LETTERATURA: I MAESTRI: La corda pazza27 Ottobre 2018 di Leonardo Sciascia Il 4 ottobre del 1811 al Real Teatro Carolino di Pa lermo fu rappresentata in ga la, per l’onomastico del prin cipe ereditario Francesco, l’o pera La scuola degli amanti ovvero Così fan tutte, libretto di Lorenzo da Ponte, musica di Wolfango Amedeo Mozart. L’insuccesso fu totale e defi nitivo: per cento trentasei an ni le cronache del teatro mu sicale palermitano non regi streranno altre rappresentazio ni pubbliche di opere mozar tiane. « Non andavano a san gue », dice il Serio. Fanatico di Mozart, il ba rone Pietro Pisani aveva vi sto cadere un’opera che a Pa lermo avrebbe dovuto trovare nel pubblico quella « conso nanza spirituale », come dice il Paumgartner, che altrove si era spenta con la rivoluzione francese; e forse appunto per ciò era stata scelta. E indubbiamente sdegnato della irri mediabile sordità dei suoi pari a quella divina musica, qual che anno dopo fece eseguire a sue spese Il flauto magico ammettendo solo un altro spettatore: un tedesco di no me Marsano (Marsan proba bilmente) di cui sappiamo che teneva negozio in Palermo, suonava il clarinetto e cono sceva un po’ di latino, se in latino grossamente aveva tra dotto il libretto dell’opera, of frendo così al Pisani la pos sibilità di ricostituirlo « in versi italiani maestrevolmente conformati alla frase musi cale ». Una simile realizzazione del teatro (che in Europa mi pare sia stata poi ripetuta da un re folle) avrebbe sconvolto nei persiani di Montesquieu quella nozione del teatro alla quale con mente vergine era no arrivati. E nello stesso Montesquieu. E in Pirandello che effettualmente la confer ma, e anzi come in un prisma la scompone e potenzia. Ma il barone Pisani ben altre no zioni stava per sconvolgere: e se la sua concezione del teatro tanto era lontana dalla « invenzione » del teatro che Montesquieu attribuisce ai persiani â— apparentemente per celia ma sostanzialmente per la ragione stessa che Bor ges pone come la sconfitta di Averroè (« voleva immagina re un dramma senza sapere che cos’è un teatro ») e che sarà la vittoria di Pirandello â— la sua concezione della vita molto si avvicina a pre correre quella di Pirandello appunto. In due battute pi randelliane si può infatti rias sumere la visione della vita, e il modo di vivere e di operare, del barone Pisani: « Deve sa pere che abbiamo tutti come tre corde d’orologio in testa. La seria, la civile, la pazza »; « E via, sì, sono pazzo! Ma allora, perdio, inginocchiate vi! Inginocchiatevi! Vi ordi no di inginocchiarvi tutti da vanti a me â— così! E toccate tre volte la terra con la fron te! Giù! Tutti, davanti ai pazzi, si deve stare così! ». La prima è del Berretto a sona gli, cioè di una commedia pre cisamente localizzata e che as sume e scioglie il tema della follia nella « tipicità » della vita siciliana, delle sue rego le; la seconda dell’ Enrico IV, in cui il tema trascorre dal ca so clinico all’esistenza stessa. * Pietro Pisani nacque in Pa lermo nel 1761. Fin da ra gazzo ebbe vivissima inclina zione alla musica; e senza maestro, contro la volontà del padre che l’avviava invece agli studi di legge, assidua mente la studiò. Si addottorò all’università di Catania in di ritto civile e « prese a bat tere le vie del foro », ma di controvoglia. A ventitré anni sposò Maria Antonia Texeira Albornoz, che ne aveva di ciannove, « bella della perso na, di cuore ingenuo e pudico, ma spesso combattuto da in sanabile gelosia, a cui certo dava egli alimento »: di lei Giovanni Meli canterà la vo ce, gradevole linda spirante desiderio e dolcezza. Ne ebbe otto figli, tra i quali egli pre dilesse il secondo, Antonino, che gli pareva realizzasse con seria e profonda applicazione quella sua sempre viva ma ormai dilettantesca passione per la musica. Antonino aveva appena pubblicato un lodatissimo sag gio sul dritto uso della musica strumentale quando, nel 1815, moriva. Poiché « nelle sue passioni toccava gli estremi, quantunque agli atti e ai modi sembrasse di una stoica impas sibilità », Pietro Pisani tentò il suicidio. Salvato dai familiari, totalmente mutò modo di vi vere. E si sarebbe del tutto chiuso nel lutto, così come fi no alla morte ne portò l’abi to, se i suoi doveri di funzio nario non l’avessero, forse fortuitamente, portato alla passione per l’archeologia. Uf ficiale della Real Segreteria di Stato e, dal 1820, segretario del luogotenente generale principe di Cutò, Pisani volse la sua attenzione agli scavi che gli inglesi Harris ed Angeli facevano a Selinunte: in quanto funzionario e in quanto dilettante, come allo ra si diceva, di antiquaria. Fermò l’emigrazione delle metope rinvenute, dando in com penso agli archeologi le copie in gesso che si trovano al Museo Britannico; e si diede a un paziente lavoro di rico struzione e interpretazione dei pezzi, pubblicandone poi i ri sultati in una Memoria sulle opere di scultura in Selinunte che venne fuori, con un certo ritardo, nel 1824, quando già era preso da un’altra pas sione, più profonda e dure vole. « Mi è stato â— diceva poi â— confidato dalla Prov videnza un deposito prezio so, la ragione dei poveri mat terelli, ed io devo loro appoco appoco restituirla ». La Prov videnza si manifestò attraver so il marchese Pietro Ugo delle Favare, nuovo luogote nente del Regno, che il 10 agosto del 1824, ritenendo che « per disposizione di cuore e per esattezza nell’adempimen to del dovere » il Pisani ri spondesse alle intenzioni del re e alle sue premure, lo nominava deputato alla Real Ca sa dei Matti. * Quando la lebbra si ritira dall’Europa e restano vuoti quei miserabili edifici, dice Michel Foucault, in cui il male era mantenuto ma non curato, ecco che quelle strut ture d’esclusione tornano a funzionare per la pazzia. E un lebbrosario in cui si tro vano ancora lebbrosi è quel lo che a Palermo, fino al 1824, è chiamato ospizio dei matti. « Lo abbandono, nel quale trovai per verità que sto luogo, se dai miei occhi non fosse stato veduto, da chiunque udito lo avessi, io non lo avrei giammai credu to. Esso la sembianza di un serraglio di fiere presentava piuttosto, che di abitazione di umane creature. In volge re lo sguardo nell’interno del l’angusto edificio, poche cel lette scorgevansi oscure sor dide malsane: parte ai matti destinate, e parte alle mat te. Colà stavansi rinchiusi, ed indistintamente ammucchiati, i maniaci i dementi i furiosi i melanconici. Alcuni di loro sopra poca paglia e sudicia distesi, i più sulla nuda terra. Molti eran del tutto ignudi, varj coperti di cenci, altri in ischifosi stracci avvolti; e tut ti a modo di bestie catenati e di fastidiosi insetti ricolmi, e fame, e sete, e freddo, e caldo, e scherni, e strazj, e battiture pativano. Estenuati gl’infelici, e quasi distrutti gli occhi tenean fissi in ogni uomo che improvviso compa riva loro innanzi; e compresi di spavento per sospetto di nuovi affanni, in impeti su bitamente rompeano di rabbia e di furore. Quindi assicurati dagli atti compassionevoli di chi pietosamente li guardava, dolenti oltre modo pietà chie devano, le margini dei ferri mostrando, e le lividezze delle percosse di che tutto il corpo avean pieno. Quai martiri, oh Dio, e quanti! Eppure al tre angosce incredibili e vere quei meschini sopportavano. Oltre degli accennati mali, varie infermità pestifere vedevansi alle loro membra appiccate; poiché si facean con essi insieme convivere gli eti ci, i lebbrosi, e tutti coloro che da sozzi morbi cutanei eran viziati ». Il primo provvedimento del Pisani fu quello di far cade re le catene e di ristorare quei disgraziati con « cibi ricreati vi » e « soavi liquori »: e « parea in quel punto, che la follia avesse nelle loro menti ceduto il luogo alla ragione ». Poi diede mano, in base a un regolamento da lui compilato (Istruzioni per la novella Real Casa dei Matti, Palermo, 1827), ad un radicale rinno vamento dell’istituzione: e a tal punto che non fu più una istituzione. Già il regolamento era abbastanza avanzato ri spetto a quel tempo ed al no stro (se lo si applicasse inte gralmente, oggi, i manicomi italiani non sarebbero così tre mendi come sono). Ma è in effetti un documento burocra tico in cui il marchese delle Favare che lo approva non può essere coinvolto in quel la che Basaglia dice « man canza di serietà e di rispetta bilità, da sempre riconosciuta al malato mentale e a tutti gli esclusi » cui il Pisani era andato accomunandosi. * Insomma: se le sue carte dicono dell’istituzione, la sua vita e la sua opera totalmente la negano. Spesso firmava le sue lettere qualificandosi co me il primo pazzo della Sici lia; e di un pazzo che aveva ucciso uno dei custodi, ad am monimento di questi, fece fare il ritratto con questa iscrizio ne: « Vera effigie del Beato Giovanni Liotta da Aci Reale pazzo furioso il quale spinto dall’ira celeste uccise con un pezzo di canna infradicita il suo custode che voleva ba stonarlo ». Saggio al punto da riconoscersi folle, e abba stanza folle da ritenersi tra i folli il più saggio, in questa contraddizione diede vita ad una comunità armoniosamen te articolata ed attiva, irripetibilmente realizzò un’utopia, un’opera d’arte, un teatro « Riesce opportuno di combi nare con loro, dirò così, delle continue scene di teatro »: ma sulla base della sincerità della fedeltà del non mancar giammai di parola né di mai occultare la verità. Michele Palmieri, siciliano in esilio, in quei suoi vivissi mi souvenirs di cui Stendhal e Dumas si servirono, annota va: « Nel paese più arretrato d’Europa, c’è il manicomio più avanzato d’Europa ». Ma il fenomeno era tutt’altro che incongruente e contradditto rio: appunto per l’arretratez za del paese la funzione di un « meccanismo d’esclusio ne » finiva con l’apparire sommamente ingiusta e ingiu stificata agli occhi di un uomo pietoso e consapevole, tanto estremo nelle passioni quanto lucido nell’analizzarle, quale il Pisani. La « corda civi le » rimaneva bloccata da se coli; e il funzionamento del la « corda seria » andava or mai in sincronia allo scate narsi della « corda pazza ». Più tardi, il principe di Lam pedusa parlerà di una follia siciliana: ma il barone Pisani ne aveva già avvertita co scienza, se dentro una tanto vasta area di follia ritagliò il solo luogo in cui si potesse ricostituire la ragione.
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