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LETTERATURA: I MAESTRI: Moravia come classico

31 Dicembre 2016

di Cesare Garboli
[da: “La stanza separata”, Mondadori, 1969]

È una lieta sorpresa di questa magra invernata letteraria la ristampa nella nuova collezione dei Classici Bompiani dei due primi romanzi di Alberto Moravia, Gli indifferenti (1929), e Le ambizioni sbagliate (1935), riuniti insieme nel primo volume di una nuova e lussuosa serie di Opere com ­plete. A parte il piacere di rileggersi Moravia e di constatare quanto poco sia invecchiata la sensazionale giovinezza di quel ventenne prodigio, che nel frattempo è diventato un classico, la costosa ristampa offre un secondo motivo di interesse: la prefazione di Geno Pampaloni, poco più di trenta pagine di introduzione a tutta l’opera narrativa moraviana. Si vorrebbe definirla un pezzo d’arte, questa inaspet ­tata prefazione: più che un « ritratto » di Moravia, anche se questo è poi l’intento ultimo di Pampaloni, una compo ­sizione a sé stante, la « toccata » dì un solista virtuoso, che si cimenta con un tema e sta tutto assorto alla fuga dei mo ­tivi, tutto concentrato sui suoi strumenti, incurante di scena e di platea. Può essere che alla perfetta riuscita del ritratto pampaloniano abbia contribuito anche la sede tecnica del saggio, a metà tra la ricerca e l’affabile e colloquiale presentazione. Ma quello che colpisce, di queste pagine, con la forza di un bene irrimediabilmente, e, chi sa, forse giusta ­mente perduto, è la pulizia della meditazione critica, il disinteresse intellettuale della ricerca, il gusto della verifica morale dei metodi d’indagine: la risonanza di una tradi ­zione, in una parola, l’accento del passato. Sia come volete, sembra dirci Pampaloni, senza nemmeno troppa voglia di persuadere, ma questa, che voi vedete, la religione delle lettere, questa è la « critica ».

A prima vista, si ha l’impressione che Moravia sia affron ­tato da Pampaloni a tu per tu, frontalmente. Poi, ci si accor ­ge a poco a poco del premeditato effetto ottico. Il critico ingaggia col suo autore, crome se si trattasse di un avver ­sario, un duello a distanza, spiandolo nei punti indifesi, variando di volta in volta gli appostamenti storici, ideolo ­gici, e lasciando che ai lunghi inseguimenti si avvicendino improvvise, impazienti zuffe di idee. Spesso, duettando con Moravia, Pampaloni canta a sua volta, o sottintende ipotesi che vanno oltre la loro immediata verbalizzazione. Eccitato dalla fantasia dello scrittore, non può fare a meno di pre ­stargli un ordine di pensieri che gli sonnecchiano in corpo, come a proposito dell’ultimo Moravia: « L’uomo moderno è uno strumento sempre più perfetto di indagine; ma l’og ­getto di tanta dovizia di ricerca è, per definizione, l’inco ­noscibile. La crisi, questa è l’intuizione del “terzo” Moravia, è innanzi tutto crisi del male. La grande prigione non è più il vizio, la colpa, ma la tautologia, l’inerzia della dialettica morale. L’utopia non è più la bontà, o la giustizia, ma l’interpretazione ».

È questo un bell’esempio del punto « caldo » nel quale un critico si trasforma in saggista. E a mio parere, anche un esempio di quanto un lettore possa inventare quello che uno scrittore è, citando se stesso e centrando con precisione il bersaglio altrui. Nello spazio di poche battute, una raffi ­ca di luce investe la personalità moraviana nel suo arco. Superiore capacità di immedesimazione, eterna virtù mime ­tica del « critico »? Non ha poi troppa importanza che attraverso il tracciato pampaloniano ci si trovi tra le mani, alla fine, un Moravia perfettamente ridipinto, messo insieme musivamente con elementi tutti probabili. Si tratta di un Moravia vero? di un Moravia finto? Ai veri critici, Pampaloni lo sa benissimo, non piace la verità, ma il mistero.

C’è piuttosto da segnalare il singolare manierismo, non esente da vezzi arcaizzanti, con il quale Pampaloni ha co ­struito la sua prefazione. A Pampaloni interessava ambien ­tare il Moravia artista, riguadagnandolo al grande realismo dei classici e sottraendolo, sia pure in parte, ai parametri del Novecento. Ma nello stesso tempo gli premeva qual ­che cosa di più, cioè attrarre lo scrittore verso il polo di una problematica che mentre sembra appartenere stretta ­mente a Moravia, in realtà è una problematica tout court, insomma la « problematica della verità ». In una luce ap ­pena fuori del tempo, simili a spiriti magni raccolti in un vivido cerchio assediato da tenebre, il « critico » e lo « scrit ­tore », diverse incarnazioni dello spirito, ci vengono incon ­tro e colloquiano di noi, della vita, della storia, della socie ­tà, del futuro, con gesti ampi e solenni. Facce di una stessa medaglia, personaggi di uno stesso copione, figure di un gioco che trascende noi e loro. Ecco la ragione per la quale Pampaloni manierizza se stesso e intanto lascia volentieri Moravia al suo mistero. Mentre il critico fa mostra di rial ­lacciarsi a modelli di scuola psicologica (Sainte-Beuve) e idealistica (De Sanctis), appena corretti dal suo Pancrazi, egli ci nasconde invece la sua vera, religiosa ascendenza.

Come tutti i critici di formazione idealistica, Pampaloni mette in evidenza, di Moravia, in primo luogo un aspetto dialettico. « Coesistono in Moravia due moralismi, due flus ­si di tensione nel giudizio sulla realtà. Il primo è un giudi ­zio, e un’acuta volontà di giudizio, sulla società. Il secondo è un giudizio, e una così fatale conoscenza del male che è quasi sospensione del giudizio, sull’uomo. Il primo moralismo è di carattere storico, e si appunta contro la società bor ­ghese decadente. Ecco allora lo scrittore battere contro i ta ­bù, le ipocrisie, la corruzione intellettuale e morale della società… L’altro moralismo si apparenta al primo perché sembra avere l’identico bersaglio, che è l’uomo contempora ­neo italiano, figlio di codesta società borghese invecchiata. Ma trascorre di colpo alla corruzione dei sentimenti, alle stigmate nere del personaggio uomo. Qui sono in primo pia ­no gli antichi vizi, l’avarizia, la libidine, la vanità, la frode, che costituiscono l’oggetto della psicologia morale. Il poeta di questo secondo moralismo è il narratore realista, che lavo ­ra su una materia antica quanto il mondo. A lui appartiene quella vena “religiosa”, cupa, senza speranza, che il Moravia si riconosce e che per molti è difficile da ritrovare. » Personalmente avrei messo i due modi d’essere moraviani, più che non abbia fatto Pampaloni, in forte, irrisolvibile opposizione e conflitto. Per essere autentico, dialetticamen ­te complementare, il Moravia ribelle alla società borghese, contestatore e anticonformista, esigerebbe a contrasto una visione in progresso della storia e dell’uomo, un’idea « sartriana », per così dire, della vita, che il Moravia nero e giansenista non possiede. Il mondo, per Moravia, è quello che è. Esiste tuttavia una dialettica tra le opposizioni moraviane, ma esiste soltanto in riferimento alla vocazione tecnica dello scrivere, ed è questo un punto da sottolineare due volte in rosso. Essere scrittore, per Moravia, è il solo modo di tollerare in se stesso una convivenza schiacciante di opposti, poiché gli opposti non appartengono a lui, ma alla struttura della realtà che non è divenire ma ritmo di distruzione. È come dire che Moravia è un grande scrittore, e lo è. Un grande scrittore che « vede » la vita e la rifiuta in blocco, che c’è e non c’è, che è sempre dentro e sempre fuori. È anche come dire che Moravia coincide con la fa ­talità del suo pseudonimo. La vita di Moravia, dopo Gli indifferenti, non è stata che la funzione di scrivere. È natu ­rale che questo scrittore senta oggi come problema essen ­ziale, da cui non si può uscire, la tautologia. Moravia vive solo quando si esprime come « scrittore ». Quello che an ­nienterebbe chiunque altro, la tensione delle opposizioni, lo fa essere. Non vorrei essere irriverente, ma la definizione più pertinente di Moravia è quella di uno schizofrenico che funziona perfettamente.

Esempi della radicalità delle opposizioni moraviane? È facile indicarli. Moravia è scrittore tragico, e nello stesso tempo nessuno come lui percepisce la falsità dei fatti, la teatralità delle azioni (la sua vocazione tragica, di tipo amle ­tico, si ritorce contro se stessa). Moravia sa pensare, possie ­de il dono dell’ingegneria mentale, ma si annoia a connettere idee, si angoscia a concatenare i pensieri, come chi ritiene che non vale la pena di costruire case, quando la vita esige la loro demolizione. Terzo esempio: quando uscirono Gli indifferenti, Moravia si ribellava, si sa, al fascismo, alla bor ­ghesia, alla « realtà ». Ma nello stesso tempo, rifiutava an ­che la contropartita della « poesia », quello che era a por ­tata di mano: la poesia come figura del Bene, come sguardo supremo e abbracciante, come visione telescopica (diceva Proust) della vita. La poesia, in una parola, come somma di valori « romantici ». Già allora, fin da quel libro pieno di pianto, Moravia imparava a asciugarsi le lacrime. Non ha mai parlato, questo scrittore, in nome dell’identità della Vita e della Poesia. L’aridità che gli è stata rimproverata era istintiva diffidenza verso valori astratti dal « male », dal ­la corrotta ma vitale matrice delle cose. Più che della poe ­sia, Moravia si innamorava, fin dagli Indifferenti, della realtà. La poesia, il vero « altro », è qui, per Moravia. Sia detto una volta per tutte, è stata questa la sua grandezza, poiché c’è voluto dell’eroismo, credo, a percorrere fino in fondo questa strada anti-decadente, stretta e difficile. Era necessaria quella capacità di « solitudine continuamente rin ­negata », che Pampaloni ha riconosciuto, in un passante ri ­tratto dal vero, in una specie di mobile istantanea fisica incorporata nel diverso contesto della sua introduzione, sul volto « irrequieto, insieme asciutto e apprensivo » dello scrittore.

(1967)

 

 


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