LETTERATURA: I MAESTRI: Il diavolo22 Novembre 2018 di Mario Tobino Aveva gli occhi liquidi, trasparenti, un celeste palli Âdo, un lago immobile. – PerchĂ© l’ha fatto? – Per purificarmi. – Come? – Ora mi sento piĂą legge Âra, potrei volare. Sono felice. – Adesso il diavolo sta distante â— continuò la ragaz Âza â—. E’ laggiĂą. – Dove? – In fondo al parco, die Âtro il cancello. Ha paura di me: sono pura. – E’ un brutto affare que Âsta scottatura â— mormorò il medico. La ragazza continuava a tenere le palme delle mani aperte. Erano ricoperte di bolle, di flittene, tese dal sie Âro. Anche il dorso delle ma Âni era ustionato, ma in gra Âdo minore. – Non sentiva male? – Sì, ma la voce mi dice Âva: â— Se ti vuoi salvare, de Âvi bruciare la tua carne, le mani che hanno toccato il diavolo. – Di dove proveniva la voce? – Dall’alto. – Come le è venuto in mente il termosifone? – E’ stata la voce a indi Âcarmelo. In questa stagione bollono. Facevo finta di ave Âre freddo. Premevo le palme; quando non ne potevo piĂą tornavo a letto. Riprendevo forza, la voce mi animava. PiĂą mi bruciavo, piĂą mi av Âvicinavo alla purezza. Il dia Âvolo digrignava i denti, in Âcendiava gli occhi. Io preme Âvo di piĂą le mani sul termo Âsifone. – E’ stata una lotta â— ammise il medico. – Ho vinto io â— sorrise la ragazza â—. Le infermiere non se ne sono accorte! -E quanto è durata? – Da stamani presto. – Alcune ore. – Sì. – Dobbiamo medicarla â— disse il medico rivolto alla infermiera â—. Il pericolo è l’infezione. L’ustione non è molto estesa; il pericolo è che si infetti. Va trattata co Âme una ferita. L’esame delle urine tutti i giorni; non se ne scordi. * Il medico punse le bolle tese di un liquido sieroso. Gli venne in mente quel dopo Âpranzo d’estate quando quel Âla malata, la Bitossi, arrivò al manicomio. Fu lui a ricever Âla, era di guardia. Le cicale forsennate cantavano per tut Âto il parco. Se mi ricordo bene il diavolo era suo marito. Me lo confessò lei. – Sì, lo sanno tutti. – Quando vi vedete? – La notte. Ma anche di giorno. – Ha avuto figli? – Tanti, tanti. – Come ha gli occhi? – Chi? il diavolo? – Sì. – Rossi. – Rossi?! – Per il fuoco. – E’ peloso? – No. Ha la pelle liscia come un bambino. – E’ bruno? – Nero, i capelli neri; le cornettine come due riccioli. – Come lo conobbe? – Si presentò una notte. – Era vestito? – MacchĂ©. Nudo! â— e la ragazza esplose in una risata irreale, simile a cristalli in frantumi. E fu qui che il me Âdico si accorse che anche la sua voce era diversa, squil Âlante ma recitata, di un uni Âco tono, versi ripetuti distrat Âtamente a memoria. Il medico continuava a pungere le flittene. La ragaz Âza non pareva sentisse dolo Âre; anzi aveva sul volto un che di esaltazione gaudiosa. – Le faccio male? – No. E’ una grande gioia tornare puri. – Prima di sposare il dia Âvolo, lei era… – A tredici anni avevo giĂ persa l’innocenza. – Lui venne dopo. – Sì. – Che scuole ha fatto? – Stavo per diventare mae Âstra quando cominciarono le voci, mi arrivavano da die Âtro le spalle, dall’alto, a vol Âte ingiuriose, a volte invece gentili, invitanti. Apparivano e sparivano anche dei volti; c’erano dei maledetti. Poi ven Âne lui, il diavolo. Allora si chiarì tutto. Veniva di notte. I miei genitori facevano fin Âta di non accorgersi che ave Âvo tanti figli. Non so perchĂ© un giorno mi portarono qui. Il dottore era chino al suo lavoro. Ma contemporaneamente aveva in mente il viso della ragazza, gli occhi di una trasparenza rara, un celeste acquoso, un colore immobile come in quel ghiacciaio contemplato tanti anni fa, quando era negli alpini, una luce di indifferenza, frequente negli occhi di delin Âquenti abituali. Le guance erano molli e di un pallore come ce l’hanno le donne ci Ânesi. – Non sapevo che il dia Âvolo avesse gli occhi rossi! – Li ha accesi, due braci. – Di notte, quando veni Âva, di che parlavate? – Stava pochi secondi. Sentivo la vampa. – E spariva? – Sì, ma ritornava, ecco Âme! Era mio marito. Ho avu Âto tanti figli. – Dove sono? – Li tiene lui. Io li fac Âcio e lui li porta via. – Sono diavolini? La ragazza invece di ri Âspondere rise in quel modo speciale, una mescolanza di ghigno e tensione gioiosa. – Mi raccomando â— mor Âmora il medico rivolto alla infermiera â—. Come una fe Ârita, non deve infettarsi; an Âtibiotici ogni dodici ore – Poi, rivolto alla Bitossi, alla ragazza: – Mi piacerebbe sapere come parla un diavolo. – Non parla. Mi guarda con gli occhi di brace e sof Âfia. Io capisco. Il medico depositò sulla scottatura le strisce di garza sterile. â— La può fasciare lei â— disse all’infermiera. E alzò il viso sulla Bitossi. Quel colore di occhi! una luce immobile, uguale a quel ghiacciaio che aveva contem Âplato quando era giovane. Il medico domandò all’in Âfermiera che cura faceva la ragazza. L’infermiera elencò alcuni psico-farmaci. L’infermiera voleva scusar Âsi: â— Non è stato possibile indovinare che si voleva scot Âtare. Ogni tanto si avvicinava al termosifone come fosse in Âfreddolita, e se ne tornava tranquillamente a letto. Ce ne siamo accorte che era troppo tardi. La Bitossi interruppe: â— Non ha nessuna colpa. Mi ha dato una felicitĂ . Ora mi sen Âto pura, leggera, felice. Il diavolo è sempre piĂą lonta Âno. Stanotte dormirò â—. E aggiunse con quella voce astratta: â— Voi non cono Âscete la bellezza di sentirsi puri. Il medico sospirò un sa Âluto e prese la via del reparto n. 9; doveva fare la visita anche in quello. Per arrivarci si doveva scendere un lungo scalone; poi il corridoio giallognolo, di solito sempre deserto. Il medico avanzava e con Âtinuava ad avere davanti a sĂ© gli occhi della Bitossi: « Provocano disagio, preferi Ârei non averli visti, averli giĂ dimenticati ». La caporeparto del 9, ap Âpena lo scorse, gli venne incontro, e cominciò a elencare le novitĂ . Il vecchio medico tenten Ânava la testa dicendo sì, automaticamente, ancora con la mente alla Bitossi. E d’un tratto, dentro di sĂ©, amaramente, con un profondo senso di solitudine: « Naturale che mettono a disagio. Sono lontani da noi, nemici della tenerezza uma Âna. Sono gli occhi della paz Âzìa ».
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