LETTERATURA: I MAESTRI: La grande pioggia26 Luglio 2018 di Ercole Patti Certe volte mi capita di desiderare la pioggia, una di quelle piogge lunghe lunghe e calme che circondano le case di campagna o di provincia e sembrano isolarle dal mondo; allora è piacevole mettersi a lavorare o a leggere in un an golo ascoltando il quieto ru more della pioggia sul terrazzo e sui vetri. Ricordo intermi nabili piogge degli anni del l’infanzia in vecchie case di villeggiatura, piogge che se gnavano la fine delle vacanze e lo straziante inizio dell’an no scolastico. Ma la più lunga e furibonda pioggia della mia vita, quella che non ho potuto dimenticare mi sorprese a Trecastagni un piccolo paese sulle falde del l’Etna, diversi anni fa verso la metà di novembre. Pioveva già da parecchi giorni, una pioggia noiosa a intervalli che dopo qualche ora di schiarita ricominciava come prima. Una mattina di ventò fortissima; sembrava uno di quegli acquazzoni che per la loro intensità sono de stinati a durare poco. Ma le ore passavano e continuava a piovere con lo stesso ritmo. Da dietro i vetri della casa che era stata dei miei nonni vedevo cadere l’acqua, scorre re sul lastricato scuro, saltel lare in tante campanelle sulle ringhiere dei balconi, sulle botti vuote che stavano nel cortile come ai tempi dell’in fanzia. La giornata trascorse così e anche la notte; svegliando mi sentivo la pioggia contro i vetri e sulle foglie del vecchio glicine che ricopriva la terraz za. La mattina il cielo era scuro e fumoso e la pioggia continuava furiosa come se fosse cominciata proprio allora. Dal cielo opaco giungeva una lu ce scialba, da sacrestia, che si posava sui vecchi mobili dei miei bisnonni, sugli armadi a specchio, sulle credenze con l’alzata di legno scolpito, sulle cristalliere gremite di piatti e di bicchieri che stavano lì da cinquant’anni senza mai esse re adoperati. * Per due giorni continuò così. Il terzo giorno all’alba la pioggia si intensificò; si era levato un vento affannoso che lanciava l’acqua, a folate, con tro i vetri, come se fosse but tata con un secchio. Nei mo menti di sosta del vento si sentiva un fragore fermo e continuo come di rubinetti aperti. I vetri colavano tre molando, sembravano scio gliersi e lasciavano appena in travedere la strada e le tegole della cantina di fronte: il cam panile della vecchia chiesetta delle Anime del Purgatorio, vicinissimo, si vedeva come un’ombra leggera. Il tubo di latta del palmento lanciava da tre giorni un getto fisso e potente che rovinava a catafascio sulla strada. Quel rumore non cessò mai, nean che un secondo, per tre giorni. La cisterna del cortile traboc cava. L’acqua passando sotto i battenti dei balconi si allar gava silenziosamente sui pa vimenti, girava attorno ai pie di delle poltrone e dei tavoli, si spingeva fin sotto i divani e le consoles panciute sulle quali riposavano lumi antichi e vasi istoriati. La macchia di umidità che era apparsa al cuni giorni prima sul soffitto della stanza da pranzo si in grandiva sempre più fino a coprire metà della volta, at taccava già la carta da parato, scendeva verso il basso, scura e minacciosa. La strada del paese era mol to ripida, l’acqua la ricopriva di un torrente nervoso e ve loce. Da tre giorni mancava la corrente elettrica. I lumi a pe trolio diffondevano sin dalle prime ore del pomeriggio una luce fioca che gettava lunghe ombre di poltrone, di tavoli a tre gambe, di alti letti in ferro battuto, di massicci comò con tro le pareti. Gli echi della pioggia risuonavano fin den tro gli antichi ripostigli bui, stipati di roba fuori uso, tra parasoli ottocenteschi imbotti ti all’interno, bastoni anima ti, fucili ad avancarica, pistole da arcione, scatole di cartucce da caccia vuote, tappi, palli nacci, specchietti per le allo dole, ammucchiati alla rinfu sa. L’assedio della pioggia ci teneva prigionieri con tutti quegli oggetti. La piccola radio, bianca e bucata come un teschio, era muta; sembrava tacesse da anni. Gli stracci che erano stati ammassati sotto i battenti dei balconi erano zuppi, bisognava cambiarli e strizzarli continuamente. * Durante una breve tregua del vento venne il massaro, balbettando di ter rore, ad annunciare che un torrente aveva rotto l’argine e si era portata via mezza vigna. L’acqua nella stalla era salita a un metro e mezzo. Il bove, con i suoi occhi innocenti, si era messo a nuotare accan to alla mangiatoia, cercando scampo; il massaro si era get tato nell’acqua per salvarlo. Andammo nella vigna, ai piedi del paese. Là dove fino al giorno prima erano viti e alberi di pere e di albicocche in dolce pendio, si apriva ades so una larga voragine ripida che ai margini lasciava vedere radici scoperte e contorte nel l’aria come mani disperate che cercassero di aggrapparsi. Un grosso pero era rotolato giù per un centinaio di metri e giaceva riverso con le radici all’aria e le foglie ancora fre schissime, come un assassi nato. Un largo strato di terra era stato portato via dal rovinare delle acque fino a scoprire le nude rocce sottostanti. Le gros se pietre del muro crollato era no sparse a grande distanza una dall’altra; e la vigna, più giù, sul piano, era ricoperta dalla terra venuta giù dall’alto. Su quella piattaforma scura si vedevano affiorare appena le punte dei pali che sostenevano le viti sotterrate e qualche fangoso virgulto. Era tutto quello che rimaneva della vi gna. * Quel pomeriggio smise di piovere, ma il cielo rimase sempre dello stesso colore. Andai verso la piana di Ca tania. Il vento ci soffiava ad dosso aria bagnata. Il dritto stradale di Primosole, appena appena affiorato dall’acqua, correva in mezzo a due ster minati laghi. Le pietre bianche che segnano i chilometri, scar dinate alla base, giacevano ri verse con la radice scoperta come giganteschi molari strappati. Il paesaggio non si ricono sceva più. C’erano sui semi nati degli acquitrini immensi sui quali le anatre selvatiche e gli stornelli, grassi e neri, planavano a frotte. Si sentiva nell’aria carica di umidità qualche schioppettata. Alcuni proprietari saliti su un poggio cercavano col canocchiale le loro terre senza riuscire a ri conoscerle fra tutta quell’ac qua. Nei campi allagati, fra gli aranceti sommersi nel fango, si trovavano uccelli conigli e porcospini uccisi o storditi dall’alluvione. I contadini li raccoglievano e ne riempivano sacchi che poi vendevano a peso. Le quaglie, sbigottite, se ne stavano a terra rannicchiate contro i muretti e le pieghe del terreno e si lasciavano prendere con le mani guar dando coi loro occhi rotondi e miti. Avevano appena un piccolo fremito che si avver tiva tra le dita assieme al bat tito precipitoso del cuore. Ne furono raccolte centinaia di sacchi. Quando la mattina dopo, tra quel buio muto e limaccioso, venne fuori il sole e illuminò le distese d’acqua, i profili delle colline, le chiome degli eucalipti e degli ulivi dalle foglie minute e chiare, sembrò l’inizio della creazio ne del mondo.
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