LETTERATURA: STORIA: I MAESTRI: Il vescovo a Tindari25 Ottobre 2018 di Leonardo Sciascia Tindari, mite ti so. Ma tutt’altro che mite è il luogo, e anzi di orrida bellezza, a precipizio di un mare che sbava sale nelle gore morte. E del resto già nelle due ul time sillabe del verso Qua simodo dichiarava la sogget tività della sensazione, del ri cordo: ti so ora, qui, lonta no, in altra terra, in esilio, nell’ansia precoce di morire. Condizione e stato d’animo che un altro poeta, circa duecentottanta anni prima, ap punto da Tindari e contro Tindari lamentava: luogo d’esi lio che si confaceva al dolo re, alla disperazione, alla morte. ‘Ntra ‘na muntagna sulitaria alpestra, / Sutta celu gnilatu, ed aria impura, / Sentu sulu parrari a la fine stra / Li venti chi amminazzanu li mura. / Di niuri olivi, e pallida inestra / E’ la cam pagna ‘ngramagghiata e scu ra: / Criu chi ‘cca s’agnuna e si siquestra / Quannu sta visitusa la natura. (Su una montagna solitaria alpestre, sotto cielo gelato ed aria im pura, sento solo parlare alla finestra i venti che minaccia no le mura. Di neri olivi e pallida ginestra è la campa gna ingramagliata e scura: credo che qui si nasconda e si sequestri la natura quando sta in lutto). Da questa ottava, detta « magistrale », il poeta svilup pava poi (esercizio allora non inconsueto) altre otto ottave, ciascuna delle quali, nell’or dine, finiva col corrisponden te verso della prima: sicché abbiamo una poesia di nove ottave in cui agli orrori in vernali e infernali del luogo si aggiungono pardi, tigri, lupi, il Fato avverso, la Parca dura, la Peste crudele. Il poeta si chiamava Simo ne Rau e Requesenz, dei du chi della Ferla. Imparentato coi Ruffo, ad uno di questa famiglia dobbiamo la postu ma edizione delle Rime di Monsignor Don Simone Rau stampata in Venezia per li Giunti nel 1672. E in una poesia diretta a costui, Jaco po di nome, studioso di astro nomia, troviamo l’unico mo mento in cui nebbie ed an gosce si dissolvono dal Tindaro; forse per la primavera che sopravviene, forse per al lettare l’amico e parente al viaggio: e gli promette un aprile ridente, un mare tranquillo e che vedran qui chiara qual più dubbia stella / tue canne occhiute. * Tindari era allora una del le residenze del vescovo di Patti. E tra il giugno del 1658 e il settembre dell’anno suc cessivo il Rau fu titolare di quella diocesi: a conclusione della sua vita, e dopo una vicenda dolorosa e vergo gnosa. Spenta sanguinosamente la rivolta capeggiata da Giusep pe d’Alesi, a placare il popo lo palermitano ancora inquieto e diffidente il viceré mar chese di Los Velez dichiara va, il 5 settembre del 1647, il ritorno della nobiltà a sen timenti di fedeltà e di affetto verso le maestranze cittadi ne, e ristabilita dunque la « pace Universale ». Ma a ri stabilire la pace ci voleva pane e buon governo; e anche se il popolo ormai pro strato non si sarebbe più sol levato a minacciose turbolen ze e soltanto avrebbe covato rancore e rimpianto per quel le giornate d’agosto in cui ave va avuto in pugno la vitto ria e ingannato e tradito ave va a sua volta tradito il d’Alesi, l’inquietudine e lo spirito di rivolta si erano co me per contagio appresi a persone e gruppi della bor ghesia e della nobiltà stessa. Se ne ebbe un primo avvi so, che però stava tra lo scher zo e la follia, il 23 settem bre: si trovò in via della Loggia un cartello che invitava il popolo a convocarsi arma to, la domenica seguente, in piazza Marina; e lì sarebbe comparso un cavaliere che l’avrebbe guidato alla libera zione della patria. Fu identi ficato, o così si credette, il cavaliere: un Carlo Ventimiglia, che confessò sotto tortu ra e fu impiccato. Qualche mese dopo veniva rivelata una cospirazione repubblicana. Vi erano implica ti un vecchio soldato di mare divenuto amministratore della vedova principessa di Roccafiorita, un prete, uno scrivano e un curiale: e facevano disegno di creare un reggi mento democratico del quale sarebbe stato primo doge Francesco Baronio Manfredi, gesuita passato al clero secolare, autore tra l’altro di un dottissimo libro su Palermo, che a quel momento languiva nelle carceri dell’Inquisizione, per ragioni che nessuno finora si è dato la pena di indagare. I cospiratori furono impiccati, il Baronio trasferito a Pantelleria. * Altre cospirazioni (e qualcuna probabilmente provocata da agenti del governo) furono scoperte, altre persone impiccate. Finché, alla fine del 1649, fu rivelata dal ge suita Giuseppe Spucches l’ultima della serie, e la più preoccupante. Ne facevano parte i giureconsulti Lo Giu dice e Pesce, e nobili delle prime famiglie del Regno. Tra questi, il conte di Mazzarino: che ebbe la sciagurata idea di confessarsene col De Spucches; ma c’è il sospetto che l’abbia fatto apposta, conside rando tra l’altro che poteva anche confessarsi con Simone Rau, allora parroco, che della congiura partecipava. Infor mato dell’avvenimento, don Giovanni d’Austria venne a Palermo: e subito quei con giurati che non erano riusciti a scappare furono processati e giustiziati. Il solo Simone Rau, che era stato preso as sieme agli altri, ebbe diverso trattamento: fu mandato in Spagna a discolparsi presso il re; ma da Filippo IV ebbe, invece che una punizione, la nomina a regio cappellano e abate di Santa Croce; e tor nava una diecina d’anni dopo in Sicilia vescovo di Patti. Non pare si possa dubitare delle testimonianze che indi cano il De Spucches come de latore, traditore dell’amicizia e della fede; ma il sospetto che Simone Rau si sia salva to e sia stato premiato per una rivelazione della congiu ra contemporanea o preceden te a quella del gesuita, è di tutti i cronisti e gli storici. Non basta, a spiegare la sua immunità, il fatto che godesse di una influente parentela. Non era da meno il conte di Racalmuto, e fu decapitato. Che poi alla immunità si ag giungessero gli onori, sembra un po’ troppo. Né ci si può fermare all’ipotesi che una volta arrestato abbia rivelato i nomi dei complici: troppo poco, considerando le proce dure del tempo nei riguardi della reità contro lo Stato. Probabilmente il Rau era fin dal principio un agente provocatore, e fu arrestato sol tanto per un giuoco d’apparenza, e mandato a Madrid anche per salvaguardarlo da eventuali vendette. Certo è che da quel momento nella fredda preziosità dei suoi ver si, nel giuoco di petrarchismo e gongorismo, si insinua una vena di dolore, di vergogna, di colpa. Le sue notti sono piene di immagini dogliose, di fantasmi spaventosi; torbidi e negri i giorni; nemica la natura e luttuosa. Ahi che nel duro e spaventoso agone / Ove di mia salute si conten de, / Mi condanna la colpa, e mi riprende, / Che l’infer nale accusator m’oppone. / Ahi dove il tempo? ove son l’opre buone? / Or da un momento bilanciata pende / L’eternità: né v’e chi mi di fende, / Né v’ha chi il fallo scusi o chi il perdone… * Questa ossessione di esse re rimasto, di fronte agli uo mini, di fronte all’eterno, ag ganciato e sospeso nell’azio ne di un momento, nell’erro re, nella colpa; di aver tutto perduto e di non poter nulla riguadagnare â— e ci pare di risentire come un’eco, appena un’eco, di un dolore a noi più vicino: Il dramma per me è tutto qui, signore: nella co scienza che ho, che ciascuno di noi â— veda â— si crede « uno » ma non è vero: è « tanti », signore, « tanti ». se condo tutte le possibilità d’es sere che sono in noi: « uno » con questo, « uno » con quel lo â— diversissimi! E con l’il lusione, intanto, d’esser sempre « uno per tutti », e sempre « quest’uno » che ci cre diamo, in ogni nostro atto. Non è vero! non è vero! Ce ne accorgiamo bene, quando in qualcuno dei nostri atti, per un caso sciaguratissimo, restiamo all’improvviso come agganciati e sospesi: ci accor giamo, voglio dire, di non esser tutti in quell’atto, e che dunque una atroce ingiustizia sarebbe giudicarci da quello solo, tenerci agganciati e so spesi, alla gogna, per una in tera esistenza, come se que sta fosse assommata tutta in quell’atto!
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