LETTERATURA: I MAESTRI: L’airone15 Dicembre 2016 di Cesare Garboli « …descendre jusqu’au fond Basta gettare uno sguardo anche soltanto sui titoli della produzione narrativa di Giorgio Bassani, perché salti agli occhi un gusto funerario di tale naturalezza da non lasciare nemmeno sorpresi. Lo si direbbe un’ossessione, la spia di un fatto tecnico, un gusto che, cresciuto, arriverebbe presto alla natura morta olandese con tanto di bicchieri, clessidre e selvaggina se lo scrittore ne apparisse voglioso e consa pevole. È qualcosa di più, invece, e di meno. Oggi può essere una scelta, ma ieri era un tic: Gli ultimi anni di Cle lia Trotti, Una lapide in via Mazzini, Una notte del ’43… Ma anche La passeggiata prima di cena, Gli occhiali d’oro, e perfino quel primo titolo che ripete un semplice nome e cognome, Lida Mantovani (che nome senza scam po!), anche questi erano titoli luttuosi. Il freddo riflesso metallico della cerchiatura delle lenti, e le lenti stesse, il vetro, il cristallo, palesi emblemi di un’eterna custodia di cose morte, e la passeggiata rituale, quadro figé, bloccato dall’esterno: eterna cerimonia dei quattro passi nel crepu scolo sceso sui bastioni deserti o sulla via principale, prima che ci si raccolga nel bozzolo di luce del desco di famiglia, attorniati dalla tenebra, pronti per il rito delle stoviglie luccicanti, per un’altra funzione morta prima di essere con sumata. Esiste in Bassani, come in tutti gli scrittori cresciuti alla scuola delle arti figurative, un gusto particolare della « lu ce ». Figlio di Montale in letteratura, nella « composizio ne », nella sensibilità alle distanze, ai rapporti, agli spazi, Bassani è figlio di Morandi. La sua « luce », lo sguardo che egli lascia cadere sulle cose non è mai crepuscolare, ignora le dolcezze, l’intimità, il tenero naufragio nel sentimento, di ogni romantica accensione vespertina. Bassani è un li rico, ma dannato a un occhio impoetico di arido osservatore positivista. Prima di tutto, il suo occhio « valuta ». E la sua è una luce da museo, una luce, se si potesse dire, insieme struggente e « anatomica », mortuaria e dorata, da camposanto o da parco gentilizio rasserenati da fiori e prati di screti, illustrati con lapidi argentate da uno strato di pol vere dignitosamente composta. È la luce pallida, perfetta, supremamente signorile, della vita finalmente immune da se stessa (che cos’altro è il lutto?), contrita di esistere, e dunque finalmente sacra, finalmente veneranda. Per oggetti morti, scrittura morta. Sempre di più Bassani ambisce a raccontarci le sue storie con un piatto linguaggio da rogito notarile e da scartoffia burocratica. Non un lin guaggio defunto (il vecchio « discorso indiretto libero »), ma addirittura la copia, l’imitazione, il calco di una lingua morta. Non sempre la copia è ironica, en artiste: la scrittura di Bassani è proprio la scrittura di Bassani, tenuta insieme da quei famosi e irritanti « meno che niente », « in breve », « in pratica », « tutto sommato »… Lo scrittore non sapreb be inventarsene un’altra. Ci troviamo davanti a un linguag gio assolutamente medio, curiale e assolutamente irreale quanto sapiente di accordi, clausole, « cursus ». Storie che sanno di musica, scritte con l’orecchio. Se Bassani è oggi uno dei pochi « creatori » di resistenti e autonomi universi d’arte, lo si deve al fatto che le sue « creazioni » narrative sono organizzate secondo retorica, costruite artificialmente, attraversate da un’implicita, incorporea vocazione critica, sottile come una pellicola o una lente a contatto. Mai s’era visto un tale elementare matrimonio di virgolette e di espres sione diretta, di falsetto manieristico e di linguaggio che è tutto un rituale di luoghi comuni. Senza la protezione di questi schermi mortuari, senza que sto nero scudo orlato di ori « lirici », Bassani non sarebbe riuscito a raggiungere nessuna delle sue rappresentazioni. La sua arte presuppone i bruni altipiani dell’asfodelo. Per fino tecnicamente assomiglia al contrastato sciogliersi di una sclerosi. Nella Passeggiata prima di cena, la prospettiva ferrarese di corso Giovecca è messa sotto vetro, visualiz zata nella decrepita immobilità di una fotografia « ingial lita dal tempo, macchiata d’umidità », dentro la quale si iscrive la storia. Geo Josz, il personaggio fantasma di Una lapide in via Mazzini, è un deportato redivivo, un morto che cammina; e con perfetta aderenza al tema, la vicenda di Clelia Trotti comincia e finisce in un camposanto. Ma Gli occhiali d’oro ci offrono addirittura quest’incipit: « II tempo ha cominciato a diradarli, eppure non si può ancora dire che siano pochi, a Ferrara, quelli che ricordano il dottor Fadigati: Athos Fadigati, l’otorinolaringoiatra… ». La morte viene cercata, tallonata, se ne comincia a sentire la vicinanza, l’alito, comincia a coincidere con un vicino pas sato da esplorare. Sarà superfluo ricordare da dove prendano le mosse i Finzi-Contini: la gita alle necropoli etrusche, i popoli som mersi, l’avvio del primo capitolo: « La tomba era grande, massiccia, proprio imponente: una specie di tempio vagamente antico e vagamente orientale »… Le scadenze del gusto mortuario di Bassani osservano un ritmo davvero im pressionante. Ma che cosa spinge lo scrittore verso il mo struoso mausoleo dell’antica famiglia ferrarese, che cosa lo attrae? La morte, si sa, santifica il passato perché lo oblia, perché lo seppellisce, perché fa presto a dimenticarsi come e quanto era stato, quel passato, anch’esso uno stupido, inesistente inferno di vita. Continui pure, la vita, « la famosa vita » (come dirà nell’Airone Edgardo Limentani) a scarabocchiare i suoi lazzi triviali, le sue chiassose volga rità, a imbrattare di parole oscene il superbo, incorruttibile marmo del Niente. Madre sollecita e servizievole, invisibile serva e padrona, la morte lava, pulisce quei segni volgari, ma non li distrugge. Li conserva, li iscrive nel suo illeggi bile libro dai cento significati inviolabili, li trasforma in cer tezze e valori, fa tutto lei, la morte: memorizza e dimen tica, inghiotte e consacra, dice la verità e la nasconde. Nel suo puro esistere, possiede tutta la bellezza indeteriorabile che non ci compete. E dunque: ha gli stessi caratteri immo bili e vivi, la stessa muta, magica sicurezza dell’arte. Sol tanto la morte è « estetica »… Mentre Bassani lavora su elementi morti, li contesta con tutto se stesso, si ribella, si dibatte nel suo stesso ventre: il pigro ventre di Edgardo Limentani. È probabile che lo scrittore abbia preso coscienza della natura singolare del proprio « flaubertismo » negli Occhiali d’oro, nel momento in cui l’imprendibile narratore delle Storie ferraresi, na scosto tra le pieghe del racconto, emergeva dal limbo del non-essere come un « io » vivente, esibiva il suo biglietto da visita, diceva « chi era » senza per questo riconoscersi come « personaggio ». Bassani segue Flaubert fin tanto che il grande maestro lo guida per i sentieri dell’oggettività indi rettamente lirica, tragica e oratoria. Ma volta le spalle al « flaubertismo » nel punto in cui gli strumenti dell’oggetti vità diventano negativi e simbolici. Bassani non può « mor tificare » oggetti già morti, lavora su cadaveri, con procedi mento analogo e opposto a quello di un imbalsamatore. Quest’operazione lo candida a rappresentare oggigiorno una figura di scrittore, una funzione poetica estremamente contemporanea e inattuale. Bassani nega i suoi trucchi mentre ci si danna sopra, mira ad afferrare se stesso « al di fuori » dell’arte. Bassani si « serve » dell’arte, la « adopera ». Il mistero intrigante dei suoi compiti narrativi è tutto qui. Si avverte, nei libri di Bassani, la presenza portante di una persona che non smette di allungare in quelle forme chiuse l’ombra del suo vivo cordone viscerale. La si avverte con l’imbarazzante disagio che nasce da un cibo appetitoso che ci aggredisce. Bassani ci da sempre da mangiare qual cosa. E nel momento in cui un « io » ansioso d’esistere, di « determinarsi », si defilava contro le glorie magiche del « pio passato », contro la mistica della morte, nascevano i Finzi-Contini, sulla musica di un verso più antico: « Se qui, nel petto, contro il vivo cuore, / s’entro me stesso sep pellirti osai… ». Bisognava restituire il museo, la sclerosi alla vita. È vero: il romanzo di Bassani coincideva con le prime luci del centro-sinistra, col miracolo, con la piccola-borghesia delle utilitarie. L’arte è astuta per definizione. Del resto, Bassani era il primo a conoscersi. In Dietro la porta, la sola opera di Bassani che non ospiti riferimenti funerari, l’io narrante, corazzato di sprezzante risentimento verso un compagno di studi, si riconosceva « incapace d’amare », si autodefìniva « il solito piccolo, impotente sicario di sem pre ». In quella pagina tra le più inconsce dello scrittore, l’io-artista di Bassani affermava e negava se stesso, percepiva le proprie difese, raggiungeva la vergognosa, morta origine del suo futuro destino di poeta. Storia non di un suicidio, ma di una rivelazione e con templazione della morte, L’airone è scritto in terza persona. Riconosciuta un’impotenza di vita, libero da se stesso, Bas sani ha imparato a trasporsi, a raccontare. Ora può guar dare in faccia l’antico, mortuario idolo materno, stanare la bestia odiata e adorata. Della morte sente il fiato di animale agonizzante a pochi centimetri da lui. Può scrutarla, osservarla, studiarla, « leggerla ». E può decifrarne il profondo, sublime meccanismo compensatorio. Nello spazio di una domenica di caccia in botte, nelle valli tra Codigoro e Pomposa, Edgardo Limentani, proprietario terriero, conquista la travagliata consapevolezza di essere morto « dentro ». Come certi uccelli che il fucile disdegna, come gli aironi, può fare il suo bell’effetto soltanto se im pagliato. La gita in valle, la giornata di caccia è una ricerca e una fuga: Limentani scappa non appena fiuta odore di diversità, di « vita ». Scappa dalla vista della figlia, dalla vecchia portineria, dal contatto telefonico con un alloggio rumoroso. Fuggire lo delude, ma lo sveglia e lo stranisce, lo eccita. È chiamato dalla morte, le corre incontro. Ma quando se la sente addosso, vicina in un airone ferito, il povero Limentani non ha scampo, scende una pazza scala di compensazioni precipitose. Mangia, beve, dorme, sogna, delira. Prende coscienza di tutta la sua goffa, grottesca soli tudine di grossa mummia ingombrante. E nello stesso mo mento, nella piazza di Codigoro, tra un alto caseggiato INA e l’ex-casa del Fascio, davanti a una vetrina di animali im pagliati, sorta di stregonesca camera delle meraviglie, scop pia in lui la cognizione ilare, improvvisa, della vertiginosa felicità della morte. L’airone può leggersi a tanti livelli, possiede diverse scrit ture. È allegoria del processo creativo (la meticolosa osses sione con cui Limentani misura tempi, spazi, qualità e sim metrie delle cose). È novella percorsa da una crescente co micità, da un rire baudelairiano per la coincidenza di tra gedia, assurdo e stupidità (« La cocorita? Cosa c’entra la cocorita? »). Può darsi che alterni pagine perfette (la ve trina, il volo delle anitre, la stanza dei custodi, il colloquio con la madre) ad altre che lo sono meno. Ma questi giochi d’arte più e d’arte meno poco s’adattano a un libro come questo. In un mondo che non vuole più saperne di vivere, nel suo grandioso « trionfo » la morte non poteva imbattersi in un antagonista, in un dissidente di più cocciute, resistenti armi laiche. (1968)
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