LETTERATURA: I MAESTRI: In casa di Lucia24 Luglio 2010 di Cesare Angelini Tra una tastiera e l’altra toccata col sapientissimo gar Âbo di chi possedeva la regola doro dello scrivere italiano, il compianto Antonio Baldini trovava modo di dare una mano ai lettori del Manzoni nell’intendere questo o quel personaggio, questo o quell’e Âpisodio dei Promessi sposi. Notando, per esempio, che tut Âta la base del racconto nel Âl’epilogo si alleggerisce e «dal romanzo storico si entra nella novella borghigiana ». Arriva Âto a questa conclusione che è la vera, per poco non gli scap Âpava di dire come l’avrebbe poi messa Marino Moretti cioè uno dei nostri narratori più « borghigiani » e più no Âbilmente manzoniani. In verità , scomparso tutto l’illustre e il solenne della sto Âria (la fame, la guerra, la peste), scomparsi o tiratisi in disparte i potenti (don Rodrigo, la Monaca, l’Innominato, il Cardinale) nell’epilogo si tor Âna al piccolo mondo del vil Âlaggio, in parrocchia, tra gli umili: don Abbondio, Agne Âse, Ambrogio il sagrestano, Tonio, l’amico e, naturalmen Âte, Renzo e Lucia. Qualcuno manca, a cui abbiamo voluto bene: padre Cristoforo che ha finito i suoi giorni al lazzeretto in servizio del prossi Âmo; Perpetua, anche lei por Âtata via dal contagio; e pa Ârenti, amici, famiglie intere; e, per tutto, è quel silenzio attonito e un po’ spaventato di un paese visitato dalla peste. Baldini avrebbe anche po Âtuto finire il suo pensiero, e dire che nell’epilogo il rac Âconto è tornato a essere quel Âlo che era in principio, nei primi otto capitoli, quando nessuno dei nostri personaggi (lo diremo con la bocca di Lucia) avrebbe spinto al di là dei suoi monti neppure un desiderio fuggitivo, se una forza perversa non li avesse sbalzati lontano, chi a Mon Âza, chi a Milano: e fu come un perdersi nel mondo. Ma Milano ora è lontana, e i suoi tumulti e le sue oste Ârie traditore e i suoi birri. E anche il lazzeretto è lonta Âno; ne rimane il ricordo fatto quasi soave dalla presenza della «buona vedova », l’agia Âta mercantessa che tanta buo Âna compagnia ha fatto a Lu Âcia in quel soggiorno di do Âlore, e ora è qui anche lei a compire la festa. * Dunque. « Una sera, Agne Âse sente fermarsi un legno al Âl’uscio. â— E’ lei, di certo! â— Era proprio lei, con la buona vedova. La mattina seguente, di buon’ora, capita Renzo che non sa nulla, e vien solamen Âte per isfogarsi un po’ con Agnese su quel gran tardare di Lucia. Gli atti che fece e le cose che disse al trovar Âsela davanti… ». Bisognava proprio arrivare al trentottesimo e ultimo capitolo, per poter entrare nella casetta (dalla quale anche noi, come Renzo, non sapevamo stare lontano) con l’animo final Âmente sollevato e sereno. E proprio lì, cominciano a fiori Âre i più bei discorsi, intonati da loro nel colmo della feli Âcità . « Vi saluto: come state? â— disse a occhi bassi e senza scomporsi. â— Sto bene quan Âdo vi vedo, – rispose Renzo con una frase vecchia ma che avrebbe inventata lui in quel momento ». Roberto Longhi fu, forse, il primo a domandarsi in un numero della Voce del ’13 o del ’14, che cosa c’è di incan Âtato in queste battute così modeste, in queste parole così dimesse e logore come mone Âte fatte più lucide dall’uso, e dove par raggiunta parte del Âla bellezza suprema. Abituato fin da allora a guardare gli ingenui affreschi del Trecen Âto, gli dev’essere parso di tro Âvare in quest’incontro qualco Âsa di somigliante a quell’an Âtico ingenuo incanto che sfug Âge a non stare attenti. Poi, i critici ci hanno trovato tutto quello che sappiamo; un pre Âzioso canone d’arte, il segreto del vivo della scrittura man Âzoniana e il suo incanto pe Ârenne. L’incanto che dura su tutto il capitolo, sui discorsi di tut Âti: frasi vecchie, parole logo Âre, eppure tutte inventate, nuove, perché chi le dice le colma della sua passione. I nostri personaggi sono appena tornati dalla tribolazione, le grandi prove dell’esilio e del Âla peste; e in tutti è il senso della vita ritrovata, la ripresa dei disegni dell’avvenire che parevano distrutti, il sollievo di avercela fatta. Sicché me Âstizia e letizia si temperano intimamente e fanno nuova ogni cosa. Ciascuno ha un suo discorso da fare, secondo il suo naturale, su misura pro Âprio del parlare, del chiac Âchierare casalingo, col cuore in mano. A cominciare dalla buona vedova, che si è inse Ârita così bene nella compa Âgnia, ed è proprio lei che ci aiuta a ritrovare il domestico e il familiare dei luoghi. Sen Âtitela: « Ora, signore sposo, menateci un po’ a spasso noi altre due, intanto che Agnese è in faccende, che a Lucia farò io da mamma; e ho pro Âprio voglia di vedere un po’ meglio queste montagne, questo lago, di cui ho sentito tanto parlare e il poco che n’ho visto mi pare una gran bella cosa ». Don Abbondio (è vile? è crudele? ma è soprattutto nuo Âvo, è tutto nuovo) rassicurato che don Rodrigo è proprio morto, è uscito dall’incubo che condizionava la sua vita: « Sapete che l’è una gran co Âsa! un gran respiro per que Âsto povero paese! ». Ha ritro Âvato il sentimento della sua vocazione; è tornato parroco, e i parrocchiani, vivi e morti, tornano a essere tutti i suoi figliuoli. À dare più spazio e respiro alla sua immaginazione, sono arrivati anche i saluti del car Âdinale e glieli porta il signor marchese in persona, il suc Âcessore di don Rodrigo; scio Âgliendo in lui una parlantina che nessuna cosa è più ame Âna. Parli delle nozze con gli sposi («Sicché, se volete… og Âgi è giovedì… domenica vi dico in chiesa, e poi ho la consolazione di sposarvi io »); scherzi con la buona vedova («E lei, signora, non hanno cominciato a ronzarle intorno dei mosconi? »); ricordi la po Âvera Perpetua («Ha proprio fatto uno sproposito Perpe Âtua a morire ora, che questo era il momento che trovava l’avventore anche lei »), o si faccia consigliere presso il marchese per l’acquisto delle due casette degli sposi, visto che dopo le nozze andranno a metter su casa altrove; don Abbondio è spassoso, patetico, ha perfino fantasia; e quel suo saltare di palo in frasca è solo il segno della sua gioia traboccante. («Intanto, lui non c’è più, e noi ci siamo ») Anche Renzo e Lucia, la loro vita ora è tutta in quel pensierino delle nozze, che dà a ogni cosa il colore della felicità . « Venne quel bene Âdetto giorno: i due sposi an Âdarono con sicurezza trionfa Âle proprio a quella chiesa, dove proprio per bocca di don Abbondio furono sposi ». E poiché nei Promessi sposi, che contano veramente sono i promessi sposi, il Manzoni vuole che siano loro a trovare il sugo di tutta la storia. Sicché, dopo un lungo dibattito, Renzo e Lucia conclusero in Âsieme che « i guai, vengano per colpa o senza colpa, la fi Âducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una vita mi Âgliore ». Conclusione in cui non è difficile sentire l’eco del Âla sapienza cristiana impara Âta da padre Cristoforo; e ri Âporta la «novella borghigia Âna » al vasto respiro dell’im Âmenso poema. * Ma nell’epilogo, com’è tut Âto lombardo, genuino, anche in fatto di lingua! Di recente, m’è capitato di leggere che « Renzo e Lucia nei Promessi sposi parlano toscano »; e, a prova della loro toscanità , si portava la popolarissima esclamazione di Renzo: « La c’è, la c’è, la Provvidenza! » che sarà anche fiorentina, ma pri Âma è schiettamente e onnina Âmente lombarda: « La gh’è, la gh’è, la Pruvidensa! ». Ci porta a dire che il « fio Ârentinismo » manzoniano, l’ha creato, più che altro, la sug Âgestione d’una frase, la famo Âsa sciacquata dei suoi panni in Arno. Il Manzoni non è an Âdato a Firenze in cerca di lin Âguaggio fiorentino, ma a con Âtrollare se certe voci lombar Âde calate nell’edizione ventisettana avevano o no rispon Âdenza nel vivo uso di lì. Sic Âché, anche dopo Firenze, il fondo lessicale del romanzo, che è poi tutto interiore, è rimasto lombardo e italianissimo. Il toscano p. Pistelli nel suo commento riduce le voci di pura o impura toscanità a una dozzina o poco più. E i pe Âdantissimi Rigutini – Mestica ronzando fra le grandi pagine del romanzo come fastidiosi mosconi, per non so quali idiotismi lombardi o modi po Âpolari un po’ vivi che vi han Âno trovato, suggeriscono al Manzoni una seconda sciac Âquata in Arno… Ci avesse ri Âsparmiata anche la prima! Non avrebbe sollevato tante umilianti osservazioni da par Âte dei grammatici vecchi e nuovi, e avrebbe salvato autentiche vivezze bevute con l’acqua dell’Adda fin dalla puerizia. Letto 2009 volte. | ![]() | ||||||||||
Commento by carlo capone — 25 Luglio 2010 @ 00:30
sono in vacanza e ho dato solo uno sguardo a questo prezioso articolo ( ce n’è così pochi in giro su I promessi Sposi che sarebbe un peccato farlo scappare). Mi riprometto di chiosare al mio ritrono.
saluti
Carlo
Commento by fabio maggi — 27 Luglio 2010 @ 22:18
sito su cesare angelini:
http://digilander.libero.it/angelini/
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 28 Luglio 2010 @ 00:10
Grazie, Fabio. Un bel sito. Complimenti. Qui sono stati pubblicati altri articoli a firma di Cesare Angelini. Li trovi con il motore interno di ricerca.