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LETTERATURA: I MAESTRI: L’ultimo Buzzati

16 Gennaio 2018

di Indro Montanelli
[dal “Corriere della Sera”, sabato 15 novembre 1969]

Sebbene lavoriamo nella stessa bottega, gli unici pe ­riodi in cui Buzzati ed io riu ­sciamo a stare parecchio insieme sono quelli di vacanza a Cortina. Il nostro modo d’intendere e praticare la montagna è molto diverso: lui la solca con gli sci o l’aggredisce coi chiodi del rocciatore, io la passeggio soltanto. Ma molte serate le passiamo fra noi e coi pochi amici che, fra tante conoscen ­ze, abbiamo in comune.

Quest’anno Buzzati s’è fat ­to veder poco. E quando glie ­ne chiesi il motivo, mi rispo ­se ch’era sprofondato fino ai capelli in un nuovo libro, su cui però non volle fornirmi spiegazioni. Mi disse soltan ­to che lo considerava un libro importantissimo, molto più importante del Deserto dei Tartari, de I sette mes ­saggeri, di Paura alla Scala: insomma il libro destinato a riassumere e a concludere la sua opera d’artista. Queste sono, si capisce, parole mie. Le sue sono sempre più di ­messe, smorzate, evasive e imprecise, tipo: « Un libro che… ehm… sbaglierò, ma in ­somma mi pare… nei limiti delle mie modeste possibilità, ecco, direi… qualcosa meno della Divina commedia, ma un po’ più del Faust… ». E uno lo guarda, e non riesce mai a capire se stia prenden ­do in giro noi o se stesso.

Comunque, gli dissi che avrei voluto occuparmene io, che me lo mandasse appena stampato. E ora sono qui a rigirarmelo fra le mani pen ­sando quanta ragione avesse la vecchia buona cara signo ­ra Buzzati, che a Dino non volle mai dare le chiavi di casa nemmeno dopo che eb ­be compiuto cinquantanni. La povera donna sapeva che uovo aveva covato. E ora lo sappiamo anche noi. Lo sap ­piamo da questo libro, in cui di Buzzati c’è tutto: il bello e il brutto, il buono e il cat ­tivo, la poesia e la sensualità, il candore e il sudiciume. Un mescolo da far paura.

*

S’intitola Poema a fumetti (Mondadori Ed., 220 pagg., 3000 lire), e la storia è presto raccontata: è la favola di un Orfeo moderno,  urlatore e capellone, che canta accompagnandosi sulla chitarra canzoni popolate di streghe. Queste si vendicano di lui por ­tandogli via la sua Euridice, e lui disperato la insegue nel regno dei morti: uno strano regno identico a quello dei vivi, ma surgelato. Non ci manca nulla: ci sono le scuo ­le, gli ospedali, le prigioni, i manicomi, i nights pieni di ragazze che fanno lo spoglia ­rello, perfino la TV. Manca una sola cosa, ma la più im ­portante: l’attesa, la paura, la speranza della morte, che que ­sto è appunto e nient’altro: la fine delle attese, delle paure e delle speranze.

Orfeo attraversa questo mondo che gli offre tutto ciò che in vita lo avrebbe più tentato, ma che non dà più brivido né a lui., né agli altri inquilini di questo Ade. Invano pattuglie di « segnorine » appostate a tutti gli angoli lo adescano nelle pose più invereconde. Orfeo cerca la sua ragazza, non vuole che lei, la chiama con le sue canzoni, e alla fine la trova su un convoglio che sta per partire col suo carico di neo-morti. Gli hanno dato, gra ­zie al suo canto, ventiquat ­trore di tempo per portarse ­la via, e ci prova, e lei vor ­rebbe, ma non può. Allo sca ­dere del termine, una irre ­sistibile forza gliela strappa dalle braccia, e deve tor ­nare nella vita da solo con la sua inutile chitarra.

Le parole che raccontano questa vicenda saranno mille. Ma quelle che contano sono le figure perché, come avrete capito e come del resto il titolo dice, le duecentoventi pagine sono in realtà duecentoventi tavole, anzi di più perché in molte ce ne sono più d’una. Cioè, qui non siamo più nella letteratura, ma nella pittura.

*

Questo sconfinamento non è, per Buzzati, una novità. Io non ho, di fumetti, la competenza di Umberto Eco. Non so quando siano nati, né perché, né a che bisogno rispondono, né che servizio o disservizio rendano.  So soltanto che già nel ’40, cioè molto prima ch’essi diventassero, come si suol dire, un « fatto culturale di massa », Buzzati ne aveva offerto uno scampolo in quel piccolo capolavoro ch’era L’invasione degli orsi in Sicilia. La sua conversio ­ne al racconto per immagini non ha quindi nulla d’improv ­visato, non è il tentativo di accodarsi ad una moda. E del resto è logico, visto che ac ­canto al Buzzati scrittore, c’è anche, ormai da un pezzo ac ­creditato, un Buzzati pittore.

Come vada considerato, non lo so. A sentir lui, questo secondo Buzzati è più importante del primo. Ma lui è meglio non stare a sentirlo perché Dino Buzzati, di Buzzati Dino, è quello che capisce meno. Io di pittura non mi intendo, ma una cosa debbo dire: che quella di Buzzati la riconosco a colpo perché ci riconosco lui. E posso ripe ­terlo anche dopo aver sfo ­gliato questo libro-film, che anzi più buzzatiano di così non si potrebbe immaginare.

Ve lo ricordate il favoloso e favoleggiante autore del Deserto dei Tartari, con le sua pagine piene di nulla, con la sua prosa casta e dimes ­sa, sottilmente ambigua, con quel suo raccontare à bí¢tons rompus che suggeriva molto più di quanto dicesse e forse di quanto egli stesso imma ­ginasse, il friggitore d’aria, il poeta delle atmosfere?

Be’, lo ritrovate anche qui, ma con in più tutto quel ­lo che c’era sotto. E cosa c’era! E cosa c’è! Ora comin ­cio a capire perché Buzzati è tanto affezionato al pennello. E’ la sua psicanalisi, la tena ­glia che gli consente di af ­ferrare il mostro che si por ­ta annidato nelle viscere e di liberarsene. E ora capisco an ­che perché fu tanto attirato dalla storia manzoniana â— lui che con Manzoni ha così poco da spartire â— della co ­lonna infame, da ricostruirla in un dramma che meritava una sorte molto migliore di quella che ebbe. Fosse nato trecent’anni fa, Buzzati sareb ­be stato uno di quei caccia ­tori di streghe che bruciava ­no negli altri quelle che ave ­vano in corpo. Oggi, dopo il passaggio di Freud, per libe ­rarsene gli basta rappresen ­tarle. Ecco perché dipinge.

Le streghe di Buzzati sono delle ragazze fra i sedici e i vent’anni, ma più sui sedici che sui venti, dal volto cat ­tivo e vizioso, tutto bocca, dallo sguardo opaco, dalle carni pigre e bianche di oda ­lisca, dalle forme rotonde e abbondanti. Fra loro si somi ­gliano tutte perché hanno in comune una capostipite che nella vita di Buzzati c’è stata davvero, e per anni gliel’ha esaltata e dannata. Lo dico perché l’ha raccontato egli stesso (Un amore) con esemplare impudicizia. Il suo eterno femminino è, povero lui, questa adolescente ottusa, opaca e gran lettrice – c’è da giurarlo – di fumetti. Ne è talmente ossessionato, che ha cercato di ritrovarlo anche in sua moglie.  Per fortuna, gli e andata male.

*

A questo punto si capisce che il pericolo di Buzzati è di scadere nella pornografia. E non è che lui cerchi di evitarlo. Anzi, ci si prova, e qualche volta lo rasenta an ­che in questo libro, anzi so ­prattutto in questo libro. Se non ci casca, è perché Buz ­zati rimane artista e poeta anche quando non lo vuole. Invano si accanisce sulle in ­verecondie di queste femmi ­ne e indugia sulle loro ro ­tondità e le palpa e le deliba. Ogni poco il pennello gli scantona in qualcuno di quei paesaggi di fiaba o su quelle guglie di cattedrale gotica o in quegli scorci notturni e squallidi di città atomizzate, o in quei simboli e allegorie, che ci riportano alla sua più vera e genuina ispirazione.

Eppoi, a salvarlo, ci sono altre due cose. Primo, l’aller ­gia di Buzzati al senso del peccato. Come tutti gl’inno ­centi, Buzzati ne è assoluta ­mente privo: non è un im ­morale, è un amorale, e quin ­di su questo piano non lo si può nemmeno giudicare. Se ­condo, la morte: che qui la fa addirittura da protagoni ­sta, e la si ritrova dappertut ­to, corruttrice e redentrice, anche nelle pieghe più ripo ­ste e ambigue di quei nudi femminili.

Buzzati ha con lei un’an ­tica dimestichezza. E’ un po’ la sua balia che lo segue passo passo, qualche volta lo perseguita con la sua ossessiva incombenza, ma regolarmente lo salva dalla caduta nel volgare, come fa anche in questa fumettata che, senza di lei, Dio sa dove sarebbe andata a parare.

Mi dicono che il Poema va già a ruba. Ma temo che ci vada per ragioni sbagliate. Esso non è un Diabolik per commendatori in fregola di balletti rosa. Potrebbe anche essere qualcosa di meno. Ma è certamente qualcosa di diverso: il viaggio di Buzzati nel proprio subconscio, la spudorata denuncia del mostro che vi si annida, un candido Karakiri. Se questo rimarrà il libro capitale di Buzzati, il suo Faust, lo vedremo. Ma certo ci dà di lui   quello che ancora la gente non sapeva e che forse avrebbe pre ­ferito seguitare a ignorare.

Non ammiriamo il suo co ­raggio. Ammiriamo, come al solito, la sua innocenza.

 

 


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Bart