LETTERATURA: I MAESTRI: Il Carovana13 Settembre 2018 di Roberto Ridolfi Mi dispiacerebbe che i let tori si spaventassero inutil mente perché a questo, per ora, non ci siamo arrivati: nel titolo non c’è mica una sgrammaticatura, anche se ar ticolo e nome fanno l’effetto di andare d’accordo tra loro come due occhi strabici. Ca rovana qui non ha nulla da fare col nome collettivo di genere femminile che, secon do gli etimologisti, viene dal persiano karwan e, a sentir nonna Crusca, significa « com pagnia di mercanti, viaggia tori o pellegrini che attraver sano insieme i deserti »: qui è semplicemente un cognome. Nelle campagne toscane c’è l’abitudine di rimodellare i cognomi sui nomi comuni ogni volta che se ne trovi qualcuno che ci si possa adat tare: Tempesti, Pertici diven tano inevitabilmente Tempe sta, Pertica. Così, il nostro Carovani diventò il Carovana. Anche senza l’imbeccata dei venerandi Accademici, il suo nome evocava i deserti. Nei deserti non c’era mai sta to; eppure nessuno ci si sa rebbe trovato meglio di lui. Dromedari e cammelli hanno fama di potere andare avanti molti giorni senz’acqua, il Ca rovana non ne aveva mai be vuto una goccia in tutta la vita: dire che la detestasse, l’odiasse, gli facesse un invincibil ribrezzo, sarebbe dir poco: bastava soltanto nominar gliela per vederlo sbiancare, lui tutto rosso come un bel peperone maturo. Rossa aveva la pelle del vi so, rossi i capelli, i sopracci gli, i baffi spioventi; rosso perfino il bianco degli occhi; ma tutto quel rosso sbiadiva a paragone del fiammeggiar vermiglio del naso. Di politi ca non s’impacciava, alla com pagnia delle teste calde pre ferendo la compagnia del fia sco nel canto del fuoco; ma ai socialisti dava il voto per una simpatia cromatica: lo af fascinava il color sanguigno delle loro bandiere. In lui (cosa incredibile e vera) perfino il fanatico amor per il vino, tanto grande quanto l’odio per l’acqua, risenti va di quella fisiologica attra zione per il rosso: infatti, il vin bianco a malapena lo sop portava; se gliene mescevano un bicchiere, prima di deci dersi a buttarlo giù, se lo ri girava tra le mani, l’annusa va, arricciava il naso, lo guar dava controluce facendogli una boccaccia. * Capoccia di una famiglia di mezzaioli nella piana di Brozzi, chissà quanto doveva averci patito: bastava che ve nissero giù due gocce perché diventasse un acquitrino; tra pozzi, fossi, canneti, gli ci pareva di marcire un poco ogni giorno. Acqua, acqua. E il vino di quelle bassure somigliava a un acquerello. Si dette il caso che alla Baronta si liberasse un poderino, sopra un poggio così sas soso e siccitoso che anche al tempo del Diluvio universale le piante dovevano morirci di sete. Appena lo seppe, il no stro uomo non stette a pen sarci: corse come se quei sas si fossero oro zecchino. S’era ai primi di giugno, quando venne a visitare il po dere, e già i fieni erano sec chi; il grano, appena comin ciato a granire, aveva bell’e avuto la stretta; le piante av vizzivano nell’alidore. Lui guardava beato quel secca toio, ascoltava estatico le la mentele del contadino uscen te; quello aveva un bel dir gli che l’acqua bisognava prenderla col barroccio più lontano di un miglio, che d’e state, anche se tutto intorno faceva burrasca, lì, per un giro di venti, non cadeva una goccia; macché: più quello rincarava la dose, più il Ca rovana godeva e il suo viso si faceva raggiante. Volle as saggiare il vino stillato da quelle petraie e sentenziò, leccandosi i baffi: â— Piutto sto che campare cent’anni con le ranocchie nel pantano do ve sono, vo’ morir qui con le cicale in un’estatata. * Ci visse invece a lungo. Il podere produceva pochissimo grano, ma a lui di pane gliene bastava un poco per inzup parlo nel vino. Neppure il vi no era molto, ma ricompra va anche la parte del padro ne, ne raccapezzava qua e là vendendo altri prodotti della terra e perfino gli uccelli del l’aria. Già, perché in quei piani aveva imparato a pigliare i tordi coi lacci e uccelletti d’ogni sorta con ogni birbo neria. La solennità maggiore del l’anno, per lui, era la svina tura. La festeggiava metten do un barile di vino nuovo in mezzo alla tavola apparecchiata, e da quello beatamente attingeva. Nessuno sapeva lavorare meglio di lui le vinacce per cavarne acquerelli e mezzoni, ma poi in corpo suo non entravano: parte li dava via barattandoli con qualche fiasco di vino vergi ne, parte li adoperava per lavarsi; avendo a schifo l’ac qua anche per quelle basse bisogne: con l’acqua, invece di pulirsi, gli sarebbe sembra to d’insudiciarsi. Insomma, il vino che riusciva a mettere insieme con vari commerci ed industrie era molto; quanto al resto, si contentava di poco. Nel man giare era tanto moderato quant’era smoderato nel bere; ne avrebbe fatto anche a me no: mangiava soltanto per aiutarsi a bere di più. Prefe riva i cibi forti e salati, carnesecca, salami, salsicce con un buon rinforzo di zenzero. Evitava il baccalà secco, le aringhe, le acciughe; perché tutto ciò che era nato e cre sciuto nell’acqua (diceva) gli era di difficilissima digestione. Iracondo, violento, rissoso, bastava offrirgli un po’ di quel rosso, o soltanto ragionarglie ne, per renderlo a un tratto pastoso e soave; per contra rio, anche nello stato di per fetta beatitudine che raggiungeva dopo aver veduto il fon do di un fiasco, la vista o il solo nome dell’acqua suscita va in lui collere improvvise e terribili. Una volta che vi de un deputato socialista ber ne un bicchiere durante un comizio, non volle intendere ragioni: votò per il Partito Popolare. Le avventure più memorabili le viveva quando andava a comprar del bestiame. Vagliava prima con minuziosa pedanteria le occasioni propo ste dai sensali, scegliendo (condizione importante) luo ghi lontani, paesi di poggio nominati per il vin buono. Partito in calesse col sensale e col sottofattore, a ogni oste ria e a ogni botteguccia dove si poteva sperare che ne mescessero, non c’erano santi: s’impadroniva a forza delle redini, fermava il cavallo e, con le buone o con le cattive, con le preghiere o con le be stemmie, faceva scendere i compagni di viaggio, costrin gendoli a berne un bicchiere con lui. Per questo appunto preferiva comprar le bestie alla lontana: poca strada da fare voleva dire poche be vute. * Come la vita umana appa re sottoposta alle occulte for ze del Bene e del Male, così quella del Carovana alle op poste influenze del Vino e del l’Acqua. Un giorno era anda to con un carretto a mano per prendere due dozzine di fia schi di quel buono che aveva comprato in una fattoria: in carichi del genere non si sa rebbe fidato di darli a un fi gliolo. Con quei ventiquattro fiaschi, e uno in corpo, tor nava spingendo il carretto col tenero amor di una mamma che porta il pargolo nel car rozzino, quando, a mezza strada, lo colse un maledetto acquazzone. Pioveva a cielo rotto e non c’era luogo da ripararsi. I fiaschi erano tappa ti soltanto con leggeri cappucci di carta; il nostro eroe, temendo che quell’acquaccia finisse coll’annacquare il suo vino, si levò la giacca per ripararlo, si levò altro che aveva addosso, perfino i calzoni. Era di febbraio: arrivò a casa in mutande, battendo i denti sotto la pioggia bat tente. Si mise a letto con una pol monite doppia. Nel delirio chiedeva di quei fiaschi per i quali s’era immolato. Si lasciò fare certe iniezioni perché aveva prima visto e conside rato favorevolmente le fiale, contenenti un liquido di un bel rosso rubino che pareva vin del Chianti. Migliorò; for se se la sarebbe cavata, se un brutto giorno il medico non avesse voluto fargli prendere per forza qualche goccia di non so che, addirittura in due dita d’acqua. Il Carovana s’in furiò, ruppe un bicchiere, ne rovesciò un altro, si difese con tutte le sue forze; ma le sue forze erano poche, non tan to per il male quanto per la lunga astinenza: dacché s’era messo a letto, il vino glielo davano col contagocce. Men tre un figliolo (tu quoque…) lo teneva fermo, il dottor ma ramaldo gli chiuse il naso con due dita e riuscì così a fargli trangugiare i primi e gli ulti mi sorsi d’acqua della sua vi ta. Rantolò: â— M’avete am mazzato â—. Infatti il giorno dopo era morto. Da una settimana non fa ceva che piovere. Sotto quel diluvio, perfino i sitibondi ga lestri della Baronta erano di venuti un padule. In mezzo ai campi allagati, il cimiteri- no della parrocchia pareva una tesa per le folaghe. An dare a guazzo lì dentro: chi glielo avrebbe detto, povero Carovana! Erano suonate da poco le ventitré, e pareva già notte. Ma quando, scese le scale, la cassa fu posata sotto la log gia, smise a un tratto di pio vere; poi, mentre il funerale s’avviava con le fiaccole ac cese giù per la china, tra il nuvolame nero e le lontane vette dei poggi s’aprì una fes sura, proprio a tempo perché ci si potesse infilare l’ultimo raggio del sole che tramon tava. All’uscir di chiesa, il cielo era tutto rosso, come se l’ac qua delle nuvole si fosse con vertita in vino. Bista del Per tica guardò in aria e disse: « O che è bell’e arrivato las sù? ».
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