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LETTERATURA: I MAESTRI: In casa di Lucia

24 Luglio 2010

di Cesare Angelini
[dal “Corriere della Sera2, giovedì 28 agosto 1969]

Tra una tastiera e l’altra toccata col sapientissimo gar ­bo di chi possedeva la regola doro dello scrivere italiano, il compianto Antonio Baldini trovava modo di dare una mano ai lettori del Manzoni nell’intendere questo o quel personaggio, questo o quell’e ­pisodio dei Promessi sposi. Notando, per esempio, che tut ­ta la base del racconto nel ­l’epilogo si alleggerisce e «dal romanzo storico si entra nella novella borghigiana ». Arriva ­to a questa conclusione che è la vera, per poco non gli scap ­pava di dire come l’avrebbe poi messa Marino Moretti cioè uno dei nostri narratori più « borghigiani » e più no ­bilmente manzoniani.

In verità, scomparso tutto l’illustre e il solenne della sto ­ria (la fame, la guerra, la peste), scomparsi o tiratisi in disparte i potenti (don Rodrigo, la Monaca, l’Innominato, il Cardinale) nell’epilogo si tor ­na al piccolo mondo del vil ­laggio, in parrocchia, tra gli umili: don Abbondio, Agne ­se, Ambrogio il sagrestano, Tonio, l’amico e, naturalmen ­te, Renzo e Lucia. Qualcuno manca, a cui abbiamo voluto bene: padre Cristoforo che ha finito i suoi giorni al lazzeretto in servizio del prossi ­mo; Perpetua, anche lei por ­tata via dal contagio; e pa ­renti, amici, famiglie intere; e, per tutto, è quel silenzio attonito e un po’ spaventato di un paese visitato dalla peste.

Baldini avrebbe anche po ­tuto finire il suo pensiero, e dire che nell’epilogo il rac ­conto è tornato a essere quel ­lo che era in principio, nei primi otto capitoli, quando nessuno dei nostri personaggi (lo diremo con la bocca di Lucia) avrebbe spinto al di là dei suoi monti neppure un desiderio fuggitivo, se una forza perversa non li avesse sbalzati lontano, chi a Mon ­za, chi a Milano: e fu come un perdersi nel mondo.

Ma Milano ora è lontana, e i suoi tumulti e le sue oste ­rie traditore e i suoi birri. E anche il lazzeretto è lonta ­no; ne rimane il ricordo fatto quasi soave dalla presenza della «buona vedova », l’agia ­ta mercantessa che tanta buo ­na compagnia ha fatto a Lu ­cia in quel soggiorno di do ­lore, e ora è qui anche lei a compire la festa.

*

Dunque. « Una sera, Agne ­se sente fermarsi un legno al ­l’uscio. â— E’ lei, di certo! â— Era proprio lei, con la buona vedova. La mattina seguente, di buon’ora, capita Renzo che non sa nulla, e vien solamen ­te per isfogarsi un po’ con Agnese su quel gran tardare di Lucia. Gli atti che fece e le cose che disse al trovar ­sela davanti… ». Bisognava proprio arrivare al trentottesimo e ultimo capitolo, per poter entrare nella casetta (dalla quale anche noi, come Renzo, non sapevamo stare lontano) con l’animo final ­mente sollevato e sereno. E proprio lì, cominciano a fiori ­re i più bei discorsi, intonati da loro nel colmo della feli ­cità. « Vi saluto: come state? â— disse a occhi bassi e senza scomporsi. â— Sto bene quan ­do vi vedo, rispose Renzo con una frase vecchia ma che avrebbe inventata lui in quel momento ».

Roberto Longhi fu, forse, il primo a domandarsi in un numero della Voce del ’13 o del ’14, che cosa c’è di incan ­tato in queste battute così modeste, in queste parole così dimesse e logore come mone ­te fatte più lucide dall’uso, e dove par raggiunta parte del ­la bellezza suprema. Abituato fin da allora a guardare gli ingenui affreschi del Trecen ­to, gli dev’essere parso di tro ­vare in quest’incontro qualco ­sa di somigliante a quell’an ­tico ingenuo incanto che sfug ­ge a non stare attenti. Poi, i critici ci hanno trovato tutto quello che sappiamo; un pre ­zioso canone d’arte, il segreto del vivo della scrittura man ­zoniana e il suo incanto pe ­renne.

L’incanto che dura su tutto il capitolo, sui discorsi di tut ­ti: frasi vecchie, parole logo ­re, eppure tutte inventate, nuove, perché chi le dice le colma della sua passione. I nostri personaggi sono appena tornati dalla tribolazione, le grandi prove dell’esilio e del ­la peste; e in tutti è il senso della vita ritrovata, la ripresa dei disegni dell’avvenire che parevano distrutti, il sollievo di avercela fatta. Sicché me ­stizia e letizia si temperano intimamente e fanno nuova ogni cosa. Ciascuno ha un suo discorso da fare, secondo il suo naturale, su misura pro ­prio del parlare, del chiac ­chierare casalingo, col cuore in mano. A cominciare dalla buona vedova, che si è inse ­rita così bene nella compa ­gnia, ed è proprio lei che ci aiuta a ritrovare il domestico e il familiare dei luoghi. Sen ­titela: « Ora, signore sposo, menateci un po’ a spasso noi altre due, intanto che Agnese è in faccende, che a Lucia farò io da mamma; e ho pro ­prio voglia di vedere un po’ meglio queste montagne, questo lago, di cui ho sentito tanto parlare e il poco che n’ho visto mi pare una gran bella cosa ».

Don Abbondio (è vile? è crudele? ma è soprattutto nuo ­vo, è tutto nuovo) rassicurato che don Rodrigo è proprio morto, è uscito dall’incubo che condizionava la sua vita: « Sapete che l’è una gran co ­sa! un gran respiro per que ­sto povero paese! ». Ha ritro ­vato il sentimento della sua vocazione; è tornato parroco, e i parrocchiani, vivi e morti, tornano a essere tutti i suoi figliuoli.

í€ dare più spazio e respiro alla sua immaginazione, sono arrivati anche i saluti del car ­dinale e glieli porta il signor marchese in persona, il suc ­cessore di don Rodrigo; scio ­gliendo in lui una parlantina che nessuna cosa è più ame ­na. Parli delle nozze con gli sposi («Sicché, se volete… og ­gi è giovedì… domenica vi dico in chiesa, e poi ho la consolazione di sposarvi io »); scherzi con la buona vedova («E lei, signora, non hanno cominciato a ronzarle intorno dei mosconi? »); ricordi la po ­vera Perpetua («Ha proprio fatto uno sproposito Perpe ­tua a morire ora, che questo era il momento che trovava l’avventore anche lei »), o si faccia consigliere presso il marchese per l’acquisto delle due casette degli sposi, visto che dopo le nozze andranno a metter su casa altrove; don Abbondio è spassoso, patetico, ha perfino fantasia; e quel suo saltare di palo in frasca è solo il segno della sua gioia traboccante. («Intanto, lui non c’è più, e noi ci siamo »)

Anche Renzo e Lucia, la loro vita ora è tutta in quel pensierino delle nozze, che dà a ogni cosa il colore della felicità. « Venne quel bene ­detto giorno: i due sposi an ­darono con sicurezza trionfa ­le proprio a quella chiesa, dove proprio per bocca di don Abbondio furono sposi ».

E poiché nei Promessi sposi, che contano veramente sono i promessi sposi, il Manzoni vuole che siano loro a trovare il sugo di tutta la storia. Sicché, dopo un lungo dibattito, Renzo e Lucia conclusero in ­sieme che « i guai, vengano per colpa o senza colpa, la fi ­ducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una vita mi ­gliore ». Conclusione in cui non è difficile sentire l’eco del ­la sapienza cristiana impara ­ta da padre Cristoforo; e ri ­porta la «novella borghigia ­na » al vasto respiro dell’im ­menso poema.

*

Ma nell’epilogo, com’è tut ­to lombardo, genuino, anche in fatto di lingua! Di recente, m’è capitato di leggere che « Renzo e Lucia nei Promessi sposi parlano toscano »; e, a prova della loro toscanità, si portava la popolarissima esclamazione di Renzo: « La c’è, la c’è, la Provvidenza! » che sarà anche fiorentina, ma pri ­ma è schiettamente e onnina ­mente lombarda: « La gh’è, la gh’è, la Pruvidensa! ».

Ci porta a dire che il « fio ­rentinismo » manzoniano, l’ha creato, più che altro, la sug ­gestione d’una frase, la famo ­sa sciacquata dei suoi panni in Arno. Il Manzoni non è an ­dato a Firenze in cerca di lin ­guaggio fiorentino, ma a con ­trollare se certe voci lombar ­de calate nell’edizione ventisettana avevano o no rispon ­denza nel vivo uso di lì. Sic ­ché, anche dopo Firenze, il fondo lessicale del romanzo, che è poi tutto interiore, è rimasto lombardo e italianissimo.

Il toscano p. Pistelli nel suo commento riduce le voci di pura o impura toscanità a una dozzina o poco più. E i pe ­dantissimi Rigutini – Mestica ronzando fra le grandi pagine del romanzo come fastidiosi mosconi, per non so quali idiotismi lombardi o modi po ­polari un po’ vivi che vi han ­no trovato, suggeriscono al Manzoni una seconda sciac ­quata in Arno… Ci avesse ri ­sparmiata anche la prima! Non avrebbe sollevato tante umilianti osservazioni da par ­te dei grammatici vecchi e nuovi, e avrebbe salvato autentiche vivezze bevute con l’acqua dell’Adda fin dalla puerizia.


Letto 2009 volte.


3 Comments

  1. Commento by carlo capone — 25 Luglio 2010 @ 00:30

    sono in vacanza e ho dato solo uno sguardo a questo prezioso articolo ( ce n’è così pochi in giro su I promessi Sposi che sarebbe un peccato farlo scappare). Mi riprometto di chiosare al mio ritrono.

    saluti

    Carlo

  2. Commento by fabio maggi — 27 Luglio 2010 @ 22:18

    sito su cesare angelini:

    http://digilander.libero.it/angelini/

  3. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 28 Luglio 2010 @ 00:10

    Grazie, Fabio. Un bel sito. Complimenti. Qui sono stati pubblicati altri articoli a firma di Cesare Angelini. Li trovi con il motore interno di ricerca.

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