conto che il duplice filare correva perpendicolare e non parallelo alla ferrovia: « Ma dove han trovato il tempo per tutti quei lunghi discorsi? ». Per vederli un po’ adagio, e da vicino, il modo più comodo sarebbe certo di andarci in macchina; ma la mia macchi netta esce di rado dalla città, per fisica inettitudine di chi la guida alle lunghe tirate extra urbane. Perciò non ci è rima sto che scendere da un trenino locale alla stazione di Bòlgheri, e avventurarci a piedi per qual che chilometro sulla Via Aurelia: non piccola audacia per un anacronistico viandante, camminare sul margine della pista consolare, al rischio ogni momento di esser ridotto come il povero gattino di cui avanza poco più dell’impronta sul l’asfalto impietoso. Ma per amore dei cipressetti e della poesia, affrontiamo quel ri schio: e ci sarebbe ben da go dere la passeggiata, se non ci si dovesse guardare a ogni istante dal soffio micidiale. Le dolci colline maremmane si incurvano all’orizzonte, assalite ogni tanto da filari di cipressi che non sono però ancora quel li da noi cercati; e sulla destra, corrono sempre i nostri cari treni, anche se non più ansi mando come nel 1874. Brilla benigno in cielo un tiepido so le, smorzato dalle nubi, e un fresco venticello incoraggia il pellegrino alla sua impresa. Ecco alfine l’imbocco del via le famoso. Poco oltre la cap pellina ottagona, eretta da un conte Della Gherardesca sancto Guido Donoratici olim comiti ai primi del Settecento, il duplice filare prende l’abbrivo, e fila diritto per cinque chi lometri fino al paesetto di Bòl gheri, che s’intravvede appena lassù. La fiumana ruggente non degna di un guardo lo spettacolo, e seguita a correre alla disperata. Voltandole al fine le spalle, il viandante so pravvissuto può inoltrarsi si curo nel mezzo della nuova via, e contemplare il superbo retti filo, sgombro di uomini e di veicoli, che ascende in lieve pendenza alla lontana meta. Il fondo stradale, oggi pur esso asfaltato, spicca chiaro come una lama, inguainata nella sua cornice di verde; ai tronchi secolari, come già ai tempi del poeta, un’amorosa cura alterna via via e intercala giovani vir gulti, sì da serbare all’insieme un aspetto immutato col pas sare degli anni. Con che riposo l’occhio, avanzando per il viale deserto, segue la prospettiva fuggente, e l’orecchio gode del crescente silenzio, e l’odorato dell’amaro profumo di quelle bacche che la Titti non man giava. A poco a poco, si dimen tica che c’è soltanto nonna Lucia ad aspettarci lassù; e quella lunga via silenziosa, or lata di cipressi e lontanante dal fragore dell’oggi, pare ve ramente un’orfica via all’Ade, un böckliniano accesso al pla cido regno dei morti. * I vivi, purtroppo, ci riaffer rano appena voltate le spalle a quel magico regno, appena riemersi alla pena e all’affanno quotidiano, di cui è quasi sim bolo la frenetica corsa sul l’asfalto. La cappellina di San Guido non è precisamente in asse col viale dei cipressi, e sorge oltre la strada pochi me tri più in là. In asse col ret tifilo arboreo, hanno invece da tempo innalzato un bene in tenzionato cippo con una piramidina, recinto anch’esso da un doppio giro di cipressi. Bernardetta, Tiziana, Loris e com pagni, oltre a imbrattare dei loro nomi la lapide coi versi d’attacco famosi, han provve duto a ridurre tutta la piccola area a un immondezzaio di cartacce e bottiglie vuote. Ma c’è di meglio: tra le firme e i cuori trafitti, spicca un « abbasso il trombone » di un ignoto contestatore letterario, con due inequivoche frecce convergenti sull’inciso nome di Gio suè Carducci. Ho sorriso pensando alla in dignazione con cui avrei letto una tale dichiarazione a venti anni. Oggi, con tanti anni di più, m’è parso che l’ombra di Enrico Thovez, paradossalmen te cara a quei miei stessi car ducciani vent’anni, mi ammic casse maliziosamente: «E al lora, come la mettiamo? ». Non so se l’ignoto contestatore aves se mai letto II pastore, il greg ge e la zampogna, che per primo non spense certo, ma rese più attento e critico il mio giovanile entusiasmo per il poeta (ammetto facilmente, e non me ne vergogno, che la generazione cui appartengo è stata forse l’ultima a entusia smarsi per la poesia carduccia na). Certo da allora, e per tutta una ben lunga via, il nostro gusto ha imparato a distingue re fra le troppo squillanti fan fare epico-storiche, e la musica soave del sogno, del virile rim pianto e della malinconia, in cui cerchiamo oggi di prefe renza la poesia dell’ultimo Omerida. Ancor poco innanzi, avvolto e dolcemente commos so dal suo paesaggio, in quel l’ambiente che egli amò e rese famoso con una poesia fors’anche troppo nota, altri suoi versi mi venivano alle labbra, meno gualciti dalle antologie ma non perciò meno belli, anzi sen z’altro, per me, esteticamente superiori: « Dolce paese, onde portai conforme… », « Colli to scani, e voi pacifiche selve d’o livi… » (quanti, fra chi qui leg ge, sono in grado di continua re?): senza sassate ai cipressi né ai manzoniani, senza facili macchiette scherzose, senza po lemiche, ma con la stessa con tenuta commozione, lo stesso pudico amor del passato, che palpitano nelle strofe migliori di Davanti San Guido. Per nostro conto, diremo semplice mente di aver imparato da Carducci ad amare la vita, e anche, sì, ad accettare la mor te: in accenti tutt’altro che da trombone, amico contestatore, ma certo a te e a troppi altri sconosciuti, egli si augurò lo accompagnasse al passo che Omero e Dante passarono la voce della figlia diletta, e in vocò il sacro riso della poesia prima di essere avvolto dal l’ombra. Quegli stessi suoi versi noi vorremmo arridessero un gior no alla nostra fine, suggellan do la fedeltà di una vita. * Di ritorno per l’Aurelia, ap prodiamo a una trattoria di transito, ove i clienti sono pre gati con apposito cartello di non togliersi la camicia duran te i pasti: e una eletta di si gnori del volante, dai camio nisti ai turisti di gran classe, affronta con pari entusiasmo le tagliatelle alla bolognese. Mi domando ogni quanto tempo capiterà lì qualcuno con vari chilometri di strada nelle gam be, fattisi per salutar da vicino i cipressi del vecchio trombone. Ahimè, questa vanitosa indivi dualistica nota, questo pervi cace nostro ripugnare alla so cietà di massa! Il bello, ha scritto di recente Arturo Jemolo, sarà in avvenire indisso lubilmente legato all’utile, non ci sarà più posto né gusto per una bellezza in sé: lasciateci almeno, ultimi Mohicani di una civiltà a misura umana, venerarne le superstiti e sem pre più rare vestigia, inchi nandoci al poeta dei nostri verdi anni, rinfrancandoci in lui da un’arte e una società in cui non ci raccapezziamo più.
Letto 1609 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||