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LETTERATURA: STORIA: I MAESTRI: Il vescovo a Tindari

25 Ottobre 2018

di Leonardo Sciascia
[dal “Corriere della Sera”, venerdì 19 dicembre 1969]

Tindari, mite ti so. Ma tutt’altro che mite è il luogo, e anzi di orrida bellezza, a precipizio di un mare che sbava sale nelle gore morte. E del resto già nelle due ul ­time sillabe del verso Qua ­simodo dichiarava la sogget ­tività della sensazione, del ri ­cordo: ti so ora, qui, lonta ­no, in altra terra, in esilio, nell’ansia precoce di morire. Condizione e stato d’animo che un altro poeta, circa duecentottanta anni prima, ap ­punto da Tindari e contro Tindari lamentava: luogo d’esi ­lio che si confaceva al dolo ­re, alla disperazione, alla morte. ‘Ntra ‘na muntagna sulitaria alpestra, / Sutta celu gnilatu, ed aria impura, / Sentu sulu parrari a la fine ­stra / Li venti chi amminazzanu li mura. / Di niuri olivi, e pallida inestra / E’ la cam ­pagna ‘ngramagghiata e scu ­ra: / Criu chi ‘cca s’agnuna e si siquestra / Quannu sta visitusa la natura. (Su una montagna solitaria alpestre, sotto cielo gelato ed aria im ­pura, sento solo parlare alla finestra i venti che minaccia ­no le mura. Di neri olivi e pallida ginestra è la campa ­gna ingramagliata e scura: credo che qui si nasconda e si sequestri la natura quando sta in lutto).

Da questa ottava, detta « magistrale », il poeta svilup ­pava poi (esercizio allora non inconsueto) altre otto ottave, ciascuna delle quali, nell’or ­dine, finiva col corrisponden ­te verso della prima: sicché abbiamo una poesia di nove ottave in cui agli orrori in ­vernali e infernali del luogo si aggiungono pardi, tigri, lupi, il Fato avverso, la Parca dura, la Peste crudele.

Il poeta si chiamava Simo ­ne Rau e Requesenz, dei du ­chi della Ferla. Imparentato coi Ruffo, ad uno di questa famiglia dobbiamo la postu ­ma edizione delle Rime di Monsignor Don Simone Rau stampata in Venezia per li Giunti nel 1672. E in una poesia diretta a costui, Jaco ­po di nome, studioso di astro ­nomia, troviamo l’unico mo ­mento in cui nebbie ed an ­gosce si dissolvono dal Tindaro; forse per la primavera che sopravviene, forse per al ­lettare l’amico e parente al viaggio: e gli promette un aprile ridente, un mare tranquillo e che vedran qui chiara qual più dubbia stella / tue canne occhiute.

*

Tindari era allora una del ­le residenze del vescovo di Patti. E tra il giugno del 1658 e il settembre dell’anno suc ­cessivo il Rau fu titolare di quella diocesi: a conclusione della sua vita, e dopo una vicenda dolorosa e vergo ­gnosa.

Spenta sanguinosamente la rivolta capeggiata da Giusep ­pe d’Alesi, a placare il popo ­lo palermitano ancora inquieto e diffidente il viceré mar ­chese di Los Velez dichiara ­va, il 5 settembre del 1647, il ritorno della nobiltà a sen ­timenti di fedeltà e di affetto verso le maestranze cittadi ­ne, e ristabilita dunque la « pace Universale ». Ma a ri ­stabilire la pace ci voleva pane e buon governo; e anche se il popolo ormai pro ­strato non si sarebbe più sol ­levato a minacciose turbolen ­ze e soltanto avrebbe covato rancore e rimpianto per quel ­le giornate d’agosto in cui ave ­va avuto in pugno la vitto ­ria e ingannato e tradito ave ­va a sua volta tradito il d’Alesi, l’inquietudine e lo spirito di rivolta si erano co ­me per contagio appresi a persone e gruppi della bor ­ghesia e della nobiltà stessa.

Se ne ebbe un primo avvi ­so, che però stava tra lo scher ­zo e la follia, il 23 settem ­bre: si trovò in via della Loggia un cartello che invitava il popolo a convocarsi arma ­to, la domenica seguente, in piazza Marina; e lì sarebbe comparso un cavaliere che l’avrebbe guidato alla libera ­zione della patria. Fu identi ­ficato, o così si credette, il cavaliere: un Carlo Ventimiglia, che confessò sotto tortu ­ra e fu impiccato.

Qualche mese dopo veniva rivelata una cospirazione repubblicana. Vi erano implica ­ti un vecchio soldato di mare divenuto amministratore della vedova principessa di Roccafiorita, un prete, uno scrivano e un curiale: e facevano disegno di creare un reggi ­mento democratico del quale sarebbe stato primo doge Francesco Baronio Manfredi, gesuita passato al clero secolare, autore tra l’altro di un dottissimo libro su Palermo, che a quel momento languiva nelle carceri dell’Inquisizione, per ragioni che nessuno finora si è dato la pena di indagare.

I cospiratori furono impiccati, il Baronio trasferito a Pantelleria.

*

Altre cospirazioni (e qualcuna probabilmente provocata da agenti del governo) furono scoperte, altre persone impiccate. Finché, alla fine del 1649, fu rivelata dal ge ­suita Giuseppe Spucches l’ultima della serie, e la più preoccupante. Ne facevano parte i giureconsulti Lo Giu ­dice e Pesce, e nobili delle prime famiglie del Regno. Tra questi, il conte di Mazzarino: che ebbe la sciagurata idea di confessarsene col De Spucches; ma c’è il sospetto che l’abbia fatto apposta, conside ­rando tra l’altro che poteva anche confessarsi con Simone Rau, allora parroco, che della congiura partecipava. Infor ­mato dell’avvenimento, don Giovanni d’Austria venne a Palermo: e subito quei con ­giurati che non erano riusciti a scappare furono processati e giustiziati. Il solo Simone Rau, che era stato preso as ­sieme agli altri, ebbe diverso trattamento: fu mandato in Spagna a discolparsi presso il re; ma da Filippo IV ebbe, invece che una punizione, la nomina a regio cappellano e abate di Santa Croce; e tor ­nava una diecina d’anni dopo in Sicilia vescovo di Patti.

Non pare si possa dubitare delle testimonianze che indi ­cano il De Spucches come de ­latore, traditore dell’amicizia e della fede; ma il sospetto che Simone Rau si sia salva ­to e sia stato premiato per una rivelazione della congiu ­ra contemporanea o preceden ­te a quella del gesuita, è di tutti i cronisti e gli storici. Non basta, a spiegare la sua immunità, il fatto che godesse di una influente parentela. Non era da meno il conte di Racalmuto, e fu decapitato. Che poi alla immunità si ag ­giungessero gli onori, sembra un po’ troppo. Né ci si può fermare all’ipotesi che una volta arrestato abbia rivelato i nomi dei complici: troppo poco, considerando le proce ­dure del tempo nei riguardi della reità contro lo Stato. Probabilmente il Rau era fin dal principio un agente provocatore, e fu arrestato sol ­tanto per un giuoco d’apparenza, e mandato a Madrid anche per salvaguardarlo da eventuali vendette. Certo è che da quel momento nella fredda preziosità dei suoi ver ­si, nel giuoco di petrarchismo e gongorismo, si insinua una vena di dolore, di vergogna, di colpa. Le sue notti sono piene di immagini dogliose, di fantasmi spaventosi; torbidi e negri i giorni; nemica la natura e luttuosa. Ahi che nel duro e spaventoso agone / Ove di mia salute si conten ­de, / Mi condanna la colpa, e mi riprende, / Che l’infer ­nale accusator m’oppone. / Ahi dove il tempo? ove son l’opre buone? / Or da un momento bilanciata pende / L’eternità: né v’e chi mi di ­fende, / Né v’ha chi il fallo scusi o chi il perdone…

*

Questa ossessione di esse ­re rimasto, di fronte agli uo ­mini, di fronte all’eterno, ag ­ganciato e sospeso nell’azio ­ne di un momento, nell’erro ­re, nella colpa; di aver tutto perduto e di non poter nulla riguadagnare â— e ci pare di risentire come un’eco, appena un’eco, di un dolore a noi più vicino: Il dramma per me è tutto qui, signore: nella co ­scienza che ho, che ciascuno di noi â— veda â— si crede « uno » ma non è vero: è « tanti », signore, « tanti ». se ­condo tutte le possibilità d’es ­sere che sono in noi: « uno » con questo, « uno » con quel ­lo â— diversissimi! E con l’il ­lusione, intanto, d’esser sempre « uno per tutti », e sempre « quest’uno » che ci cre ­diamo, in ogni nostro atto. Non è vero! non è vero! Ce ne accorgiamo bene, quando in qualcuno dei nostri atti, per un caso sciaguratissimo, restiamo all’improvviso come agganciati e sospesi: ci accor ­giamo, voglio dire, di non esser tutti in quell’atto, e che dunque una atroce ingiustizia sarebbe giudicarci da quello solo, tenerci agganciati e so ­spesi, alla gogna, per una in ­tera esistenza, come se que ­sta fosse assommata tutta in quell’atto!

 


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Bart