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LETTERATURA: I MAESTRI: I racconti di Lampedusa

20 Novembre 2012

di Carlo Bo
[da: “La religione di Serra”, Vallecchi, 1967]

Come deve essere giudicato il Gattopardo? La domanda, ormai vieta e ridicola, soprattutto dopo l’incredibile successo riportato in tutto il mondo, viene indirettamente riproposta dall’editore Feltrinelli con la pubblicazione dei Racconti del Lampedusa, sempre curati da Giorgio Bassani. In altri termini: Giuseppe Tomasi di Lampedusa deve essere con ­siderato l’autore di un libro solo o, al contrario, una figura completa, con un disegno ben definito e una storia chiara della sua evoluzione?

Direi che sono proprio i Racconti a dar corpo e a conva ­lidare la prima ipotesi, tenuto conto anche dei termini stretti della vicenda di Tomasi scrittore, per cui sembra più che giusto considerare queste prove come dei cartoni, come de ­gli esperimenti e, ad eccezione del più impegnato Lighea, tutti collegati al motivo ispiratore del Gattopardo. « Gattoparderie », come diceva scherzosamente il principe: motivi della memoria ripresi con una struggente vena di pas ­sione. Probabilmente lo scrittore Tomasi non sarebbe nep ­pure nato senza l’innesto violentissimo della memoria, senza l’apporto d’una lunga meditazione sulla sua privata vicenda terrena che, soltanto in un secondo tempo, riusciva a raggiungere un terreno più vasto e ad acquistare un si ­gnificato generale, di grande valore umano.

Ma vediamo un po’ da vicino il libro. È composto di tre racconti e di un capitolo di memorie. Il primo racconto che s’intitola Il mattino di un mezzadro e risponde quasi meccanicamente all’eco del Gattopardo, è ancora la storia della evoluzione della società siciliana ai primi del secolo. Da una parte c’è la classe nuova, rappresentata dagli Ibba, un mondo fatto di poche ambizioni, di avarizia e di furbizia; dall’altra la vecchia classe disfatta dei nobili, costretti a passare la mano, incapaci di contrastare validamente il passo ai nuovi padroni e paghi soltanto di risolvere la questione con dei risentimenti, dei pettegolezzi e una grossolana iro ­nia. Il lettore ritroverà addirittura personaggi e ombre di personaggi del Gattopardo quali il figlio del ragioniere Ferrara e il nipote del principe, don Fabrizietto Salina.

A nostro parere, la cosa più importante da notare è il senso vivissimo delle proporzioni del tempo, che in fin dei conti resta eterno protagonista del Lampedusa: qui la visio ­ne della vicenda irrimediabile delle fortune è perfetta, così come lo è quella dell’impossibilità di restare fedeli a certi miti di famiglia. Si ha l’impressione che, per Lampedusa, uomini e cose non fossero altro che ombre mosse e condotte dal vento della morte. Ma, a differenza del Gattopardo, lo scrittore qui sembra non dominare, non superare queste sensazioni violente che sfiorano la desolazione ultima, per cui i personaggi risultano schiacciati, appena abbozzati, me ­glio ancora poco consistenti.

Già nel Gattopardo, soprattutto verso la fine, si intravvedevano le difficoltà che lo scrittore aveva dovuto affrontare; è quindi logico che al momento di voler dare un seguito al libro (c’era già il titolo,  I gattini ciechi di cui per l’ap ­punto Il mattino di un mezzadro doveva essere il primo capitolo) il Tomasi abbia avvertito meglio la natura del ­l’ostacolo, intuendo che non sarebbe stato soccorso da quella unità di ispirazione che gli era valsa a salvare il libro.

Il secondo racconto La gioia e la legge, non aggiunge nulla, caso mai pone qualche dubbio e qualche perplessità sulle reali possibilità di Tomasi come scrittore autonomo, tolto dal nucleo ispiratore della memoria. È una storia di gusto crepuscolare che non riesce a risolversi né sul piano dell’ironia né su quello di una modesta poesia delle cose. Girolamo â— povero impiegato in lotta mortale con lo sti ­pendio, che riceve per Natale un grosso panettone ed è costretto dalla moglie a regalarlo per un debito d’onore all’avvocato Risma – non ha fisionomia, così come non ce l’hanno la moglie Maria e le altre figure di comodo, è soltanto un fantoccio, che non sopporta il peso della piccola favola da rappresentare.

Di maggior respiro e di ben altro impegno è Lighea, il terzo dei racconti pubblicati, anche se denuncia una grave limitazione di carattere culturale. In fondo sono tre gli aspetti dello scrittore che il libro sottolinea: Il mattino di un mezzadro e l’ultima parte delle memorie, I luoghi della mia prima infanzia, riflettono il mondo vero, autentico del Tomasi, la sua Sicilia, trasformata dalla meditazione. Il secondo racconto indica la parte meno sicura del suo gusto (ad essere indulgenti, non è che un divertimento alla Pan ­zini), mentre il terzo, se ribadisce i limiti e la riduzione della forte remora culturale, mostra però certe possibilità del Tomasi che non hanno avuto modo di consolidarsi e di definirsi. Alludo alla prima parte di Lighea, al ritratto di una certa Torino al tempo del fascismo che esce assai bene dalla descrizione del Tomasi.

Chi racconta è ancora un personaggio possibile del Gat ­topardo, un discendente dei Corbera di Salina. Si trova a Torino (siamo nel 1938) per ragioni di lavoro, è un redat ­tore della « Stampa » e abita in un piccolo alloggio di via Peyron. Non ha grandi qualità (c’è il sospetto che sia en ­trato al giornale per una raccomandazione del federale), ma gode di una cultura naturale che gli viene dall’ambiente in cui è nato. Lo incontriamo nelle vesti di dongiovanni alle prese con due « tote » che perde per la sua « disonestà meridionale » – sono parole della « tota » n. 2 – in un caffè di Piazza Carlo Felice. Ma non sarà lui il protagonista, per conoscerlo occorre aspettare che Gerbera faccia amicizia col vicino di tavola, il senatore RosarioLa Giura, ordinario di letteratura greca all’Università famoso in tutto il mondo.

L’ambiente torinese, il caffè, la casa del professore in via Bertola, quella del giornalista, i reciproci scambi di cortesie : da tutti questi temi il racconto prende un avvio sicuro e pre ­ciso e ci fa vedere come il Tomasi avrebbe anche potuto scrivere un romanzo diverso dal Gattopardo, una storia dei nostri giorni, a patto di staccarsi dalla Sicilia. Infatti Lighea ne è una riprova: il racconto regge fino a quando alla storia torinese non si sostituisce quella siciliana e ilLa Giura, con i suoi ricordi giovanili, non ci fa ricascare nella parte mito ­logica, poetica e filosofica così cara alla fantasia del Tomasi.

In fondo sono due esemplari umani che lo scrittore mette di fronte: il giovane che si accontenta di quel poco che offre il mondo, e un mondo così avvilito, così suscettibile di essere ironizzato (siamo al tempo del trionfo fascista), e il giovane di un’altra stagione che non doveva cogliere nulla di facile, nulla di provvisorio dalla vita, ma solo lo studio, l’intelligenza delle prime verità e un amore unico, non umano: l’amore con una sirena.

Il professorLa Giura, alla vigilia di partire per un con ­gresso, confessa al giornalista quello che gli era accaduto tanti anni prima ad Augusta, l’incontro con una sirena, i venti giorni passati con Lighea. Chi era questa figlia di Calliope? « All’oscuro di tutte le culture, ignara di ogni saggezza; sdegnosa di qualsiasi costrizione morale, essa faceva parte, tuttavia, della sorgiva di ogni cultura, di ogni sa ­pienza, di ogni etica e sapeva esprimere questa sua primi ­genia superiorità in termini di scabra bellezza ». Ma il mat ­tino di quel 26 agosto perduto, quando la sirena scomparve nella schiuma del mare, il giovane professore sentì una promessa: «Non dimenticherai », su cui avrebbe sognato tutta la vita. Ed ecco che nel viaggio tra Genova e Napoli sul Rex il richiamo si fa inevitabile eLa Giurasi tuffa in mare per soddisfare il sogno vagheggiato in tanti anni.

Dal gusto naturalista della prima parte si passa a una forma allusiva, propria della scuola simbolista, dove non sarà difficile al lettore stabilire confronti e ritrovare echi: il Tomasi si è servito della favola per dare ancora una volta un giudizio sulla vita e sugli uomini. Resta da stabilire qual era la sua vera strada: l’invenzione libera o quella condizio ­nata dalla memoria dei luoghi, dall’aria del tempo perduto?

Ecco dove l’ultimo pezzo, che è una pura testimonianza privata, I luoghi della mia prima infanzia, risulta prezioso, non solo come cartone del Gattopardo (il lettore ritroverà le due case del principe, quella di Palermo e quella di Santa Margherita) ma come una specie di testamento ideale o addirittura, di atto di fede. La luce, il sole, la campagna, la memoria degli uomini chiusa nelle case votate alla distru ­zione e, dall’altra parte, il riscatto della poesia e l’abban ­dono cosciente nella tristezza. Non c’è dubbio, l’immagine del giovane Tomasi che legge il libro delle glorie napoleoniche nella casa di Santa Margherita è identica a quella del giovane Proust delle giornate di lettura: tutti e due sono rimasti a guardare la vita, a inseguirne il segreto attraverso gli occhi spenti che arrivano nelle loro stanze per fissare la verità umana fra la disperazione e l’amore.

Un’ultima domanda: il libro così com’è, vive da solo? No, e poiché fa parte di una ideale appendice del Gatto ­pardo, sarà opportuno un giorno avere in un solo volume il romanzo, i racconti e i saggi e, magari, qualche lettera. Devo aggiungere che non il meglio, ma tutto Lampedusa sta nel Gattopardo? Qualsiasi inedito avrà solo una funzione complementare o di conferma sui particolari.

15 luglio 1961


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Bart