LETTERATURA: I MAESTRI: Le parole e il corpo8 Marzo 2018 di Alberto Moravia Una donna bella è bella anche quando è sola e nessuno la vede? Sì, soprattutto se odia la propria bellezza. Io odio la mia bellezza al punto di aver deciso di distruggermi per distruggerla. Eccomi infatti distesa sul letto, in attesa della morte. So no le sei del pomeriggio. Al le sette inghiottirò tutte le pastiglie di un tubetto di sonnifero. Il tubetto è sul como dino, accanto al bicchiere di acqua. Per morire mi sono spoglia ta completamente, in modo da non lasciar dubbi, a chi mi troverà morta, che la sco perta di non essere che un corpo mi ha portato a sop primermi, appunto, come cor po. Sto distesa supina sulla coperta del letto; la finestra è chiusa, l’avvolgibile abbas sata; alla luce della lampada, il corpo mi appare in una prospettiva radente, illumina to sui rilievi, ombreggiato nel le parti piane, simile ad un paesaggio collinoso all’ora del tramonto. Eccole qui, sotto i miei occhi, le forme provo canti che ho cercato invano di nascondere e rendere invisi bili con le doti dell’ingegno. Nella penombra sembrano pal pitare, lievitare, ingrandirsi co me consapevoli del loro defi nitivo trionfo. Ma sarà un trionfo di breve durata. Non più di un’ora. * Intanto, in attesa della fi ne, torno indietro con la me moria alla mia vita negli ul timi tempi. Dai miei antenati, tutti contadini, ho ereditato un cervello chiuso e angusto, simile ad una stanza nella quale non ci sia posto che per una persona sola. Una sola idea, infatti, albergava nella mia mente allorché, dalla pro vincia, sono venuta a Roma: riuscire. O, come si dice più espressivamente, sfondare. Stimolata da quest’idea, ho affittato l’appartamentino mo nocamera in cui abito tuttora, ho comprato un manuale sul giornalismo: « Il giornalista moderno » e l’ho letto con cu ra annotandone tutti i consigli che mi sembrava facessero al mio caso. Alla fine ho de ciso di fare un’inchiesta sui mendicanti di Roma: un ar gomento originale e attuale. Ho passato un mese a inter rogare, taccuino alla mano, barboni, pitocchi, vagabondi, accattoni di ogni genere. Le borgate industriali, le grotte di tufo della periferia, le ca panne sulle sponde del Tevere hanno visto la mia splendida persona aggirarsi tra il pol verone, i bidoni, le mosche, i cani rognosi e i mucchi di im mondizie. La mia procacità ha reso difficile, talvolta addirittura pericolosa, l’inchiesta: essere belli tra i derelitti è quasi co me essere ricchi. Alla fine, però, ho avuto numerosi taccuini ricoperti di note vergate con la mia saggia e impaccia ta calligrafia scolastica. Mi so no, dunque, messa al lavoro. Era estate; nel mio apparta mento si soffocava; scrivevo tutto il giorno piegando da vanti ad un tavolinetto tra ballante il mio corpo ridon dante e sudato. Erano tutte cose che avevo visto coi miei occhi; tuttavia spremerle fuo ri cambiate in parole mi riu sciva ingrato, doloroso, arduo; come espellere un corpo estra neo, per esempio un calcolo renale oppure una spina di pe sce; ma senza il sollievo che in questi casi segue l’espulsio ne. Soffrivo a scrivere, insom ma; e quello che scrivevo non mi piaceva. Alla fine, dopo tre mesi di lavoro accanito e ottuso, ho avuto un manoscritto di una ventina di pagine. Sono an data a trovare un prosaico si gnore dall’aria posata, buro cratica e paterna che dirigeva una rivista in rotocalco. Non è stata una visita lunga. Mi ha fatto sedere, ha preso il manoscritto, l’ha sfogliato, lo ha letto qua e là, quindi me l’ha restituito dicendo che « non andava ». Ma perché? Ha raggrinzito stizzosamente il naso e ha risposto che non c’era perché: non andava. Ho avuto un’aria così costernata, che si è pentito della sua du rezza e ha voluto, paterna mente, darmi qualche consi glio: perché non mi rivolgevo ad un settimanale di fumetti fotografici; oppure ad una ri vista di quelle cosiddette per uomini? Ho risposto che non me la sentivo di scrivere in simili pubblicazioni. Pacificamente, ha risposto che non si trattava di scrivere bensì di farmi fotografare. Allora mi sono alzata e me ne sono andata. * Ho comprato un altro libro dal titolo incoraggiante « Diventa anche tu scrittore » e l’ho letto e riletto con la massima attenzione. La letteratura è ancora in grande onore nella mia città natale; avrei scritto un racconto, l’avrei sottoposto al giudizio di un giovane e già famoso scrittore che mi era accaduto di conoscere qualche tempo addietro. Ho passato, dunque, due mesi ad escogitare la « trovata » che, secondo il manuale, è indispensabile in qualsiasi racconto. Reperita la « trovata », ho passato un altro mese a co struire i personaggi. Quando ho avuto sottomano personaggi e trovata, sono passata alla stesura vera e propria. Di nuovo la mia monocameretta mi ha visto penare, rannicchiata su una seggiolina, piegata in due alla piccola scrivania. Mentre scrivevo o meglio mi sforzavo di scrivere, mi pare va che il mio corpo esube rante e scultoreo si gonfiasse, si espandesse, ingigantisse per protesta contro la costrizione che gli infliggevo. Non voleva saperne di scrivere, il corpo; anelava ad un modo di espres sione che gli fosse più conso no. Ma, cocciuta, ho conti nuato a raschiare, tagliare, correggere, aggiungere, toglie re, cancellare, cambiare. Non provavo, al solito, alcuna sod disfazione; non mi pareva af fatto, come si dice, di espri mermi; semmai, mi sembrava di farmi violenza, di agire con tro le mie più autentiche in clinazioni. Che pena! Che fa tica! Che strazio! Dopo due mesi di rimesta mento di una materia verbale arida come segatura, ho avu to in mano un raccontino di una dozzina di pagine e l’ho portato al giovane e già noto scrittore. Glielo lascio in por tineria, la mattina seguente mi telefona, mi dà uno stra no appuntamento per strada, ad una fermata di autobus. Ci vado, lui arriva in macchi na, mentre salgo si scusa far fugliando: in casa sua, con la moglie e i bambini, non avreb be potuto ricevermi con quel la calma, con quella serenità che… Intanto guida a perdi fiato sulla Flaminia, eccoci in campagna. Si ferma in una straduccia appartata, cava di tasca il manoscritto e dice: « E’ stato necessario qualche ritocco. Ma adesso può an dare ». Prendo il manoscritto al primo sguardo mi accorgo che l’ha riscritto tutto, da ca po a fondo, e che di mio non c’è rimasto che la firma. Glie lo faccio notare, mi afferra la mano, la porta alle labbra, la bacia, balbetta, si confon de, perde la testa e mi dice che mi scriverà tutti i racconti che voglio, che mi scriverà anche i romanzi, purché… So no discesa indignata, ho cam minato fino alla strada mae stra, sono tornata a Roma con l’autostop. Ma perché continuare? Mi basti dire che l’ho provate tutte. Previo acquisto di otti mi manuali, ho scritto, sem pre con la stessa disumana fa tica, poesie, saggi, commedie, sceneggiature e, da ultimo, anche un romanzo di ben quattrocento pagine. Il mio corpo ha conosciuto più e più volte la mortificazione delle lunghe sedute al tavolino, al le prese con lo stuolo inaffer rabile e maligno delle parole. Ma il risultato è sempre stato lo stesso: facevo leggere il manoscritto, mi veniva resti tuito con un rifiuto più o me no cortese; ma al tempo stes so, quasi suggerita anzi im posta dalla mia conturbante e prepotente bellezza, mi sen tivo fare qualche proposta che riguardava il corpo: fotogra fie per copertine, provini per film, fumetti cinematografi ci, nudi per riviste erotiche e così via. Queste proposte venivano sempre fatte con se rietà, simpatia, benevolenza, sincero desiderio di aiutarmi e di procurarmi del lavoro; ovviamente, rivelavano l’esi stenza di un mercato tutt’altro che saturo nel quale la domanda superava di molto l’offerta. * D’improvviso, mentre pen so queste cose, avverto come una sensazione sconvolgente di capovolgimento. Ad un tratto sento che il male mi si cambia in bene, il difetto in qualità. Mi rendo conto lu cidamente che sono questi miei preparativi per il suici dio a provocare il rovescia mento. La parte di me stessa che sinora ho rifiutato, al l’urto con l’idea della morte, si è capovolta, come un « ice berg » la cui base sommersa, ad un’ondata, emerge, colos sale, alla luce del sole. Ho creduto finora che il mio de stino era nelle parole; mi accorgo d’improvviso che è nel corpo. Mi levo a sedere, apro il cassetto del comodino, ci but to il tubetto del sonnifero Poi mi alzo, vado alla fine stra, la spalanco. Non so per ché, mi sembra di aprirla per la prima volta dopo molto tempo, dopo mesi, anzi anni. Al tempo stesso, mi pare di avvertire un fragore di elitre, come se la camera sia piena gremita di insetti volanti i quali adesso si precipitano tutti insieme di fuori. In realtà sono le parole, centi naia di parole, migliaia di pa role, che ho evocato invano e che erano rimaste per l’aria, brulicanti ed inutili. Il fra gore delle elitre, a tutta prima assordante, pian piano dimi nuisce, cessa. L’ultimo inset to, l’ultima parola è volata via; la stanza è libera, pulita, vuota. Il corpo, adesso, com pie da solo tante azioni; sen za alcun ausilio di pensiero, giacché il pensiero è fatto di parole. Va e viene, apre un armadio, sceglie una camicet ta, una minigonna, una calza maglia, un reggiseno, si veste con cura, con amore. Quindi si pone davanti allo specchio, si pettina, si trucca, si pro fuma, si mette al collo una ca tena, alle dita degli anelli. Fi nalmente, accende una siga retta, siede vicino al telefono, compone un numero aspetta, parla. Prende un appunta mento per la cena, per il ci nema; poi va a sedersi sul letto, apre una rivista illu strata, la sfoglia, guardando le fotografie, si alza, accende il televisore, siede su una seggiola, segue il programma sul video. Ad un tratto risuo na il campanello della porta. Il corpo si alza, va ad aprire.
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