LETTERATURA: I MAESTRI: La croce sull’Africa6 Marzo 2018 di Alberto Moravia Ujiji, gennaio. La macchina avanza piano per una pista rossa, di un pallido umido rosso emorra gico, come se il pietrisco fos se mischiato con sangue. Attraversiamo la fascia di terra coltivata che si stende tra l’altipiano e il lago Tangany ka. Orti, campi, giardini, tut to di un verde spugnoso e brillante; qua e là, ormeggia ti a mezzaria, i palloni tetri dei manghi. Sono le prime coltivazioni che vediamo do po due giorni di corsa attra verso la boscaglia dell’altipia no. Questa parte della Tan zania, ai confini del Burun di, è selvaggia senza essere né veramente pittoresca né veramente esotica. In certi punti, la boscaglia ci ha fatto pensare alla macchia degli Appennini. Soltanto la luce sfarzosa e cruda, accecante dopo gli acquazzoni, ci ha ricordato che eravamo in Africa. Ecco il lago Tanganyka. Appare improvviso tra due colline: le allarga, le divari ca, si propaga fino ad inva dere l’orizzonte. E’ nero, sot to il tetto di nuvole nere del la stagione della pioggia. Non si vedono i limiti delle sue acque deserte (il Tanganyka è largo e lungo circa quanto il mare Adriatico) ma si sen te che, purtuttavia, è un lago perché non ne emana in al cun modo l’aria mossa, libe ra, sconfinata che è propria del mare. Anzi, a dire il ve ro, ispira quasi un senso di claustrofobia. In realtà il la go Tanganyka è l’ombelico dell’Africa, un ombelico pro fondo millecinquecento me tri, chiuso nel ventre del con tinente, lontano giorni e gior ni di viaggio per piste imper vie così dall’Oceano Indiano come dall’Atlantico. Né servi rebbe ad attenuare il senso an goscioso del cul de sac, attra versare il lago e raggiungere la sponda opposta. Laggiù c’è il Congo: altre boscaglie spopolate, altre piste di ter ra color sangue. Secondo una leggenda lo cale, il lago Tanganyka, ori ginariamente era un piccolo e profondo pozzo, di proprietà di una coppia, marito e moglie. Gli dei avevano riempi to il pozzo di pesce preliba to; ma era un segreto che non si doveva far sapere. La mo glie si prese un amante, gli raccontò del pesce, gliene fe ce mangiare. Gli dei, irritati, fecero traboccare il pozzo, marito moglie e amante affo garono, il pozzo continuò a traboccare e diventò il Tan ganyka, il terzo lago del mon do. Qualcuno vedrà in que sta leggenda l’elemento strut turale del segreto e dell’indi screzione femminile. Io ci ve do soprattutto la miseria afri cana. Chissà? Quella coppia, forse è stata la prima tribù bantù che si sia affacciata sul lago pescosissimo (secondo gli ittiologi contiene centoquarantasei specie di pesci). Consapevole della propria for tuna, la tribù avrebbe voluto mantenere il segreto su que sta ricchezza ittica. Ma sareb be sopravvenuta un’altra tribù e il segreto alla fine sarebbe stato divulgato. * Ecco Ujiji. Qui secondo la nostra (di noi europei) sto ria, il 10 novembre del 1871, il dottor Livingstone, malato e portato in barella dai fede li servi negri, vi incontrò Stanley, inviato da Bennett, direttore del New York Herald, alla ricerca del missio nario. E’ ad Ujiji che avven ne il celebre quanto ridicolo (la ridicolaggine propria del la sublimità vittoriana) dia logo tra i due esploratori: « Il dottor Livingstone, sup pongo? ». « Sì ». « Io ringrazio Dio, dottore, che mi ha consentito di ve dervi ». « E io sono grato a voi di essere qui e vi do il benve nuto ». Incontro e conversazione, secondo un librone che leg gevo da ragazzo, Alla ricer ca delle sorgenti del Nilo, corredato da numerose inci sioni in rame, sarebbero avve nuti nel folto di una foresta poco meno che vergine. In realtà il luogo è molto diverso. La macchina lascia la pista, prende per una straduccia secondaria, tra due file di capanne rettangolari, di fan go secco color cioccolata, coi tetti di lamiera arrugginita. La macchina discende sob balzando per gli scoscendi menti di questa strada che sembra un letto di torrente verso il porticciolo lacustre di cui, in fondo, si distingue il molo e qualche barcone attraccato tra i canneti. Ma non arriva al porto; si ferma ad un tratto su un piccolo ripia no. Qui sorge, strano in quel luogo squallido e anonimo, un piccolo monumento, una spe cie di piramide tronca, di bloc chi color senape. Su una del le facce della piramide si ve de, scolpito in rilievo, l’ottu so e massiccio continente afri cano che tanto rassomiglia al suo più ottuso e massiccio ani male: il rinoceronte. Sul con tinente, quasi a cancellarlo, è sovrapposta, in rilievo, una grande croce cristiana nera, le cui estremità raggiungono in alto Tripoli e in basso Cit tà del Capo. Mi chino a leggere la lapi de: « Qui sorgeva il mango sotto il quale il 10 novembre del 1871 Henry Morton Stan ley incontrò il dottor David Livingstone ». Mi guardo intorno. Bisogna dire che gli africani non sem brano attribuire all’incontro l’importanza che gli attribui scono gli europei. Il luogo è tutto sparso di escrementi brulicanti di mosche nere, az zurre e verdi. L’erbaccia è sudicia e calpestata. Uno stuo lo di bambini quasi nudi, dal le facce attonite, ci guarda con apprensione e stupore: non debbono essere molti gli europei che capitano a Ujiji. Risaliamo in macchina, arriviamo al porto. C’è un barco ne sfondato e pieno di acqua fetida arenato tra le alte er be; ci sono alcune piroghe scavate in tronchi d’alberi; ci sono dei pescatori che, alla vista delle nostre macchine fotografiche, ci fanno delle boccacce e dei gesti minac ciosi. Fotografiamo il lago che per un momento, sotto il volo di alcuni fenicotteri, coi suoi fini canneti verdi, evoca un’aria di stampa ci nese antica: quindi ce ne an diamo. Addio Ujiji. * Ma la croce cristiana so vrapposta con tanta sicurez za all’intero continente afri cano mi fa riflettere. E’ una simbolizzazione oltretutto ine satta: la religione cristiana, forse perché religione degli europei invasori, non ha af fatto conquistato l’Africa. A quanto pare, i maggiori pro gressi li ha fatti l’Islam che, pure, è la religione degli ara bi, tradizionali carnefici dei popoli africani. Ma l’Islam è una religione più semplice del Cristianesimo. Il rapporto con Dio vi è più diretto, senza in termediari. Infine l’Islam è « immobile »; invece il Cri stianesimo « si muove », non ha fatto che « muoversi » fin dalle origini. Ma il punto in torno al quale girano le mie riflessioni non è questo. Insomma, la grande que stione è: bisognava « scoprire » l’Africa? E intanto qual è il vero senso del verbo « sco prire »? Vediamo un po’. C’è il modesto autodidatta che, tutto ad un tratto, « scopre », per esempio, Nietzsche; e poi c’è il neoavanguardista che, grazie ad una traduzione tar diva, « scopre », trent’anni dopo la pubblicazione origi naria, l’Ulysses di Joyce. Il primo è umile: studia, si identifica, si cancella nel libro che legge; il secondo è presuntuo so: « scoprendo » Joyce, si il lude di crearlo, di inventarlo e così invece di scoprirlo lo oblitera, lo nasconde. Ora la « scoperta » dell’Africa, ap partiene a questa seconda ca tegoria. Che cosa hanno sco perto in realtà gli esploratori dell’Ottocento? Nulla di dav vero africano (salvo, forse, la reale configurazione dei luo ghi). A tal punto che si po trebbe addirittura affermare che gli esploratori, invece di « scoprire » l’Africa, l’hanno « ricoperta ». Ricoperta di « civiltà » europea, per dar tempo a coloro che venivano dopo di loro, generali, avventurieri, affaristi, commercian ti, di invadere, occupare, as soggettare, lottizzare lo sven turato continente. * Oggi ci si rende conto finalmente che la « scoperta » dell’Africa in realtà è stata l’ingenua e irresistibile spin ta biologica di popoli più for ti ai danni di popoli più de boli. Ma il trauma è avvenu to, irreparabilmente. Non si vede perché, mentre si deplo rano le invasioni barbariche nell’alto Medioevo oppure la sopraffazione islamica dell’In dia si debba considerare l’espansione europea in Africa, durante l’Ottocento, come un fatto, in fondo, positivo. In realtà quest’espansione è sta ta una frattura, l’introduzio ne di un corpo estraneo, una intrusione, forse una deviazione definitiva. Si doveva dar tempo all’Africa; far sì che la sua cultura tribale al tempo stesso amplissima e frammentatissi ma si organizzasse in senso continentale cioè realmente moderno e non fosse artifi cialmente costretta dentro i limiti arbitrari di fantastiche nazioni mai esistite, di modello europeo, con tutte le affli zioni proprie del modello: centralizzazione burocratica, nazionalismo, eserciti, fron tiere, dogane, polizie, e così via. Come ebbe a dire una volta Julius Nyerere, presi dente della Tanzania: « Il Tanganyka è un paese com pletamente artificiale. Abbia mo centodieci tribù. Potrem mo averne meno o di più. Non ho mai capito perché in un punto dato gli uomini ces sano di essere tanganichesi per diventare keniani, congo lesi, ugandesi ». Aggiungiamo tuttavia che ormai non è più neppure sicuro che la soluzio ne panafricana sia quella giusta. Tutto è confuso, im brogliato, obnubilato, anneb biato da mille enormi difficol tà di tutti i generi. La sola cosa veramente sicura è che l’Africa intera è in una con dizione eruttiva, esplosiva, ef fervescente.
Letto 966 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||