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LETTERATURA: I MAESTRI: Il male estetico

3 Gennaio 2017

di Cesare Garboli
[da: “La stanza separata”, Mondadori, 1969]

Non so se nel fallimento della critica militante italiana, come informa Pier Paolo Pasolini, ma certo il saggio con lettera di Pasolini che si legge qui in « Paragone » mi coin ­volge in qualche modo. Sensazione sgradita, che si somma al disagio di dover decifrare le ragioni per le quali Pasolini mi ha chiamato in causa in termini così improvvisamente malevoli, e, non si sa perché, personali. Ho anche l’impres ­sione che se la mia nota dantesca apparsa a suo tempo in « Paragone » si riducesse a una nobile sopravvivenza di posizioni antiquate, Pasolini non se la sarebbe poi presa tanto. Vista la sua reazione, c’è piuttosto da credere che a quella incursione, forse al di là di ogni cosciente assunto, sia avvenuto addirittura di mettere in allarme un sistema tradizionale, ufficialmente omologato da autorevoli membri di commissioni romantico-decadenti, di concepire i fatti d’ar ­te e la letteratura.

Ma vorrei in primo luogo dichiarare il mio imbarazzo nel vedermi imputato non si sa bene di che cosa. Non sono un temperamento pubblicitario, ma non so nemmeno accettar ­mi come bersaglio di malizie così immotivate, estempora ­nee, e insieme genericamente allusive. Già questa sensazione di fastidio è aumentata dal diffuso tono del saggio di Pa ­solini, di cui fatico, per esempio, indipendentemente dai riferimenti personali, a identificare i destinatari: folla di brava gente, mortali, si direbbe, da convertire al più presto a un’interpretazione del poema di Dante piuttosto che ad un’altra. O pubblico di intellettuali? O di specialisti? Il messaggio si avvale dello schema « filologia-megafono », si dirige a studiosi ma suggerisce misteri, indulge al mònito, dunque inventa adepti e poi ermetizza, fiammeggia, allude, invoglia al rito dei pochi. Personalmente questo tipo di cri ­tica oracolare, divineggiante, eccitatissima, rabdomantica, tutta sui nervi, sempre affannata dalla smania di arrivare in tempo, eternamente sul punto di scoprire l’America, ma ­gari prendendo per nuove rive territori marcatissimi su map ­pe correnti, mobilita tutta la mia più profonda repulsione. È vero che nella storia della critica dantesca, che tante ne vide e ne pensò, spesseggiano analoghi esempi di esegesi vivamente passionale, tra il Manifesto e l’Annunciazione; e tornano in mente i patemi e gli studi danteschi del Pascoli, quando con quella sua aria di puerpera esausta, e il suo lin ­guaggio benedicente, che pareva rivolgersi più ai fanciulli che agli studiosi, dava l’annuncio: « E se vi dicessi che l’ho scoperto io, Dante?, che ho trovato io la chiavina? Sì, sì, proprio io? », o qualcosa del genere, gettando nella coster ­nazione i poveri redattori del « Bullettino », i quali non sapeano che si chiamare. È anche vero che è destino, certamente ingrato e immeritato, della « figura » dantesca quello di provocare il gusto irresistibile dell’interrogativo, con con ­seguente posizione di enigmi della più varia specie, ma co ­munque da svelare: malattia che bisognerà ormai rassegnarsi a giudicare inguaribile, tanto più che soltanto una lunga e disciplinata esperienza di studi non solo danteschi ma più largamente medievali può renderne immuni. Tutta ­via salta in testa, sul momento, almeno una spiegazione del fenomeno. Probabilmente, questo è ovvio, all’origine dei reiterati assalti problematici, interrogativi, enigmistici, ecc., del poema dantesco, con annessi annunci e rivelazioni, sta la qualità inarrivabilmente oggettiva del corpo vivente del la Commedia, dove l’oggettività è tale, e a tal punto il poeta si riduce a « cosa », che parrebbe congrue il ritrovarsi di fronte a un corpo morto, a un immenso ossame, mentre poi la mostruosa macchina si riproduce mobilmente in cen ­to vivi aspetti, e non smette di elargire energia. Ora, è pro ­prio la totale, assoluta carenza di complicità estetica, sog ­gettiva, di Dante che scrive con il proprio prodotto (mentre poi il prodotto stesso non fa altro che annodarsi in modo ossessivo intorno all’esperienza di un « io », e il superbo insieme viene esclusivamente connesso di materiali autobiografici) che agisce sulla coscienza estetica moderna, sem ­pre di ascendenza romantica, in modo oscuramente ma vi ­vacemente provocatorio. È insomma proprio l’oggettività, la compattezza dantesca di tecnicismo e psicologia, la formi ­dabile, paradossale identità-dissociazione dei due « io », il narrante e il narrato, combacianti nella creazione di un co ­smo autosufficiente, che ha scatenato in tempi moderni rea ­zioni critiche al di fuori della norma, a volta a volta identi ­ficazioni reverenziali, fanatismi enigmistici e perfino quei tentativi di riduzione al metro lirico di cui è stato esempio il saggio del Croce. A pensarci, la suprema oggettività, per esempio, dei poemi omerici, nati al di fuori di esperienze personalistiche, o comunque eccedenti il laboratorio priva ­to, ci sembra a tanta distanza un fatto naturale, ci sorprende in misura minore; e così, avanzando dal medioevo all’età moderna, presto ci troviamo a pestare prati di nascente co ­scienza « estetica », almeno a partire dal secolo XVII; en ­triamo nei grandi, ma esplicabili disegni del « romanzo », via via da cavalleresco a borghese; ma il « romanzo » dantesco, la Commedia, questa viva anticaglia simbolica, insie ­me assolutamente soggettiva e oggettuale, è unica, il casto ­ne dei tempi danteschi sembra davvero fatale, e quella qua ­lità di pietra introvabile. C’è caso che la vera fortuna di Dante spetti proprio al nostro tempo, e chi sa, forse è suo ­nata la sua ora, le identificazioni di una volta stanno già cedendo a identificazioni, antagonismi, complessi d’altra na ­tura. In certo modo, c’è da augurarselo.

Ma per tornare a Pasolini, perché complicare questioni obbiettive mescolando rilievi pubblici a privati, addossare e addossarsi « colpe » critiche? Esibire le viscere, si sa, riesce sempre a un effetto intrigante. Così quell’adoprarsi a « rilet ­ture » dantesche concepite come « esami di coscienza » mi rende sospettosissimo, e già solo l’espressione « esame di coscienza », applicata alla letteratura, può provocare quei trasalimenti, quei brividi che arricciano la pelle ove mai ripassiamo per tristi e antichi luoghi finalmente abbando ­nati dalla memoria. Dagli anni sessanta mi ritrovo retrocesso precipitosamente a ben più addietro di un decennio. Appassionano, lo so, quelle naturali attitudini critiche da cuore in mano, che ovviamente determinano il parallelo ri ­corso, « fortiniano », per così dire, a datazioni minime; ma di questo passo, con l’andazzo del Pasolini, presto lo senti ­remo discorrere di razionalismo dell’autunno del ’35, o di misticismo estivo del ’52. Altro atteggiamento che consi-glierei a Pasolini di dimettere è quella posa poco simpatica di chi è sempre sotto la fatalità di pronunciare l’ul ­tima e inquietante parola; tanto più che il tutto si risolve poi nella mozione, così di punto in bianco, di allarmanti sciarade dantesche a pacifici e insigni romanzieri… Faccio grande stima delle qualità critiche di Alberto Moravia, ma non vedo niente di significativo nel fatto che a Moravia, e tanto meno alla coppia Moravia-Pasolini, che sarebbe come a dire Cucelli-Del Bello, devo presumere, o altra coppia mitica, il pezzo di Buonconte – cioè Purg. V 85-129, dove si finge che il capoparte ghibellino Bonconte da Montefeltro, morto in armi nello scontro di Campaldino alla testa delle schiere aretine contro Firenze guelfa, riviva i suoi supremi e misteriori istanti, che il poeta immagina anche di supremo ravvedimento – sembri più bello dell’apparizione di Vanni Fucci in Inf. XXIV, o dell’incontro del protagoni ­sta, asceso ai cieli, con Carlo Martello (Par. VIII), o della svelta conversazione, propria di vecchi amici che ritrovan ­dosi percorrono un tratto di strada in comune, del protago ­nista medesimo con Forese Donati (Purg. XXIII-XXIV) o dello sguardo rivolto al globo dai Gemelli (Par. XXII), del molesto supplizio di Giasone (Inf. XVIII), del battibecco con Bocca (Inf. XXXII), della ríªverie di Pier da Medicina (Inf. XXVIII), del trapasso di San Francesco (Par. XI) ecc. ecc. Piuttosto, persuaso che niente è più significativo della pura constatazione delle cose, non posso fare a meno di osservare che il citato scorcio di Purg. V si accentra intor ­no a una conversione in articulo mortis, a un ritorno finale alle fonti schiette della fede (« nel nome di Maria »). E visto che siamo in tema di sorprendenti coincidenze, e di dantismo moraviano, stupisce che nello squarcio aperto da Pasolini, sia pure incidentalmente, sulla fortuna dantesca negli anni scorsi non figuri la citazione di quel luogo della Disubbidienza di Moravia dove è trascritta più di una ter ­zina della Commedia. Se non sbaglio, La disubbidienza è la sola opera moraviana che offra un esplicito richiamo al poema di Dante. Il richiamo si riferisce proprio al citato scorcio di Purg. V; ma qui bisognerà ammirare, lasciando che parli egli stesso, la consumata perizia tecnica del romanziere, il quale incorpora nella sua narrazione un episodio suggerito dalle tante letture di brani danteschi d’obbligo nelle nostre classi liceali. La citazione ha poi senso nel pro ­cesso di oggettivazione psicologica di un adolescente, Luca, ammalato di pensieri di morte, fisso a una sua infantile idea di suicidio e vittima intimamente ribelle di insopportabili « conforti » borghesi.

Siamo tra i banchi di una prima, o di una seconda liceo, in una di quelle ferme, interminabili mattinate di scuola quando la pioggia riga i vetri, e un frusciare di carte è un avvenimento. È occorso un incidente, in aula, tra il profes ­sore in cattedra e il giovane protagonista, puntigliosamente incline a disobbedire. Invitato alla lettura di un passo dantesco, il ragazzo si avvicina malvolentieri alla cattedra. Il professore

“si voltò verso Luca e disse brevemente:   « Legga a partire dal verso 85 del canto V ». Luca abbassò gli occhi sul libro e incominciò:

« Poi disse un altro:     ” Deh, se quel disio

« Si compia che ti tragga all’alto monte

« Con buona pietate aiuta il mio.

« Io fui da Montefeltro, io son Buonconte…”. »

Luca era sempre stato un ottimo lettore (…). Intanto, però, la sua mente, come se fosse stata dotata di un senso nuovo di ubi ­quità, gli saltava, per così dire, fuori dalla testa e andava in fondo all’aula, dove, lungo la parete, si allineavano i cappotti e i cappelli; e di laggiù lo guardava. Ma nello stesso tempo gli pareva di leggere con vigore;   seguendo     il senso delle parole, il quale, stranamente, si accordava molto bene con il suo sentimento. Ricordava tutte le volte che aveva vagheggiato e desiderato una morte dispersa, sconosciuta, solitaria, oscura. E alle terzine:

« Dove il vocabol suo   diventa vano,

« Arriva’io, forato nella gola

« Fuggendo a piede e   sanguinando il piano.

« Quivi perdei la vista, e la parola

« Nel nome di Maria finii; e quivi

« Caddi, e rimase la mia carne sola »

un sentimento improvviso di oscura e contorta pietà gli strinse la gola. Era la pietà verso se stesso che l’aveva commosso la prima volta quando aveva pensato di essere stato ucciso e sepolto. (…) Continuò a leggere con voce meno ferma, ma profonda e commos ­sa. Il senso del gioco persisteva come un desiderio di impuntarsi e disubbidire; ma ora si mescolava singolarmente con quel senti ­mento acre e stupefatto di pietà. Lesse ancora alcune strofe e poi si domandò se doveva continuare a leggere, ben sapendo che porsi questa domanda voleva dire sospendere la lettura. E, infatti, al verso: « Indi la valle come il dì fu spento… » si fermò.

Ci fu un momento di silenzio. «Ebbene? » domandò il professore. Nell’aula si era fatto il mutismo proprio all’attesa di qualche fatto insolito. Tutti guardavano lui e il professore. Ma Luca non vedeva e non sentiva più nulla. Pensava di essere Buonconte, steso morto alla confluenza dei due fiumi. Gli pareva di vedere le nubi gravide di pioggia, sospinte dai soffi di un vento gelato, scender giù in tacite, grige folate, verso il luogo dove giaceva, dalla cima invisibile della montagna, e avvolgere il suo corpo nel silenzio e nella nebbia. Poi cominciava a piovere sopra di lui e intorno a lui, per entro la nebbia; e la pioggia crivellava la terra fradicia, si stendeva, ribollendo e turbinando, in un lago d’acqua torbida e riottosa il quale, a sua volta, si ricongiungeva al fiotto del fiume in piena, si gonfiava, sollevava il suo corpo semisommerso, lo smuoveva. E, continuando a piovere fitto, egli scivolava giù, di acqua in acqua, supino, le braccia in croce. Provò all’improvviso un senso acuto di dolore; e udendo pronunciare il proprio nome, levò gli occhi:     allora due lacrime gli scivolarono lungo le guance.

Il professore lo guardava con dispettoso stupore: « Ma si pii sapere che cosa le sta accadendo? Vuoi leggere o non vuoi leggere? ».

Così era chiaro, pensò Luca, egli doveva essere scolaro fino alla fine; anche se desiderava morire. (…) La commozione persisteva, le lagrime si erano fermate a metà delle guance e amaramente lo solleticavano. “Leggerò fino alla fine l’episodio di Buonconte” pensò Luca, “perché è il mio episodio… poi mi fermerò”. Radunò le forze e con voce resa più forte e più chiara, dall’intima certezza di de ­scrivere non la morte del personaggio dantesco bensì la propria, riprese a leggere.”

In questo interno di vita liceale, a mio parere, felice i proprio la scelta del passo sul quale il ragazzo verrà inter ­rogato: fatto d’arte proverbiale, i vv. 85-129 di Purg. V presentano una superficie oggettiva, inattaccabile da qualsiasi sentimento crepuscolare. E tuttavia, altrettanto oggettivamente, il brano include franchi elementi di mistero, pa ­thos, leggenda: la sparizione del cadavere, la tempesta im ­provvisa, la corsa disperata e solitaria, la piaga sanguinan ­te, la pietà di Maria, la fosca, soprannaturale eccezionalità dello scenario naturale in cui si disegna la piccola « passione » di Bonconte. La materia del racconto include insom ­ma aspetti che possono prestarsi a un’equivoca, ma patetica « proiezione ». Evidentemente, se il piccolo Luca si ritrovasse tra le mani un testo esplicitamente parlante al cuore, immediatamente conciliante i suoi angosciosi sentimenti di adolescente; le sue lacrime e la curiosità dei compagni, il tumulto dei vaghi affetti urtanti contro il muro adulto e impassibile della « vita », tutta la bella scena moraviana si dissolverebbe nel grottesco o nel lacrimevole. Mentre con la sua lontananza, con la sua impersonalità accresciuta dalla natura   scolastica   dell’esercitazione,   il   « freddo »   correlativo dantesco giova a sua volta all’oggettìvità moraviana: « pensava di essere Buonconte », in altre parole, è sentimento abbastanza assurdo e irreale per essere, in quel punto, vivamente credibile. Inoltre, è sufficiente uno sguardo sulle terzine dantesche che nel contesto citato si riproducono, ovviamente, nella « lezione » moraviana, per accorgersi che se ne tiene ben chiara un’implicita « traduzione » nel senso di un indeterminato intenerimento, gonfio di pianto; si ha l’impressione di leggere non i versi reali della Commedia, ma, come avveniva a quel   personaggio di Borges, mi pare, che ricopiando pari pari   il Don Quijote si ritrovava poi di fronte a un’opera tutta diversa, quelli scritti o meglio riscritti da Luca, il quale può così tranquillamente identifìcarsi riversando su tutt’altro contesto l’onda del suo vittimismo, la piena – è davvero il caso di fruire di questa metafora – del suo puerile e doloroso estetismo:     compiacenza « estetica », complicità narcisistica con la propria anima che tutti abbiamo provato, un giorno, sfogando i singhiozzi sul cuscino e sognandoci morti. Perfino la formula «Io fui… io son », con la quale i   comparenti nella Commedia spesso declinano le loro generalità, e in genere tutto il preciso vocabolario dantesco (van; fuggendo… sanguinando; perdei; finii; caddi) acquistano nella « versione » una risonanza speciale, si coprono di una vernice patetica e impertinente. È questo un bell’esempio della finezza d’arte di Moravia, tante volte giudicato narratore robusto ma som ­mario: la pura lettura del suo protagonista ci offre un muto, splendido equivalente di quel tipo di commento « estetico » in voga qualche tempo fa, in pieno Novecento, perfino in ottime edizioni della Commedia. Non so se è troppo p stare alle sue intenzioni, ma è certo che Moravia riesce cogliere con precisione, in questo luogo, il generico gusto della borghesia italiana nei confronti della « poesia » di Dante: gusto antologico, si sa, tra il passionale e il liricheggiante, che poi non va mai oltre la soglia del citato Bonconte e della Pia, dopo i pascoli d’obbligo di Inf. V e Inf. XXXIII. Sarebbe dunque assai curioso, e certamente da sconsigliare, il tentativo di sublimare in sede critica i palpi ­tanti trasporti del personaggio moraviano, concentrando simbolicamente in qualche episodio del Purgatorio una co ­stante e inconscia volontà poetica dantesca in senso roman ­tico. Eventuale ipotesi critica da catalogarsi come gratuita variante crociana, salvo che dalle conclusioni metodiche del Croce si differenzierebbe per vistosa aberrazione. A tacere che la volontà poetica di Dante, ovviamente, era ben con ­scia, si assisterebbe con tale ipotesi a nuovi tentativi di ri ­duzione della personalità dantesca a misure romantiche; il crocianesimo si riafferma attraverso la tenace tendenza a « modernizzare » Dante e a cercare nella Commedia, a tutti i costi, quello che nella Commedia non c’è: l’intimismo lirico, la complicità estetica con se stessi, il mito romantico, vittimistico, sfociato poi nelle poetiche del « fanciullo », del poeta che si oppone alla realtà in nome della poesia.

Vorrei chiudere questa polemica in termini più congeniali alla mia natura – ora che mi sembrano decifrabili, finalmen ­te, le ragioni della « cattiveria » pasoliniana. Nella mia nota era implicitamente messa in evidenza la totale carenza di estetismo nel poema di Dante. Ovvietà dalla quale discende un doppio, rilevante ordine di fatti:     in primo luogo, il linguaggio della Commedia arriva alle cose attraverso la percezione più diretta, e tuttavia l’oggettualità della creazione è conquistata attraverso proverbiali, iperbolici procedimenti mimetici, ben armonizzanti col talento di chi accolse nel proprio inferno falsari più artisti che peccatori. Caso quasi unico, però: lo stile al servizio della lingua, non viceversa

Niente estetismo, dunque, e niente manierismo, niente « pastiche »:   il più formidabile « pasticheur » che sia mai esistito, guarda caso, non lo era. In secondo luogo, proprio il poeta che ha espresso nei termini più lati, anche qui iperbolici, la sua opposizione alla realtà, è poi il poeta che meno di ogni altro ha condotto la sua protesta in nome della poesia sentita come realtà « distinta »,     come « altro », come « mistero » e insondabile « fatto del cuore ». È psicologia creativa, questa, di tipo romantico; e risalendo addietro fino alle determinanti, simboliche persone prime dello spirito poetico europeo â— che in eterno verranno alli duo cozzi – ci imbattiamo per questo cammino non nel profilo di Dante, ma in quello di Petrarca. È rilievo da manuale, ma qualche volta sfogliarsi qualche manuale non guasta mica, ce ne sono di ottimi. Solidali col temperamento linguistico di Dante, non lo siamo per niente in altra sede: radicalmente dissociato dalla realtà, schizzato via, Dante resta per quanto faccia un integrato; mentre qualsiasi psicologia romanti ­ca, nel suo fondamentale tratto di scissione dalla realtà, è apocalittica, « petrarchesca » per definizione, cioè fa teatro di se stessa. Nel toccare alla fine del mio articolo la proverbiale dicotomia Dante-Petrarca, non mi riferivo affatto alla distinzione tecnica, continiana (che, sia detto tra parentesi, ha tutta l’aria di essere valida in eterno), di plurilinguismo (dantesco) e monolinguismo (petrarchesco); ahimè, temo che le mie posizioni siano più vecchie di un decennio… Io non facevo che riadattare in altri termini la nota, antica opposizione desanctisiana tra i « poeti » e gli « artisti » distinzione, a mio parere, forse generica, ma intelligente e storicamente percettiva, che non so perché la coscienza este ­tica novecentesca abbia poi finito col mettere in un cassetto. Viatico della sensibilità moderna, rifugio del poeta maledetto prima, dell’alienato dopo, l’estetismo è la chiave di volta delle mitologie poetiche romantiche. Fa specie rammemorarlo a Pasolini. Quale altra motivazione, quale altro conflitto esibiscono le Ceneri di Gramsci? Dove il conflitto non è già tra Gramsci e la tentazione della fatalità della sessualità, della corruzione. Esiste una tentazione, un male ben altrimenti fascinoso dei ragazzi di vita, i quali non sono fascinosi per niente: il male « estetico », di cui Pasolini è stato insieme testimone e poeta. Dicevo che chiudendo. questa polemica, più forte di ogni dissenso era la voglia di dare a Pier Paolo Pasolini il moltissimo che gli spetta.

(1965)

 


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