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LETTERATURA: I MAESTRI: La Firenze di Cecchi

18 Gennaio 2018

di Indro Montanelli
[dal “Corriere della Sera”, martedì 9 settembre 1969

Di Emilio Cecchi, credo che si potrebbe elencare una lunga sfilza di libri mancati. Mancati non perché lui li abbia sbagliati, ma perché non li ha scritti, pur avendoli in corpo dalla prima all’ultima riga. Quello su Firenze, per esem ­pio. Nessuno più di Cecchi ne conosceva il volto. Quanto all’anima, gli sarebbe bastato frugare in quella sua.

Hanno quindi fatto bene i suoi figli Suso e Dario a rime ­diare, riunendo in volume (Emilio Cecchi, Firenze, Mon ­dadori Ed., pagg. 280, Lire 2800) i saggi sparsi da loro padre su questo argomento. Sebbene incompleto, è il più bel ritratto di città che mi sia mai capitato di leggere, il più acuto e penetrante. Non la illumina tutta. Ma i flashes che vi getta sopra sono tali da farci indovinare e capire anche ciò che rimane nell’om ­bra. Inutile cercare di ricapi ­tolarli. Ricapitolare Cecchi sa ­rebbe come distillare il co ­gnac. Mi limiterò quindi a rendere, per quel che vale, una modestissima testimonian ­za sui complessi rapporti che correvano fra questo fiorenti ­no e Firenze, e che mi sembrano costituire il motivo ispiratore di queste stupende pagine, il loro sottofondo senti ­mentale.

*

Cecchi morì tre anni orsono, proprio di questi giorni. Fece dunque appena in tempo a ignorare l’alluvione che di lì a due mesi doveva deva ­stare la sua città. Spero di non recare oltraggio alla sua me ­moria dicendo che ne avrebbe sofferto atrocemente, ma con una punta di rabbiosa soddisfazione. Cecchi era in polemica con la Firenze d’oggi. Dai rari e rapidi sopralluoghi che vi faceva, tornava quasi sempre di malumore. Una vol ­ta mi disse: « A Firenze biso ­gnerebbe starci come ci stanno gl’inglesi dell’Ottocento: mantenendo le distanze e dandole del lei. Chi le dà del tu e si prende confidenze, come vien fatto a noi che ci siamo nati, prima o poi si trova iscritto nel Libro del Chiodo. Meglio prevenire il bando trasferendosi in una città di apolidi come Roma ». A indignarlo non erano o per lo meno non erano soltanto gli sconci della nuova edilizia. Debbo dire anzi che su questo era abbastanza corrivo. Sbaglierebbe chi lo prendesse per un sofisticato esteta alla Walter Pater col naso a puzzo per tutto ciò che si è fatto da Raffaello in poi. « Che non ci sentano le autorità – diceva, e mi fa piacere queste parole ritrovarle tal quali nel libro -. Ma nulla mi piace come le file di barroccini carichi di tessuti dozzinali, saponette da serve e reggipetti, assiepati intorno alle Cappelle Medicee. Sono incontri più forti dei regolamenti municipali. E mi fanno sempre pensare a quella pendice a sinistra del Partenone e dell’Eret ­teo, dove sulle casupole di bandone, coi miseri bucati tesi ad asciugare, l’aria eterna lontanamente risuona di grammofoni e del canto dei galli ».

A certe contaminazioni dun ­que ci stava. Ma le voleva di ingredienti autentici. La bottega di robivecchi o lo spaccio di vino incastrati fra una chiesa del Tre e un palazzo del Quattrocento gli andavano be ­nissimo. Ma il grande magazzino all’americana coi suoi lussi e i suoi lustri gli procu ­rava la crisi epatica. Non già per lo sfregio in sé, ma perché gli pareva il sintomo di una perversione più sostanziale e profonda: quella della misu ­ra, che per lui era tutto. « Il benessere â— mi ricordo di avergli sentito dire â— ha an ­che questa disgrazia: che non solo non si può rifiutarlo, ma bisogna anche benedirlo. E guarda cosa ti combina. Metti a confronto quello che face ­vano i toscani quando lavoravano nel povero, ch’era la loro seconda natura, con quello che fanno ora che lavorano nel ricco, o almeno nel bene ­stante… ». E masticava il boc ­chino della pipa con una smorfia da Conte Ugolino.

Per questo, lungi dall’auspicare l’imbalsamazione del Tre o del Quattrocento, arrivava comodo comodo fino all’Otto ­cento sebbene questo secolo sia, per Firenze, minore. Anche se non aveva più primati da difendere, la Firenze di Ca ­napone, del Risorgimento e della prima unità difendeva, se non altro, la sua anima. E con tale puntiglio che non la perse nemmeno negli anni in cui fu capitale.

*

Quel rango sproporzionato alla suo ossatura non le dette alla testa. Firenze subì qualche batosta edilizia, dovette piegarsi a certi impegni di “rappresentanza” come il rifacimento della facciata del Duomo che non se n’è più riavuta e, da antica qual era, è diventata soltanto vecchia, vecchia come solo riescono a diventarlo le cose rimesse a nuovo; perse il fascino romantico che di suo non ha, ma che gentilmente le avevano prestato certi transfughi del Nord, specialmente inglesi come i Landor e i Browning. Ma la cosa essenziale la salvò: quel senso delle proporzioni, quell’allergia al superfluo, con cui dovette fare i conti anche D’Annunzio, quando venne a acquartierarcisi. Vista dalla Capponcina, Firenze era ai suoi piedi, ma solo in senso topografico. Fu l’unica città che non condivise il culto del Vate e lo lasciò bollire nel suo brodo, cioè a sbrigarsela coi suoi creditori. « Si parla sempre â— dice Cecchi â— di fiorentino riserbo e cautela, e della fiorentina freddezza e scaltrezza, della fiorentina parsimonia e, perché no?, avarizia e gretteria. Ma cos’altro son esse se non prospettica in atto, percezione del limite che nella sua ostilità e resistenza dà anche un punto d’appog ­gio e di leva ai contrari? ».

*

Questo diceva, cioè aveva detto, perché negli ultimi tem ­pi non lo diceva più. Con Fi ­renze aveva cominciato a sdubbiarsi da quando aveva visto le ricostruzioni in atto fra Santa Felicita e Borgo Sant’Jacopo, fra Ponte Santa Trinità e via Por Santa Maria, che lo avevano inferocito più ancora delle distruzioni. « La guerra, si sa, è la guerra, e i tedeschi sono i tedeschi » di ­ceva come parlando di scate ­namenti vulcanici, di pazzi fu ­riosi o di bambini irresponsa ­bili dei malestri che compio ­no, « ma i fiorentini… ». E la stessa reazione di delusione, d’amarezza e di rabbia ritrovo in una pagina di questo libro: « Qualche antico popolo, pie ­no di civica religione, forse queste rovine le avrebbe ser ­bate intatte, venerandole co ­me memento, come voto. Ma popoli di coteste tempre in realtà non esistono che nei li ­bri per le scuole ».

Già. Ma il fatto è che Cec ­chi, sotto sotto, era convinto che i fiorentini fossero pro ­prio un popolo da libri per le scuole. Non riusciva a perdo ­nargli di non esserlo. Ed è morto covando in corpo que ­sta rabbia. Peccato. Se fosse riuscito a tirare in lungo qual ­che altro mese e avesse visto cosa questi fiorentini fecero, quando l’Arno li mise con le spalle al muro, con che un ­ghie, con che denti, con che grinta gli contesero non sol ­tanto le loro vite, le loro case e i loro beni, ma anche il loro civico patrimonio; se avesse visto con che amore e abne ­gazione, prima ancora che le loro macchine e la loro mobi ­lia, si misero a ricercare nella melma frammenti di capitelli, frontoni divelti e incunaboli scompaginati; credo che se ne sarebbe sentito consolato, e forse avrebbe chiesto di rive ­dere le bozze di questo libro.

Ma grandi correzioni, inten ­diamoci, non avrebbe trovato da farne. Il furore polemico che gli ha ispirato queste pa ­gine perfette resta sottinteso: bisogna possedere un orecchio molto fino per avvertirne, fra le righe, il chioccolio. Cecchi non appartiene alla famiglia, piuttosto consueta e dozzinale, del toscano bestemmiatore e squadrista avanti lettera, ti ­po Papini. Appartiene a quel ­la più antica e araldica dei Guicciardini che mettono tut ­to in ghiaccio, prima di ser ­virlo: anche il sangue dei lo ­ro nemici.

La Firenze attuale, nelle pa ­gine di Cecchi, fa capolino di rado e serve solo di contrap ­punto a quella di sempre, che egli vede come la continuazio ­ne di Atene. Non è stato lui a stabilire questo raffronto. Lo fecero già il Burckhardt, il Wölfflin, e non so quanti altri storici e umanisti. Sicché a molti orecchi suonerà come un luogo comune.

*

Ma di comune ha ben poco il modo con cui Cecchi lo ri ­costruisce e trova i punti di convergenza partendo dalle più divergenti e eccentriche notazioni per arrivare alla pro ­va conclusiva di quella con ­sanguineità: che non si esprime, o per lo meno non si esprime soltanto nell’imponen ­za delle forze creative, nella perfezione tecnica delle opere, e nemmeno in quella che un po’ vagamente si suole chia ­mare la « vocazione universa ­le » di Atene e di Firenze; ma piuttosto nella stupenda cora ­lità delle due culture, nel fat ­to che a protagonisti entrambe non avevano dei geni, ma l’agorà, la piazza, e in quel loro particolare carattere che si potrebbe riassumere come il senso rigoroso e inderogabi ­le del rapporto, e quindi la razionale essenzialità di tutto: linee, colori, parole.

Lo dico male, lo so. Se lo volete detto meglio, leggete questo libro di Cecchi. Io non posso competere con lui in nulla, neanche in chiarezza, sebbene egli mi facesse l’ono ­re di attribuirmene un po’. Ma quando si deve affondare la penna in certi scandagli che richiedono dosaggi da farma ­cista e misure da orafo, non c’è prosa che possa sostituirsi alla sua. Ogni volta che ne leggo uno scampolo, devo aspettare una settimana per ri ­trovare il coraggio e la voglia di cimentarmi con la mia.

 

 


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Bart