LETTERATURA: I MAESTRI: La terza saletta28 Luglio 2018 di Ercole Patti La terza saletta di Aragno quale apparve ai miei occhi di studente diciassettenne ar rivato caldo caldo da Catania, fu una visione quasi sopran naturale. Ne avevo sentito par lare molto, avevo letto arti coli sui giornali e trafiletti nel le « Cronache di attualità » e nell’« Index » di Bragaglia, co noscevo i nomi di parecchi suoi frequentatori famosi let terati pittori giornalisti. Vi entrai per la prima volta con molta emozione un pome riggio di febbraio di molti an ni fa; fuori tirava la prima tramontana romana della mia vita. La saletta era immersa in una mite penombra e in un dolce odore di sigaro che non ho più dimenticato; la luce entrava attraverso i vetri smerigliati delle due alte finestre che davano su via delle Convertite, sotto le quali correva il divano grigio che faceva il giro della sala interrotto sol tanto dal varco di accesso. Quasi tutti i tavoli erano oc cupati; mi sedetti sotto la pri ma finestra e cominciai a guar darmi in giro ispezionando i tavoli nella speranza di rico noscere qualche personaggio ma a un primo esame non vidi che volti sconosciuti. Sul tavolo di spesso marmo c’erano disegni dai tratti si curi schizzati certamente dalla matita di un pittore forse ce lebre. Di fronte a me attira rono l’attenzione più degli altri due tavoli gremiti dai quali si levava il clamore di accese conversazioni che rimbombava nella sala. Mi misi a esami nare una per una le persone sedute a quei due tavoli. Pro prio nell’angolo c’era un uo mo brizzolato con due grossi occhiali; teneva fra le gambe un rustico bastone, era in fagottato fra maglioni e panciotti, una erta sciarpa di lana gli circondava il collo. Di tan to in tanto piazzava una bat tuta con accento toscano nella conversazione. Accanto a lui c’era uno con un ciuffo che gli scendeva sulla fronte, in quel personaggio riconobbi fa cilmente Giorgio de Chirico dai ritrattini e dalle caricature che di lui avevo visto sui giornali. Scoperto De Chirico mi concentrai su quel tavolo; era lì che dovevano trovarsi gli artisti. Uno rivolgendosi all’uomo infagottato lo chiamò per nome e allora capii che si trattava di Armando Spadini. In piedi appoggiato al tavolo c’era un giovane dal viso pienotto che mi attirò per la piccolezza della sua statura; andava scarabocchiando con una matita sul marmo. Pro tendendo al massimo l’orec chio afferrai un po’ alla volta i nomi di Baldini Cardarelli Broglio Barilli Soffici. Il gior no dopo alla stessa ora tornai da Aragno; il tavolino accanto a quello degli artisti era libero e lo occupai. Loro non mi guardarono nemmeno, ero troppo ragazzo per poterli interessare. Stavolta li indivi duai uno per uno: Cardarelli pontificava al centro del ta volo e potei seguire a qual che metro di distanza uno di quei suoi affascinanti ragio namenti che in seguito avrei dovuto sentire per tante sere ai tavoli delle osterie o cam minando al seguito del poeta nelle strade notturne di Roma fino all’alba. * Seppi quel giorno che il piccolo giovane che disegna va sul marmo era il pittore Amerigo Bartoli che in quell’epoca pubblicava disegni sul settimanale umoristico II monocolo. Guardavo da lontano Bartoli vivacissimo pieno di istinto, artista fin nelle più ri poste fibre, che in seguito do veva diventare il mio più ca ro amico. Antonio Baldini ro seo e sorridente, Broglio dal volto liscio e pieno un poco antipatico, Soffici dalla testa completamente pelata sebbene appena quarantenne. Ma ancora quei tavoli di artisti affermati non erano per me studentello appena uscito dal liceo, non avevo nessun numero per potermici avvici nare. Uno dei miei primissi mi amici romani fu invece Gualtiero di San Lazzaro ra gazzo come me con problemi giornalieri di alloggio e di pa sti. Specie nella seconda metà del mese il problema dei pa sti si affacciava imperiosamen te anche per me e spesso con San Lazzaro andavamo a man giare in piedi nella rosticce ria di Nanni Federico a San t’Andrea delle Fratte qualche supplì o se avevamo più soldi una costolettina di abbacchio di quelle col finto osso infi lato dentro. Ci fu un periodo in cui Gualtiero di San Lazza ro per tirare avanti faceva i conti alla cassa in una picco la trattoria di via dei Serpen ti; mangiando lì potevo avere forti agevolazioni sul conto. Certe volte quel ragazzo dal nome araldico che faceva pen sare all’ottocentesco protago nista di un romanzo di ap pendice dormì sul divano di qualche mia camera ammobiliata. Non avevamo ancora venti anni. Di San Lazzaro aiutava Cesare Giulio Viola a compilare un settimanale del Lazio; poi fece l’aiuto del cronista giudiziario del Mes saggero. Da lui ebbi certe gra ziose cartelline gialle da boz ze che allora si usavano al Messaggero, su queste cartel le lisce e gialline iniziai, e ancora ne conservo le prime uniche 53 pagine, il mio primo romanzo catanese mai completato I Barbagallo * La mia vita di quegli anni gravitava tutta da Aragno. Non soltanto nella terza sa letta ma anche nella seconda dove venivano sempre uomi ni politici dell’epoca. Facta presidente del consiglio pren deva in un angolo due uova al burro prima di rientrare a Montecitorio. Seduto solo a un tavolino avevo imparato a conoscere i volti di molti frequentatori che non sapevo chi fossero: un giovanotto con la bombet ta buttata sulla nuca, il cap potto dal collo di pelliccia e le basette nere fino a mezza faccia; uno con la caramella, un altro con gli occhiali neri e il cappellaccio a larghe fal de; aspiranti letterati che si davano un certo tono e che poi non vennero fuori, gior nalisti vocianti di cui afferra vo a volo i nomi poi scom parsi nell’oblio. Risento l’odore solleticante di inchiostro dei grossi quoti diani dalla carta morbida che gli strilloni portavano dentro: Il tempo di Naldi, Il giornale di Roma di Monicelli, La tri buna, L’idea nazionale. Da Aragno passavo nelle latterie, le mie prime latterie romane: la luce debole e fred da sui marmi gelidi e graffiati da mattatoio, sulle mattonelle di smalto identiche sebbene meno brillanti a quelle degli alberghi diurni Cobianchi. Latterie di Campo Marzio sempre piene di segatura sul pavimento grasso, acciottolio di piattini e di cucchiaini. Ma linconia delle due uova al burro pallidissime nel tegami no ammaccato. Si vedeva at traverso il vetro il movimento minuto della strada, la bottega del pizzicagnolo, la caldarrostara imbacuccata accanto al fornelletto rovente delle ca stagne. Entravano le camerie re delle case vicine su molli scarpe di pezza portando dentro nei grembiuli neri un odo re madido di nebbia e di ri sciacquature. Ma l’enorme carica di af fetto e di gusto di vivere che emanava dalla mia persona si riverberava su tutte quelle per sone estranee, quelle botteghe e quegli oggetti che erano di tutti e che io amavo come se fossero esclusivamente miei. I negozi le drogherie le pollerie mandavano sulla strada un fiato vitale, sembravano arde re di felicità coi loro polli spennati ciondolanti dagli uncini e i cesti delle uova fresche da bere raffreddati dall’aria invernale. Letto 941 volte. 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