LETTERATURA: I MAESTRI: Isaac Singer. New York come Varsavia5 Marzo 2016 di Claudio Gorlier ISAAC BASHEVIS SINGER « Il Messia arriverà presto », dice al termine della Famiglia Moskat uno dei personaggi chiave del romanzo, e, alla domanda sbalordita dell’interlo cutore, replica perentoriamente: « La morte è il Messia. Questa è la verità ». La Famiglia Moskat è del 1950; nell’ul timo, e come al solito imponente, ro manzo â— The Manor â— Singer pervie ne almeno in apparenza a una morale meno tragica e definitiva. Calman Jacoby, l’ebreo polacco che sta al centro del libro e che serve allo scrittore qua le linea di forza, o quale perno attor no a cui ruota il ben noto microcosmo dello stetl, il villaggio ebraico mitte leuropeo, resiste a ogni tentativo di intrusione nel suo mondo economica mente solido grazie alle fortunate spe culazioni condotte per decenni e ideo logicamente compatto perché respinge le infiltrazioni dell’eterodossia o del riformismo: egli si rifugia con sere nità nei « tesori della Torah » senten dosi protetto, poiché Dio (con queste parole si chiude il libro) veglia su di lui. Il contrasto mi sembra soltanto ap parente, e anche se negli ultimi anni Isaac Bashevis Singer ha probabil mente perduto una parte considerevo le della tensione drammatica e dello scatto espressivo caratteristici delle sue opere precedenti, divenendo peri colosamente prolifico e per conseguen za piuttosto corrivo, l’alternativa, non conciliabile o addirittura tragica come nella Famiglia Moskat, rimane più o meno intatta. I libri di Singer riflettono un doppio paradosso, suo e dei suoi personaggi così remoti nel tempo e nello spazio dall’America in cui lo scrittore vive rifiutandone la lingua e molto spesso anche il paesaggio geografico e umano per scrivere in un idioma condannato a morire, se non già morto e da lui evocato. Per me che non leggo lo jiddish e sono portato a scorgerlo nella sua reincarnazione « American-English » degli scrittori ebrei americani, o per lo meno nell’impasto di certi suoi frammenti nel corpo di una lin gua flessibile e accogliente ma comun que straniera, lo sforzo di Singer con ta ovviamente in quanto elemento atti vante e termine di paragone. Senza l’eredità jiddish assunta non archeologicamente, ma ancora in pie no movimento, non esisterebbe oggi nella narrativa americana il cosiddet to « rinascimento ebraico », o forse, se è consentito il bon mot, non esistereb be neppure la narrativa americana (basta pensare ai sottoprodotti ripeti tivi che il tradizionale filone anglosas sone continua a sfornare con irritante monotonia). Ma sino a che punto il fu nambolismo di Singer si regga, e la sua pagina non cominci ad assumere l’inquietante e dubbio sentore delle cose rimaste troppo a lungo in un ar madio, francamente non saprei dire. Certo, The Manor comincia proprio a insospettirmi. Il paradosso personale di Singer si identifica nella sua parte di rievocato re di un passato ormai cancellato, di colui che scrive di un mondo scompar so, come ha osservato Irving Howe, e che lo fa senza alcun abbandono al pa tetico, senza il compiacimento della ricostruzione, ma come se le storie che deve raccontare fossero radicate con tutta la loro urgenza nel presente. Tutto questo, scrive ancora Howe, fa pensare a una sorta di ispirata follia, ma anche a un deliberato e meditatis simo gioco. Singer sarebbe, in altri ter mini, uno splendido burattinaio, un virtuoso che mette in movimento il suo congegno ben sapendo quale tipo di reazioni produrrà, e in che momen to. Il secondo paradosso, ossia l’altro paradosso, quello dei personaggi di Singer, rimanda curiosamente, è stato fatto notare più di una volta, a situa zioni non nuove nella narrativa di lin gua inglese, a Jane Austen o a Henry James. Difatti, Singer si pone dinnan zi a una società o a un gruppo sociale in apparenza omogeneo, stratificato, che consente una messa a fuoco preci sa e delimitata, ma che scrutato nel suo intimo si rivela in preda a uno sfaldamento graduale. Quando, nella Famiglia Moskat, l’esercito nazista giunge in Polonia e il mondo dello stetl viene spezzato via, tanto che i contrasti interni, le dispute ideologi che, i ripicchi, appaiono ai nostri oc chi come ridicoli e sterili bizantinismi; quando, in sostanza, i tempi sono ma turi per la catastrofe, il lettore ricava l’impressione che essa sia il risultato di una scelta indiretta, e che per il finale olocausto i personaggi di Singer abbiano una involontaria quanto fata le vocazione. Del resto, proprio il per sonaggio più irregolare e a suo modo libero, il più svincolato dalle leggi del la tribù, Asa Heschel, il quale sceglie di rimanere per seguire la sorte del suo popolo, è, sul piano pratico, quello che ha mostrato sempre una vocazio ne al fallimento, alla sconfitta, che nel la sua disponibilità ha rifiutato sem pre un approdo sicuro o un ancorag gio stabile. Asa ritorna così al codice di comportamento del suo gruppo sol tanto per condividerne il sacrificio, e per essere distrutto insieme a esse: a lui, appunto, Hertz Yanovar spiega che il Messia è la morte. Nel Manor, – seppure in forma più paradigmatica, il contrasto tra il codi ce del gruppo e la sua violazione, tra l’ortodossia consolatrice di Calman Jacoby e l’inquietudine quasi blasfema del figlio Sasha, esaspera un’antino mia devastatrice: « Il meglio per un ebreo è di stare tra ebrei », dichiara ri solutamente Calman, e se il figlio gli rammenta il peso che i suoi devono portare per espiare la colpa, mentre i gentili ne sembrano immuni, insiste: « Gli ebrei sono figli di Dio, e con il figlio un padre è severo ». « Qualcuno dice che Dio non esiste », ribatte Sa sha. Nella Famiglia Moskat il vecchio Meshulam prefigura l’atteggiamento di Calman quando ammonisce Adele, la figliastra che ha ambizioni intellet tuali e che non nasconde il suo di sprezzo per la cultura ebraica tradizio nale (Adele gli ha spiegato che sta leggendo Swedenborg, « idiozie », per Meshulam, il quale in realtà non ne sa nulla): « Una vita semplice, te lo ripe to, è la cosa migliore. Mai porsi do mande, niente filosofia, niente arrovel larsi il cervello. In Germania c’era un filosofo che filosofò talmente che si mise a brucar l’erba ». La saggezza di Calman e di Meshu lam si accompagna â— particolare di importanza non trascurabile â— alla fortuna pratica; in loro l’adesione alla dottrina tradizionale, la diffidenza per qualsiasi forma di deviazione, a cominciare persino dal chassidismo, con ta in quanto verifica del successo, rivelando un singolare parallelismo con il puritanesimo americano, vale a dire della seconda patria di Singer. Ma â— e qui sta uno dei punti nodali dell’uni verso di Singer â— il codice di compor tamento non significa soltanto la pra tica di una serie di convenzioni sociali trasmesse da generazione a generazio ne, e che proteggono lo stetl da ogni forma di inquinamento, garantendogli una sua particolare e privilegiata per manenza. Esso riflette una visione se non so prannaturale almeno surreale, in cui un realismo soltanto apparente, sul quale si è appuntata l’attenzione di qualche critico troppo sbrigativo, sconfina di continuo nella magìa o nel diabolismo. Se ne trova la verifica nei racconti, giacchi Singer convince in genere assai più nella misura della narrazione breve, ma lo confermano anche i romanzi. La conoscenza delle verità supreme non si ottiene né si persegue infatti con il soccorso di dot trine razionalistiche, gli eretici di Sin ger attingono al chassidismo, a Swedenborg, o più spesso a Spinoza, il filo sofo più caro allo scrittore. Il loro scacco assume in sé un valore esem plare almeno nel senso che essi, come rifiutano la consolazione dei beni ter reni, non si accontentano mai di una verità assoluta o incapace di offrire il fianco alla contestazione. La vita ses suale riflette questa insoddisfazione peraltro positiva e necessaria; l’atto sessuale diviene ovviamente conoscen za, e non stupisce affatto che lo Asa della famiglia Moskat si abbandoni ad amori adulteri. Egli si ribella in tal modo alle impo sizioni del codice di gruppo che impo ne matrimoni combinati in spregio dei sentimenti e della libertà individuale, ma soprattutto deve soddisfare una torbida inclinazione per una vita ses suale abnorme che si definisce comple mentarmente alla sua ansia di cono scenza essa pure al di fuori degli sche mi precostituiti. In questo senso, ben chiara appare la differenza tra l’adul tero Asa nella Famiglia Moskat e il li bertino, pervertito conte Jampolski nel Manor. Per il nobile polacco la dis sipazione costituisce un marchio di impotenza intellettuale, oltre che di pervertimento fisico. La famiglia Moskat, oltre che il ro manzo più riuscito di Singer, rimane anche il tentativo più ambizioso di se guire la storia interna dell’ebraismo polacco dal momento apparente della sua maggiore affermazione, agli inizi del secolo, sino alla sua distruzione, nel corso della seconda guerra mon diale. Vi compare pure, sia pure indi rettamente, l’America lontana, attra verso la « estraniata » giovane Lottie, che tornata in patria a incontrare il vecchio padre misura la distanza aper tasi irrimediabilmente tra di loro. I vecchi ebrei polacchi sono, per una tragica ironia, maturi per il massacro, i tradizionalisti come Meshulam, gli irregolari come Asa, gli inquieti come Abram, a mezza strada tra la dottrina dei padri e il ripensamento. Nel Manor lo scrittore compie appa rentemente un passo indietro, sia sul piano delle idee, sia sul piano delle strutture narrative, proponendo in ef fetti un’area più ristretta nella quale la tragedia della Famiglia Moskat resta latente, quasi in incubazione. Pure, al cuni interrogativi posti nel Manor ar ricchiscono la visione d’insieme, e sve lano le pieghe di uno sgretolamento inarrestabile, di una serie di scelte ne gative compiute o da compiere. Forse in Aaron meglio che in altri personag gi de’ romanzo affiorano le ragioni tor mentose di un conflitto; Aaron che dapprima si avvicina alla causa della rivoluzione, legge e diffonde i libri di (illeggibile), di Belinski, di Pisarev, di Herzen, ma poi diviene sionista e propaganda l’emigrazione in Palestina, ti moroso che « la macchina rivoluziona ria lubrificata con il sangue de gli ebrei », ai quali nessuno intende guardare in faccia. O nello studente Alenikov, che dopo un pogrom a Kiev grida: « Ci pentiamo ai aver ten tato di essere russi. Abbiamo commes so un errore tragico. Siamo ancora ebrei! ». A costo di contraddire molti critici e qualche rispettabilissimo addetto ai la vori, fin qui Singer mi sembra un in gegnoso, onesto, serio epigono. Non intendo mettere in dubbio la genui nità del suo mestiere e la sua coeren za di discendente della grande tradi zione culturale ebraica della Mitteleuropa, nella quale Giuliano Baioni ha mostrato quale posto in senso stretto occupi Kafka. Il sentore di armadio di cui parlavo prima si sprigiona poten temente dal Manor e non è assente neppure nella Famiglia Moskat. Sin ger padroneggia con indubbia abilità le nervature del suo mondo sprofonda to nel nulla, eppure non riesco a sot trarmi alla sensazione che egli scavi di continuo in una lava che ha sepolto per l’eternità una Pompei ove, andan do nel profondo, persone, cose, am bienti, si possono riportare in luce sen za che abbiano perduto il gesto o lo spazio impalpabile del momento che precedette la morte. Quel che manca, in tutto ciò, è la dimensione cinetica, il respiro, magari lo smaniare del dibbuk, il ricupero del mistero e della magia. Le figure se ne stanno immobi li, fissate in un movimento ormai ste reotipo e bloccato, come nell’urna greca di Keats. Letto 1222 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||