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LETTERATURA: I MAESTRI: Walt Whitman, hélas!

8 Marzo 2016

di Claudio Gorlier
[da “La fiera letteraria”, numero 47, giovedì, 23 novembre 1967]

WALT WHITMAN
Foglie d’erba
Guanda, pagine 197, Lire 1300

Che Whitman ci sarebbe stato riproposto nel nome di Ginsberg e della poesia beat era probabilmente inevitabile, anche se non desiderabile: ma ben venga ogni ragionevole suggerimento per un riesame, come questo di Franco De Poli, che introduce una scelta di Foglie d’erba con testo a fronte, dopo che, alcuni anni or sono, Enzo Giachino ne aveva dato una versione eccellente pubblicata da Einaudi. La critica americana, in verità, aveva provveduto da tempo a riesplorare il terreno, e ne sono testimonianza due raccolte di saggi in certo senso complementari, apparse entrambe nel 1962: The Presence of Walt Whitman, a cura di Richard W. B. Lewis (Columbia University Press, New York), e Whitman, A Collection of Criticai Essays, a cura di Roy Harvey Pearce (Prentice-Hall, Englewood Cliffs). Vorremmo aggiungere, per l’utilità delle indicazioni contenute in una compatta e lucida prefazione, la scelta a opera del Davis e del Miller. Ma l’aggancio forse più persuasivo e articolato è venuto di recente da un critico europeo, l’irlandese Denis Donoghue, nel saggio di apertura di Connoisseurs of Chaos, che è del ’65.

 

Non quello di Ginsberg

 

Whitman non ha mai cessato di imporre la propria presenza nella poesia americana; presenza ingombrante, magari, e irritante, come il gidiano “Victor Hugo, hélas”. L’aveva compreso benissimo Ezra Pound, dichiarandolo non soltanto in una breve e notissima poesia (“Ho fatto un patto con te, Walt Whitman”, nella cui prima stesura, significativamente e forse imprudentemente, al posto di “patto” stava “tregua” ), ma in una nota del 1909, rimasta inedita sino al 1955, in cui si autodefiniva “mentalmente un Walt Whitman che ha imparato a portare il colletto e una camicia da sera”, e dichiarava: “Ä– disgustoso. Ä– una pillola decisamente nauseante, ma compie la sua missione… Ä– un genio perché possiede una visione di ciò che è, e della sua funzione. Sa di essere un inizio e non un lavoro classicamente finito.”

Quale, però, il Whitman che si tenta ancora di interrogare? Sicuramente non quello del Ginsberg di Un supermarket in California (“Dove stiamo andando, Walt Whitman?…”) che, per una appropriazione in effetti tradizionale, orecchiata e statica, ci sembra soltanto il Whitman del luogo comune, il bardo della democrazia, il profeta barbuto, vale a dire una sorta di equivalente in letteratura della leggenda popolare, edificante e caramellata, di Abramo Lincoln, e che rimanda irresistibilmente alla spiritosa parodia dell’Urlo ginsberghiano scritta dal Simpson. Dal momento che un poeta si qualifica grazie al proprio linguaggio, e che proprio sul linguaggio, sulle strutture metaforiche si accese la poesia di Whitman, mentre della maschera equivoca e corriva del bardo possiamo facilmente liberarci come di una grossolana superstruttura, il Whitman dei beat ci appare nient’altro che una stanca marionetta. Recuperare, oggi, non tanto la poesia delle Foglie d’erba, ma un certo tipo di personaggio che essa sembra surrettiziamente suggerire, mentre in effetti è la manipolazione di una serie di atteggiamenti o di prese di posizione a inventarlo, significa lavorare a vuoto e non rendere un buon servizio né a Whitman né alla poesia.

Una chiamata di correo, intendiamoci, ha un suo fondamento, ma si potrebbe dire altrettanto di Frost; se Whitman autorizzò obliquamente la propria glorificazione di bardo della democrazia o di cantore della società industriale, Frost non fece nulla â— a dir poco â— per cancellare la falsa immagine del poeta bucolico e del tranquillo organatore di elegie agresti. Si tratta, in questi casi, di lasciare la cartapesta e di ricominciare, seriamente, a leggere. Del resto, un avviamento a una lettura appropriata è contenuto nella prefazione del De Poli alla sua scelta, quando si parla di “tentativo di sistemare l’uomo nella natura, il cittadino nella nazione, e di dare una collocazione duratura ai fatti e alle idee…”. Farei qualche ampia riserva sulla “collocazione duratura”; o si accetta, mi pare, la lezione di Whitman nella sua evidente dinamica (proprio come sostiene Pound), o si ricade in una sistemazione che a lungo andare denuncia, del solido edificio, le colonne fradice. I “cataloghi” di cui parla Yeats a proposito di Whitman vanno intesi, mi pare, in una direzione “aperta”, analogamente agli “inventari” cui si riferiva Emerson, implicano un discorso ininterrotto e additano l’ampia disponibilità grazie alla quale con Whitman rimane possibile oggi ristabilire un rapporto attivo: “Abbiamo la stessa linfa e la stessa radice: E dunque ci sia commercio tra di noi”, per ritornare ancora a Pound. Forse vale la pena di risalire a un documento chiave, per lucidità e per misura, cioè la prefazione di Whitman alle Foglie d’erba. Esplicita fin che si vuole, la prefazione contiene peraltro un invito alla misura; perentoria nella formulazione, si rifiuta di stabilire leggi bronzee. Ora, la rivendicazione di americanismo della Preface, pur nella sua incidenza, non riveste una funzione determinante, e in ogni caso riporta assai più a una problematica espressiva che non a una connotazione “civile” della letteratura. Inoltre, e se davvero la poesia di Whitman è â— ma ne dubitiamo â— essenzialmente celebrativa e molto spesso, forse troppo spesso, affidata più al grido che al gesto, di una intenzione simile vi è poca traccia nel documento introduttivo. Intanto, la polemica nei confronti del romance, e cioè di un elemento tanto radicato nella tradizione americana, ha una salutare funzione di richiamo al primato dell’oggetto colto nella sua realtà molteplice, e quindi alla ricostituzione di un rapporto parola-oggetto, attraverso il quale si genera la visione, il simbolo, la metafora, e che nella parola magari quotidiana, vernacola, e nel ritmo liberato da strettoie convenzionali, rotto e aperto, trova il suo affrancamento e il suo veicolo naturale.

In secondo luogo, Whitman istituisce una nuova relazione tra individuo e natura, che pur rifiutando una soluzione meramente realistica abolisce un dualismo metafisico del genere caro a Emerson (onde le ironie di questi sugli “inventari” whitmaniani), ma anche, come ha osservato molto opportunamente il Donoghue, il dialogo tra “io” e “altro” caro ai romantici inglesi, che conduce a uno scavo sempre più intenso e interiorizzato del primo, nel quale si riflette l’inquietudine che misura la metafisica distanza dall’assoluto e dall’universo. “Non è coerente con la realtà dell’anima” scrive Whitman, “ammettere che esista alcunché nell’universo conosciuto di più divino dell’uomo e della donna”. Nello stesso torno di tempo Mark Twain seguiva una linea di sviluppo parallela, anche se finiva poi per approdare a un’angoscia radicale e metafisica, ma consciamente negatrice del divino.

Quando, però, Whitman ammoniva che “poesie distillate da altre poesie” non possono durare, non lanciava un manifesto dell’americanismo, ma tentava più verosimilmente di svincolarsi dal condizionamento dell’esperienza romantica ormai usurata, senza cadere nelle secche dell’estetismo alla Swinburne. Postulando una struttura drammatica per la poesia e l’uso del linguaggio comune, vicino alla prosa o addirittura intercambiabile con la prosa, egli si affiancava a Browning con risultati meno conclusivi ma anche senza, di Browning, le concessioni al moralismo e al sentimentalismo vittoriano. Così egli apriva la strada a Pound, i cui Cantos si possono legittimamente considerare il Song of Myself del Novecento, ma anche a Frost, a Crane, a Williams: il Proteo annidato nella poesia americana che ha individuato convincentemente Glauco Cambon.

 

Premesse da cercare lontano

 

Così, l’archetipo americano forse più persistente ed emblematico, Adamo, si ritrova in Whitman identificandosi col poeta stesso, e perdendo ogni risonanza didattica o edificante: Come Adamo, di primo mattino / usciva dal giaciglio d’erbe, fresco dal sonno, / guardatemi dove passo, ascoltate la mia voce, appressatevi, / toccatemi, stendete sul mio corpo, mentre passo, il palmo della mano, / non abbiate paura del mio corpo.

La vecchia dicotomia corpo-mente, o mente-cuore, ereditata dalla letteratura americana fin dalle origini, si vorrebbe superare con uno sforzo di identificazione; se le premesse vanno rintracciate lontano, nella lirica elisabettiana e nei metafisici, l’antinomia aveva disturbato per due secoli i puritani americani, preoccupati di iscrivere la natura in un disegno preordinato e di negarle una autonomia materiata di realtà, ma attribuendole unicamente il valore di paradigma, non di rado negativo. In questo contesto va letto, ci sembra, Noi due ragazzi che ci avvinghiamo, dove si può bene localizzare un risvolto sessuale, di un tabù caratteristicamente americano, ma sempre all’interno di una visione più ampia, e costantemente in movimento. E il culmine si troverà in Solo sulla spiaggia, di notte, giacché il mare, proprio per il suo valore inclusivo, per la sua mobilità, serve a Whitman come simbolo primario, “in una stretta che tutto rende compatto e racchiude”. La circolarità di tale simbolo non si esaurisce in sé, ma acquista una funzione germinativa oltre che inclusiva. Il “dotto astronomo” potrebbe essere allora il dottore puritano che legge nell’universo come in un libro punteggiato di riferimenti precisi e obbligati, dimenticando in effetti “l’umida, mistica aria della notte” o “le stelle”, tanto da rendere chi ascolta “stanco, insofferente”, e desideroso di allontanarsi e di uscire, tutto solo, all’aria libera.

 

Limitazioni divenute insanabili

 

Il grido del Whitman che canta “il corpo elettrico », che si “affretta avanti”, che celebra, non deve mettere a tacere l’altro Whitman che si china a contemplare “il minimo insetto o animale”, e si propone di “fermarsi e indugiare” per tacere del Whitman addirittura pre-crepuscolare di “Che cosa sono, alla fine”:

Che cosa sono, alla fine, se non un bambino, compiaciuto / del suono del mio nome? e lo ripeto, continuo a ripeterlo; / mi fermo, in disparte, a udirlo â— non me ne sazio mai. / Anche per te, il tuo nome; / credevi che non ci fossero altro che due o tre sillabe / nel suono del tuo nome?

Whitman, cioè dell’intenzione celebrativa, giunge, quando sa e può, ad affacciarsi sull’orlo del caos, né si illude di possedere una formula magica per esorcizzarlo. La poesia americana che conta non si sottrae mai a una vocazione metafisica. Il rischio inevitabile â— precisa a proposito il Feidelson â— sta nel fatto che il simbolo di Whitman finisce col proliferare quasi automaticamente e quindi di annegarsi; che la sua intenzione celebrativa si istituzionalizza. Qui ci imbattiamo nel Whitman più caro al pubblico, e non ce ne meravigliamo affatto. Ma Matthiessen ci aveva spiegato che le limitazioni di Whitman divennero, a un dato momento, insanabili, una volta spezzata la crisalide, e che egli si perdette nei meandri di un linguaggio alla lunga così disperatamente artificiale e manieristico. Ä– il Whitman preferito dai campioni della ingenua rivolta antiformalistica dell’ultimo decennio, quello rumorosamente esclamativo. L’irritante, ingombrante Whitman che non siamo autorizzati a metter da parte, anche se sappiamo che nei “cataloghi” di questo ammirevole istrione ci tocca pur cercare le fondazioni della poesia americana, con nostra sorpresa e per nostra disperazione.

 


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