LETTERATURA: I MAESTRI: Il segno27 Aprile 2011 di Roberto Ridolfi Ho rintracciato vari articoli di questo splendido scrittore, noto per i suoi studi su Machiavelli. La sua scrittura mi ha sempre affascinato. Pubblicherò i suoi articoli più avanti nel tempo – ne ho, suoi e di altri, più di trecento già recuperati e da pubblicare. Più di trecento sono stati invece già pubblicati -, ma l’articolo di oggi ben si presta al periodo che stiamo attraversando e quindi ho deciso di anticiparlo.
Erano pochi giorni dopo la Pasqua. Quella mattina Simone, servo del pontefice Caifa, saliva di buon’ora a Getsema ni con un barile vuoto sulle spalle, che doveva portare al frantoio. Era quasi arrivato quando, in mezzo all’orto, lo prese una grande stanchezza. Dalla notte che avevano portato in casa del suo padro ne Gesù di Nazareth, non si sentiva più lui. Simone non era davvero un uomo facino roso. Ma quella notte, in quel tumulto atroce, dapprima per non parere da meno degli al tri agli occhi del principale e dei suoi ministri, poi traspor tato dalla furia che sempre si propaga nel ribollir di una turba briaca di violenza, e l’uno imbestia l’altro, quasi senza accorgersene s’era tro vato tra quelli che infierirono contro Gesù. Il giorno dopo, verso l’ora nona, era stato in un luogo detto Calvario dove lo avevano crocifìsso, appena a tempo per vederlo morire; aveva assistito ai prodigi che accompagnarono la sua mor te, udito con le sue orecchie le parole del centurione romano, il quale non era certo una femminuccia: « Veramen te questo era figlio di Dio ». E ora in città circolavano strane voci. Si diceva che il sepolcro dove lo avevano riposto fosse stato trovato vuo to: i più credevano il suo cor po essere stato trafugato dai discepoli, non si sapeva co me, senza che i soldati di guar dia se ne avvedessero; altri invece affermavano, adducen- done prove e testimonianze, Cristo essere risorto dai morti. Simone scosse il capo tre o quattro volte, come per scrollarne questi pensieri: fe ce qualche altro passo, a fa tica: le gambe non lo porta vano. Scherzi della primavera, pensò. A un tratto, sentì die tro a sé una voce che lo chia mava: â— Simone, Simone â—. Sobbalzò impaurito, perché entrando nell’orto s’era guar dato intorno e non aveva vi sto nessuno: il barile gli sfug gì, cadde sul sodo della viot tola risonando come un tam buro, rotolò qualche poco per Il pendio. Accanto a lui era un uomo vestito di bianco; sulla sua ve ste e sul suo volto, quasi tra sparente, il sole mattutino pa reva splendere più che sopra ogni altra cosa all’intorno. Ri petè: â— Simone â—; né Simo ne mai aveva udito una voce così dolce, simile a una mu sica che venisse di lontano. Balbettò: â— Signore, come fai conoscere il mio nome se, se io non ti conosco? Mi conosci, invece: e io ti conobbi quella notte, in ca sa del tuo padrone. Ero ben dato e mi schiaffeggiavano, di cendo: « Profetizza, indovino chi t’ha battuto ». Tu, fosti il terzo a percuotermi. Rispose Simone: â— In che modo potesti vedermi, avendo gli occhi bendati? Nel modo in cui posso conoscere il tuo nome senza averti mai conosciuto, se non quando mi battesti, da sotto le bende che mi coprivano. Simone fu preso da un tre mito in tutte le membra; le ginocchia gli si piegarono e cadde con la faccia a terra: â— Signore, abbi pietà di me! Signore, perdonami. – Simone, Simone, per que sto il Figlio di Dio s’è fatto figlio dell’uomo; per questo s’è lasciato battere da te; per que sto s’è fatto schernire, sputac chiare, straziare e uccidere da chi, come te, non sapeva quel che faceva; per questo è risuscitato: per perdonare, non condannare; non per punire, ma per salvare. – Salvami dunque, Signore; insegnami, che ne ho più bisogno degli altri, cosa l’uo mo può fare per trovare la pace. – Credere. Ma non già co me te, che hai creduto perché ti ho detto: « Fosti il terzo a percuotermi »; e ormai già discredi. Quando risposi al tuo padrone, che mi aveva doman dato se ero figlio di Dio, «L’hai detto », tu non credesti: crede sti, tanta è l’umana miseria, quando ti chiamai per nome: poi, tornasti subito a dubita re. E ora che mi vedi risusci tato dopo avermi veduto mo rire, ora che odi la mia voce, non credi alla mia risurrezio ne: addirittura non credi nep pure ai tuoi orecchi, neppure ai tuoi occhi. – Signore, ora m’accorgo veramente che tutto conosci. E proprio perché conosci quel lo che mi bisogna, fa’, te ne supplico, un segno: mostrami che i miei occhi non vedono uno spirito o una visione im maginaria, ma che sei qui in carne e ossa; che io non va neggio, ma sono in me; che non dormo né sogno, ma sono desto. – Segni, segni; non sapete chiedere altro. Veduto un mi racolo, chiedete altri segni e prodigi per credere nel mira colo. In verità, in verità ti di co: « Beati coloro che non ve dranno miracoli e crederan no ». Ma tu no, chiedi segni: ecco i segni. Mostrò le piaghe delle mani dalla parte del dorso, mise l’indice della destra nella piaga della sinistra, poi l’indice della sinistra nella piaga della destra; infine levò le braccia mostrando le palme. Attraverso i fori dei chiodi, a Simone, trasognato com’era, parve di veder trapassare i raggi del sole. Poi gli sovven ne che il sole era invece die tro le sue spalle, in faccia al Risorto, che tutto ne risplen deva. Cadde di nuovo col viso a terra. Perse la conoscenza.
*
Quando si riebbe, Simone sentì per prima cosa l’odore dell’erba dove giaceva, il buon odor della terra. Ancora fra stornato, si levò un poco, pun tellandosi con un gomito; se dette sulla proda della viotto la. Nell’orto non c’era nessuno, né ormai c’era altro che ri splendesse: vide soltanto i luc cicori argentei degli ulivi sot to il sole, nella chiarità mattu tina. Eppure il Risorto era stato lì, lo aveva veduto, gli aveva parlato, ne aveva udito la vo ce: n’era certo. Volle guarda re, ma nell’erba i suoi piedi non avevano lasciato nessuna traccia: non si vedeva uno ste lo piegato, un fiore pesticciato. Eppure quei piedi li aveva visti coi suoi occhi smuovere, lì, quel ciottolo bianco. Ma in lui l’altalena della fede e del dubbio continuava: si sentiva tutto intorpidito e intontito, appunto come chi si desta dal sonno; si ricordò della stan chezza provata entrando nel l’orto: forse aveva dormito davvero e il suo non era sta to che un sogno. Eppure, no: nel silenzio, gli parve di riudire quella musica lontana: â— Simone, tu sei sta to il terzo a percuotermi â—. Si guardò di nuovo intorno. Ma intorno non c’era proprio nes suno. Si prostrò ancora sull’er ba e ancora implorò, con una voce dove si mescolavano di sperazione e speranza: â— Si gnore, un segno! â— Nulla. Si lenzio grande nell’orto. Ripeté, angosciato: â— Signore, un se gno: abbi pietà di me â—. Nulla, nulla: non un alito di ven to, non un muover di foglia, non un battito d’ala. La natu ra pareva anch’essa attonita, in quello stupefatto silenzio. Si rialzò sgomento, mosse qualche passo incerto, fece per riprendere il suo barile; ma dovette far forza, più forza ancora, per sollevarlo un po co soltanto: come se fosse sta to pieno. Lo posò, sbalordito, lo batté con le nocche, levò il tappo, mise un dito nel coc chiume: lo ritirò che ne colava un filo d’oro liquido. Men tre ne sgocciolavano gocciole sempre più rade, si mise il di to in bocca: sentì sulla lin gua il gusto asprigno dell’olio nuovo. Letto 1593 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||