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LETTERATURA: I MAESTRI: La croce sull’Africa

6 Marzo 2018

di Alberto Moravia
[dal “Corriere della Sera”, domenica 19 gennaio 1969]

Ujiji, gennaio.

La macchina avanza piano per una pista rossa, di un pallido umido rosso emorra ­gico, come se il pietrisco fos ­se mischiato con sangue. Attraversiamo la fascia di terra coltivata che si stende tra l’altipiano e il lago Tangany ­ka. Orti, campi, giardini, tut ­to di un verde spugnoso e brillante; qua e là, ormeggia ­ti a mezzaria, i palloni tetri dei manghi. Sono le prime coltivazioni che vediamo do ­po due giorni di corsa attra ­verso la boscaglia dell’altipia ­no. Questa parte della Tan ­zania, ai confini del Burun ­di, è selvaggia senza essere né veramente pittoresca né veramente esotica. In certi punti, la boscaglia ci ha fatto pensare alla macchia degli Appennini. Soltanto la luce sfarzosa e cruda, accecante dopo gli acquazzoni, ci ha ricordato che eravamo in Africa.

Ecco il lago Tanganyka. Appare improvviso tra due colline: le allarga, le divari ­ca, si propaga fino ad inva ­dere l’orizzonte. E’ nero, sot ­to il tetto di nuvole nere del ­la stagione della pioggia. Non si vedono i limiti delle sue acque deserte (il Tanganyka è largo e lungo circa quanto il mare Adriatico) ma si sen ­te che, purtuttavia, è un lago perché non ne emana in al ­cun modo l’aria mossa, libe ­ra, sconfinata che è propria del mare. Anzi, a dire il ve ­ro, ispira quasi un senso di claustrofobia. In realtà il la ­go Tanganyka è l’ombelico dell’Africa, un ombelico pro ­fondo millecinquecento me ­tri, chiuso nel ventre del con ­tinente, lontano giorni e gior ­ni di viaggio per piste imper ­vie così dall’Oceano Indiano come dall’Atlantico. Né servi ­rebbe ad attenuare il senso an ­goscioso del cul de sac, attra ­versare il lago e raggiungere la sponda opposta. Laggiù c’è il Congo: altre boscaglie spopolate, altre piste di ter ­ra color sangue.

Secondo una leggenda lo ­cale, il lago Tanganyka, ori ­ginariamente era un piccolo e profondo pozzo, di proprietà di una coppia, marito e moglie. Gli dei avevano riempi ­to       il pozzo di pesce preliba ­to; ma era un segreto che non si doveva far sapere. La mo ­glie si prese un amante, gli raccontò del pesce, gliene fe ­ce mangiare. Gli dei, irritati, fecero traboccare il pozzo, marito moglie e amante affo ­garono, il pozzo continuò a traboccare e diventò il Tan ­ganyka, il terzo lago del mon ­do. Qualcuno vedrà in que ­sta leggenda l’elemento strut ­turale del segreto e dell’indi ­screzione femminile. Io ci ve ­do soprattutto la miseria afri ­cana. Chissà? Quella coppia, forse è stata la prima tribù bantù che si sia affacciata sul lago pescosissimo (secondo gli ittiologi contiene centoquarantasei specie di pesci). Consapevole della propria for ­tuna, la tribù avrebbe voluto mantenere il segreto su que ­sta ricchezza ittica. Ma sareb ­be sopravvenuta un’altra tribù e il segreto alla fine sarebbe stato divulgato.

*

Ecco Ujiji. Qui secondo la nostra (di noi europei) sto ­ria, il 10 novembre del 1871, il dottor Livingstone, malato e portato in barella dai fede ­li servi negri, vi incontrò Stanley, inviato da Bennett, direttore del New York Herald, alla ricerca del missio ­nario. E’ ad Ujiji che avven ­ne il celebre quanto ridicolo (la ridicolaggine propria del ­la sublimità vittoriana) dia ­logo tra i due esploratori:

« Il dottor Livingstone, sup ­pongo? ».

« Sì ».

« Io ringrazio Dio, dottore, che mi ha consentito di ve ­dervi ».

« E io sono grato a voi di essere qui e vi do il benve ­nuto ».

Incontro e conversazione, secondo un librone che leg ­gevo da ragazzo, Alla ricer ­ca delle sorgenti del Nilo, corredato da numerose inci ­sioni in rame, sarebbero avve ­nuti nel folto di una foresta poco meno che vergine. In realtà il luogo è molto diverso. La macchina lascia la pista, prende per una straduccia secondaria, tra due file di capanne rettangolari, di fan ­go secco color cioccolata, coi tetti di lamiera arrugginita. La macchina discende sob ­balzando per gli scoscendi ­menti di questa strada che sembra un letto di torrente verso il porticciolo lacustre di cui, in fondo, si distingue il molo e qualche barcone attraccato tra i canneti. Ma non arriva al porto; si ferma ad un tratto su un piccolo ripia ­no. Qui sorge, strano in quel luogo squallido e anonimo, un piccolo monumento, una spe ­cie di piramide tronca, di bloc ­chi color senape. Su una del ­le facce della piramide si ve ­de, scolpito in rilievo, l’ottu ­so e massiccio continente afri ­cano che tanto rassomiglia al suo più ottuso e massiccio ani ­male: il rinoceronte. Sul con ­tinente, quasi a cancellarlo, è sovrapposta, in rilievo, una grande croce cristiana nera, le cui estremità raggiungono in alto Tripoli e in basso Cit ­tà del Capo.

Mi chino a leggere la lapi ­de: « Qui sorgeva il mango sotto il quale il 10 novembre del 1871 Henry Morton Stan ­ley incontrò il dottor David Livingstone ».

Mi guardo intorno. Bisogna dire che gli africani non sem ­brano attribuire all’incontro l’importanza che gli attribui ­scono gli europei. Il luogo è tutto sparso di escrementi brulicanti di mosche nere, az ­zurre e verdi. L’erbaccia è sudicia e calpestata. Uno stuo ­lo di bambini quasi nudi, dal ­le facce attonite, ci guarda con apprensione e stupore: non debbono essere molti gli europei che capitano a Ujiji. Risaliamo in macchina, arriviamo al porto. C’è un barco ­ne sfondato e pieno di acqua fetida arenato tra le alte er ­be; ci sono alcune piroghe scavate in tronchi d’alberi; ci sono dei pescatori che, alla vista delle nostre macchine fotografiche, ci fanno delle boccacce e dei gesti minac ­ciosi. Fotografiamo il lago che per un momento, sotto il volo di alcuni fenicotteri, coi suoi fini canneti verdi, evoca un’aria di stampa ci ­nese antica: quindi ce ne an ­diamo. Addio Ujiji.

*

Ma la croce cristiana so ­vrapposta con tanta sicurez ­za all’intero continente afri ­cano mi fa riflettere. E’ una simbolizzazione oltretutto ine ­satta: la religione cristiana, forse perché religione degli europei invasori, non ha af ­fatto conquistato l’Africa. A quanto pare, i maggiori pro ­gressi li ha fatti l’Islam che, pure, è la religione degli ara ­bi, tradizionali carnefici dei popoli africani. Ma l’Islam è una religione più semplice del Cristianesimo. Il rapporto con Dio vi è più diretto, senza in ­termediari. Infine l’Islam è « immobile »; invece il Cri ­stianesimo « si muove », non ha fatto che « muoversi » fin dalle origini. Ma il punto in ­torno al quale girano le mie riflessioni non è questo.

Insomma, la grande que ­stione è: bisognava « scoprire » l’Africa? E intanto qual è il vero senso del verbo « sco ­prire »? Vediamo un po’. C’è il         modesto autodidatta che, tutto ad un tratto, « scopre », per esempio, Nietzsche; e poi c’è il neoavanguardista che, grazie ad una traduzione tar ­diva, « scopre », trent’anni dopo la pubblicazione origi ­naria, l’Ulysses di Joyce. Il primo è umile: studia, si identifica, si cancella nel libro che legge; il secondo è presuntuo ­so: « scoprendo » Joyce, si il ­lude di crearlo, di inventarlo e così invece di scoprirlo lo oblitera, lo nasconde. Ora la « scoperta » dell’Africa, ap ­partiene a questa seconda ca ­tegoria. Che cosa hanno sco ­perto in realtà gli esploratori dell’Ottocento? Nulla di dav ­vero africano (salvo, forse, la reale configurazione dei luo ­ghi). A tal punto che si po ­trebbe addirittura affermare che gli esploratori, invece di « scoprire » l’Africa, l’hanno « ricoperta ». Ricoperta di « civiltà » europea, per dar tempo a coloro che venivano dopo di loro, generali, avventurieri, affaristi, commercian ­ti, di invadere, occupare, as ­soggettare, lottizzare lo sven ­turato continente.

*

Oggi ci si rende conto finalmente che la « scoperta » dell’Africa in realtà è stata l’ingenua e irresistibile spin ­ta biologica di popoli più for ­ti ai danni di popoli più de ­boli. Ma il trauma è avvenu ­to, irreparabilmente. Non si vede perché, mentre si deplo ­rano le invasioni barbariche nell’alto Medioevo oppure la sopraffazione islamica dell’In ­dia si debba considerare l’espansione europea in Africa, durante l’Ottocento, come un fatto, in fondo, positivo. In realtà quest’espansione è sta ­ta una frattura, l’introduzio ­ne di un corpo estraneo, una intrusione, forse una deviazione definitiva.

Si doveva dar tempo all’Africa; far sì che la sua cultura tribale al tempo stesso amplissima e frammentatissi ­ma si organizzasse in senso continentale cioè realmente moderno e non fosse artifi ­cialmente costretta dentro i limiti arbitrari di fantastiche nazioni mai esistite, di modello europeo, con tutte le affli ­zioni proprie del modello: centralizzazione burocratica, nazionalismo, eserciti, fron ­tiere, dogane, polizie, e così via. Come ebbe a dire una volta Julius Nyerere, presi ­dente della Tanzania: « Il Tanganyka è un paese com ­pletamente artificiale. Abbia ­mo centodieci tribù. Potrem ­mo averne meno o di più. Non ho mai capito perché in un punto dato gli uomini ces ­sano di essere tanganichesi per diventare keniani, congo ­lesi, ugandesi ». Aggiungiamo tuttavia che ormai non è più neppure sicuro che la soluzio ­ne panafricana sia quella giusta. Tutto è confuso, im ­brogliato, obnubilato, anneb ­biato da mille enormi difficol ­tà di tutti i generi. La sola cosa veramente sicura è che l’Africa intera è in una con ­dizione eruttiva, esplosiva, ef ­fervescente.

 


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Bart